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giochiamo con i pregiudizi (per non fare la guerra)
Intercultura ed educazione alla pace
Giochiamo con i pregiudizi (per non fare la guerra)
La tragedia degli attentati terroristici dell'11 settembre negli Stati
Uniti ha generato i sentimenti più vari. Nella scuola questa sciagura è
entrata come lezione di storia e di vita. Accanto al dolore e alla
compassione è nata una legittima voglia di giustizia che però ha preso
direzioni a volte divergenti, da quelle positive e civili a quelle più
macabre e vendicative, fino a giungere alla "non esclusione dell'arma atomica".
Tutto ciò, supportato da una imponente campagna giornalistica, ha finito
per coinvolgere studenti e insegnanti in un processo educativo con elementi
espliciti ed altri impliciti, a metà fra l'informale e il formale, in una
"scuola di fatto" che si è prolungata per settimane. Studenti e insegnanti
hanno "assorbito" una lezione dai fatti storici, a volte sono riusciti a
produrre una cultura attiva capace di inquadrare i processi educativi
esterni anziché essere inquadrati e governati da essi. Scuola e altre
agenzie educative (a partire dai media televisivi e dai giornali) si sono
confrontate con linguaggi diversi e hanno dovuto fare i conti con un
preoccupante elemento: il risorgere del razzismo e dei pregiudizi contro
gli arabi e l'Islam.
La legge del taglione e della vendetta, studiata sui libri di storia con
spirito critico come appartenente al Codice di Hammurabi di quattro
millenni fa, è stata proposta da alcuni capi di stato come "la lezione" da
dare. La cattedra mediatica ha sovrastato per potenza e mezzi la cattedra
scolastica. Decenni di educazione post-fascista hanno rischiato di cedere
il passo all'impatto educativo e diseducativo delle reazioni vendicative
alla tragedia. Dal punto di vista dell'educazione interculturale è
rischiata di saltare, dopo l'11 settembre, quella regola della tolleranza e
del dialogo su cui per anni gli educatori alla mondialità avevano investito
le proprie idee ed energie. Il pregiudizio verso l'Islam è dilagato negli
Stati Uniti e ha lasciato il segno anche in Italia. Lo stesso presidente
Bush ha dovuto lanciare un grido di allarme: "Trattate con rispetto gli
arabi di origine americana e i musulmani. Non sfogate su di loro la vostra
rabbia". Ha dovuto essere esplicito nello smentire il messaggio implicito
sotteso alla retorica dilagante tutta protesa verso la "caccia al
terrorista islamico", ha dovuto frenare la rabbia amplificata dai media e
ritradotta nella semplificazione del senso comune in odio verso il diverso.
Sì, perché sono bastate vaghe somiglianze con le fattezze di Bin Laden per
scatenare la caccia al terrorista arabo.
Vi sono storie esemplari che come insegnanti abbiamo letto insieme ai
nostri studenti per comprendere meglio il significato di concetti come
"stereotipo" e "pregiudizio" e, di conseguenza, il valore critico
dell'educazione interculturale come educazione alla tolleranza e al dialogo
fra culture diverse. Diverse, non superiori o inferiori, come ha fatto
invece un noto capo di governo.
Vediamo queste storie, come quella del 49enne Balbir Singh Sodhi,
proprietario di una pompa di benzina in Arizona. Dopo l'11 settembre era
stato minacciato da qualcuno che parlava di vendetta, di giustizia. Balbir
era di religione sikh, non musulmano. Nessun legame con gruppi di
terroristi. Ma portava il turbante e la barba. "Molti non comprendono -
spiega il fratello - che i sikh portano la barba e il turbante e quindi
assomigliano a Osama Bin Laden, ma non solo non hanno nulla a che vedere
con il miliardario saudita, non sono nemmeno musulmani". Un uomo è entrato
nella sua piccola stazione di servizio e gli ha sparato.
Ma chi è l'assassino? E' Frank S. Rocque, descritto come un tranquillo
cittadino. Non un maniaco ma un bravo americano, di quelli che seguono la
TV e che credono a tutto quello dice la TV. Rocque ha ucciso un uomo che
portava in testa un turbante e aveva la pelle quel tanto più scura da
generare sospetto e pregiudizio. Non soddisfatto della "missione", Rocque
ha poi sparato a un musulmano e ha aperto il fuoco irrompendo in casa di
una famiglia afghana, fortunatamente senza ammazzare più nessuno. Ma a fare
riflettere è soprattutto la giustificazione che Rocque ha dato al suo
gesto: "Sono un patriota, sono un dannato americano. Voi poliziotti mi
arrestate e lasciate che i terroristi siano liberi di compiere stragi
quando e come vogliono".
Altri episodi fanno riflettere. Guardshan Singh, un sacerdote sikh a
Rockville nel Maryland, stava andando a donare il sangue per i feriti del
World Trade Center. Due uomini lo hanno aggredito a sprangate spaccandogli
una gamba. Singh ha affermato: "Che devo dire? Capisco la rabbia, so che
c'è ignoranza sulla nostra religione ma la gente dovrebbe usare la testa e
non solo gli occhi".
"Tratti somatici, barbe, capelli e vestiti che ricordino i presunti
kamikaze di New York e Wahington sono diventati, quindi, terribili marchi
d'infamia" scrive il giornalista Giannino Della Frattina ("Il Giornale",
17/9/01) che aggiunge: "Le scuole coraniche sono vuote, nelle tante moschee
poche voci recitano le preghiere. Inevitabile, dopo gli attacchi ai luoghi
di culto islamici. Qualcuno ha scagliato una bomba incendiaria contro la
moschea di Denton, in Texas. La polizia ha arrestato un uomo che cercava di
dare fuoco a quella di Seattle. Sconosciuti a Lynnwood, nello stato di
Washington, hanno deturpato con vernice nera il muro di un tempio
musulmano. A Evansville, in Indiana, un uomo è andato a sbattere con la sua
auto contro un centro culturale islamico. E' sceso dalla vettura e ha rotto
i vetri dell'edificio a pugni. A Bridgeview, sobborgo di Chicago, la
polizia è intervenuta per respingere una folla di trecento persone che,
infuriate, marciavano verso una moschea. Nel sobborgo di Palos High un uomo
è stato arrestato per aver attaccato a colpi di machete un benzinaio
marocchino. A Los Angeles sono stati denunciati almeno undici episodi di
intolleranza anti-araba, molti dei quali con uso di armi da fuoco".
New Jersey dove un capo spirituale musulmano è stato aggredito da un uomo
ed è stato salvato da una donna incinta che passava di lì. Una donna
pakistana è stata inseguita nel parcheggio di un centro commerciale da un
ubriaco che la voleva investire e il quale si è così giustificato: "Sta
distruggendo il mio paese".
Spiega l'inviato speciale a New York Carlo Piano ("Il Giornale 20/9/2001):
"A generare questa ondata di isteria collettiva sono stati i quotidiani che
regalano poster a doppia pagina del nemico numero uno. "Wanted dead or
alive" è stampato sulle t-shirt in vendita per dieci dollari all'angolo
della Sesta avenue e 34' street, un mirino incornicia il terrorista
miliardario mentre si accarezza la lunga barba. Alla fine tanto battere
sull'odio ha scatenato la cieca violenza dell'America esasperata. Prime
vittime sono stati gli indiani sikh che, da una settimana a questa parte,
stanno cercando inutilmente di spiegare all'opinione pubblica che,
nonostante barba e turbanti, non hanno nulla a spartire con l'Islam e
talebani".
Dal tragico 11 settembre di New York, Washinghton e Pittsburgh, molte
persone che sono o semplicemente assomigliano a mediorientali e indiani
sono state picchiate, insultate, inseguite e per l'appunto assassinate.
Come ad esempio Adel Karas, un egiziano cristiano copto di 48 anni,
freddato nel suo negozietto di droghiere a San Gabriel in California:
"Sporco arabo terrorista", ha gridato l'assassino esplodendogli due colpi
di revolver. O come il pakistano musulmano, Waquar Pasan, 46 anni, che è
stato trovato riverso sul pavimento con una pallottola in fronte nel suo
piccolo supermercato nel quartiere Pleasant Grove di Dallas. Gli
investigatori escludono la rapina: "Nella cassa c'erano tremila dollari e
nessuno li ha toccati, inoltre non ci risulta che la vittima avesse nemici.
Il movente sembra essere l'odio razziale".
A Cleveland e West Sacramento bande di vandali hanno distrutto con mazze da
baseball i loro templi, a San Matteo, in California, ignoti hanno lanciato
una bottiglia incendiaria nella casa di una famiglia sikh colpendo alla
tempia un bambino di tre anni. Solo per caso la bomba non è esplosa.
La situazione è talmente degenerata che il primo ministro indiano Atal
Bihari Vajpayee ha dovuto telefonare al presidente Bush chiedendo i
proteggere i suoi connazionali. Se il mezzo milione di sikh che vivono
negli Usa accettassero di rinunciare al turbante, il problema sarebbe forse
risolto, ma la loro religione non lo consente. "Potete strapparmi anche lo
scalpo - dice combattivo Prabhjot Singh, 22 anni, consulente tecnologico di
Manhattan - ma per togliermi il turbante prima dovete uccidermi"."
Ma il lavoro in classe non si deve limitare a leggere questi episodi che
sembrano essere spuntati dalle pagine del libro di storia, capitolo "guerre
di religione". Occorre avvicinarsi al "nemico", conoscere l'"altro",
rischiare il confronto, scoprire infine l'uomo che c'è nel prossimo.
Significativa l'intervista ad Ali Abu Shwaima presidente del centro
islamico della Lombardia: "Chiunque uccida un uomo - afferma - è come se
uccidesse tutta l'umanità, mentre chi salva una vita è come se la salvasse
a tutta l'umanità". E parlando dei terroristi dell'11 settembre dice:
"Condanno il gesto, i suoi autori, esprimo sgomento per questa immensa
tragedia che sconvolge l'umanità. Qui non c'è neppure l'ombra di Allah.
Nulla di tutto questo fa parte dell'Islam che dà valore prioritario alla
vita. No al suicidio, no all'omicidio. La nostra religione considera
musulmani tutti i bambini fino all'età della ragione. Anche quelli
cattolici. Mai e poi mai può essere tollerato l'assassinio, soprattutto di
giovani vite, come è successo a New York".
Ecco cosa pensa dei kamikaze? "Penso che si tratti di persone disperate, di
gente ridotta all'ultimo stadio esistenziale, di uomini depressi o malati o
sconvolti. Gente che non ha più nulla da perdere, da chiedere, e che quindi
fa un ragionamento di questo tipo: tu mi hai tolto tutto, mi hai
annientato, distrutto, umiliato, tu mi stai uccidendo e io mi uccido da
solo e porto anche te, mio nemico, nella stessa tomba". Interviste come
questa (raccolta da Andrea Pasqualetto su "Il Giornale" per la cronaca di
Milano del 17/9/2001) sono utili per costruire ricerche, cominciare
confronti con le culture e le religioni diverse, disarmare la mente dalla
violenza e armandola di curiosità e di spirito critico.
Gli studenti che hanno avuto modo di confrontarsi con un percorso
interculturale di "decontaminazione" dalla violenza e dall'intolleranza
hanno scritto cose interessanti. Un esercizio stimolante è scrivere un
copione di dialogo basato sul pregiudizio: "Dialogo fra una persona che
accusa i musulmani e una che li difende". La rappresentazione e la
drammatizzazione consente un distanziamento critico, la realizzazione di un
copione agevola il distacco fra l'attore e il testo da recitare, la
necessità di scrivere una risposta costringe lo studente a mettersi nei
panni dell'altro che non la pensa come lui. L'intercambiabilità dei ruoli
rende meno assoluto e monolitico il punto di vista iniziale e impone la
ricerca dell'antitesi. La vita diventa dialettica e non mero discorso
televisivo a senso unico.
Un'altra esperienza interessante è la realizzazione di un laboratorio di
simulazione dello staff del presidente Bush in cui gli studenti hanno
dovuto prendere in considerazione tutti i pro e i contro di ogni scelta, ad
esempio la ricaduta delle varie opzioni militari o diplomatiche sul settore
economico (borsa) e dell'opinione pubblica (nazionale e internazionale).
Questa simulazione ha delle regole anche "nascoste" che complicano e
rendono avvincente il gioco generando situazioni che fanno riflettere sul
pregiudizio (il Presidente viene segretamente informato dalla CIA che nello
staff c'è una spia) e sui nefasti effetti che può avere. Il "kit" del
laboratorio è sul sito di PeaceLink
all'indirizzo http://www.peacelink.it/webgate/scuola/msg00280.html
L'intercultura si rivela un terreno di sperimentazione finalizzato a
studiare e a "recitare" i pregiudizi.
Giocare e smontare i pregiudizi, farli emergere, recitarli con serietà o
con un pizzico di caricaturalità è forse una buona strategia, specie quando
l'odio e la guerra sembrano lavorare per farli scendere giù giù e
cementarli nelle bassezze più profonde dell'animo umano.
Alessandro Marescotti
BOX
Maria Teresa Tarallo
"Con il mondo a scuola" (2 volumi dal costo di L.15.000 ognuno)
Edizioni Multimage
"Con il mondo a scuola" è una coppia di volumi nati da un'esperienza
scolastica basata sull'educazione alla pace e all'intercultura. Il primo
volume raccoglie le esperienze sul campo e il secondo i riferimenti
culturali e pedagogici su cui tali esperienze sono basate. Nati da percorsi
nella scuola elementare questi libri sono una sorta di "addio" ai suoi
bambini essendo Maria Teresa quest'anno passata alle superiori. In
particolare vengono esposte le esperienze realizzate con l'Aifo. Il
ricavato del libro, detratte le spese vive, andrà a finanziare la "Casa di
Anita", realizzata da Amani e da padre Kizito a Nairobi per l'accoglienza
delle bambine di strada.
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Nota dell'autore.
Questo articolo, corretto e sintetizzato sarà pubblicato su "Amici dei
lebbrosi". Non è pertanto consentita la pubblicazione da parte di altre riviste.