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Elisa Springer: "Il silenzio dei vivi"
Fonte: http://www.nonluoghi.it/springer.html
Elisa Springer aveva 26 anni quando venne deportata, nell'agosto del 1944
ad Auschwitz. L'abbiamo incontrata a una presentazione del suo libro "Il
silenzio dei vivi", scritto ad oltre cinquant'anni di distanza da quel
capitolo tragico della sua vita.
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Lo sterminio e il silenzio dei vivi
Elisa Springer: l'orrore di Auschwitz e la violenza di chi non ascoltava.
Né prima né dopo
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di LUCA FREGONA
"Mi ricordo molto bene di Bolzano. Quando sono tornata dal lager,
nell'estate del '45, siamo passati per la stazione. C'erano decine di
bambini che ci gettavano le mele. E' stata una cosa bellissima".
Figlia di una ricca famiglia viennese, Elisa Springer ha perso nello
sterminio i genitori e la quasi totalità dei parenti. Scappata in Italia
nel 1940 per sfuggire alle persecuzioni in Austria, è stata arrestata nel
giugno del 1944 a Milano e da lì deportata ad Auschwitz-Birkenau in agosto.
In seguito è stata rinchiusa anche nei campi di Bergen-Belsen e
Theresienstadt. Dopo la liberazione è tornata a vivere nel nostro paese, a
Manduria, in provincia di Taranto.
Signora Springer, perché ha scelto di raccontare la sua storia solo dopo
così tanto tempo?
Perché prima nessuno voleva ascoltare. Il mio silenzio è stato causato
dal silenzio degli altri. Questo è il motivo per cui tantissimi
sopravvissuti ancora oggi non parlano. Quindi ribalterei la sua domanda e
chiederei "perché questo silenzio sulla Shoà per 50 anni da parte degli
"altri"?".
Il titolo del suo libro, "Il silenzio dei vivi", ha dunque un duplice
significato.
Nei vivi sono compresi un po' tutti: noi sopravvissuti, ma anche tutti
gli altri che hanno taciuto o non hanno voluto sapere.
Oggi le cose sono cambiate?
Finalmente si può affrontare pubblicamente il tema dello sterminio.
Quando ho visto il Papa andare ad Auschwitz e che sui giornali e in
televisione l'argomento veniva trattato con sempre maggiore attenzione, mi
sono convinta che era arrivato il momento di raccontare la mia storia. Per
anni, noi sopravvissuti, le vittime, ci siamo quasi vergognati di essere
scampati al lager. Le racconto una cosa. Dopo la guerra ho insegnato
inglese e tedesco in provincia di Taranto. Una volta un alunno mi ha
chiesto cosa fosse quel numero che avevo tatuato sull'avambraccio. Ho
tentato di spiegarlo, ma i ragazzi si sono messi a ridere. Mi sono
vergognata. E' stata una pugnalata al cuore. Allora ci ho messo sopra un
cerotto: non volevo più essere derisa. Un cerotto che ho tenuto per molto
tempo.
Lei è di origine viennese, qual è il dibattito sul passato nazista in
Austria?
Vedo un cambiamento: se ne parla molto di più, specialmente a scuola.
Anche se, come ho detto, si paga ancora il silenzio delle generazioni
precedenti. Un anno fa sono andata in un liceo di Vienna. I ragazzi erano
molto attenti, curiosi. A un certo punto ho raccontato un particolare che
non compare nel libro, e cioè che nel campo di Bergen-Belsen ero nella
stessa baracca di Anna Frank. Uno dei ragazzi si è alzato e mi ha chiesto
"chi è Anna Frank?". Capisce?, non la conoscevano. Una cosa gravissima.
Molti di questi giovani hanno avuto i nonni che hanno fatto la guerra, che
hanno votato per l'annessione alla Germania. Questa ignoranza deriva
proprio dal fatto che i loro padri e i loro nonni - non dico solo per
malafede, ma forse anche perché se ne vergognano - hanno fatto diventare il
passato nazista e lo sterminio dei temi tabù. Tanto da tenere nascosto uno
dei classici sul lager.
Cosa ha pensato all'indomani del successo elettorale di Haider?
Mi sono sentita male. Ero molto agitata. Purtroppo sembra che la gente
si sia dimenticata completamente di quanto è accaduto. Probabilmente nel
voto c'è anche una rivolta contro gli immigrati. E la cosa non mi fa certo
stare tranquilla.
Come si fa a vivere una vita normale dopo Auschwitz?
Ci si fa l'abitudine. Ci pensi sempre, con dolore. Chiudi gli occhi ed è
là. Ma ci si abitua a vivere col dolore. Oggi mi sento alleggerita, grazie
agli incontri che sto facendo da due anni per presentare il libro. Quando
parlo sento che la gente mi capisce e, a volte, mi sento felice.
La sua madrelingua è il tedesco, la stessa dei suoi carnefici. Che
rapporto ha con questa lingua?
Non ce l'ho con i tedeschi. Per me l'umanità è tutta uguale. Siamo tutti
figli di uno stesso dio. Bisogna solo saper distinguere i buoni dai malvagi.
Molti sopravvissuti non riescono nemmeno a pronunciare la parola "Germania".
Io no, perché allora non bisognerebbe rifiutare soltanto la Germania, ma
anche l'Austria. Non dimentichiamoci che nel '38, oltre il 90% della
popolazione ha votato l'Anschluss. Anche l'Italia ha fatto la sua parte. Io
sono stata arrestata a Milano su denuncia di un'italiana. Per non parlare,
poi, del collaborazionismo in Ungheria, Polonia, Francia. Non si può
prendersela solo con la Germania.
Cos'era Auschwitz?
Non si può descrivere con un'immagine. Auschwitz significava vivere
continuamente nel terrore, con la paura di non sapere se fra 5 minuti sarai
ancora in vita. Bastava sentire il fischietto del campo che significava
"tutti fuori, selezione", e non sapevi che sorte ti toccava. Auschwitz
significava dover scavalcare continuamente mucchi di cadaveri, compagne che
morivano di sfinimento e da sole, svegliarti alla mattina accanto a un
cadavere. Si diventava quasi indifferenti alla morte: io mangiavo il mio
pezzo di pane mentre vedevo caricare su un carrello pile di corpi.
Auschwitz significava essere una persona morta, vivere come un automa
finché era possibile. E vivere solo di ricordi. Pensavi solo al passato.
Lei ha subito la selezione di Joseph Mengele. Cosa ricorda di lui?
Recentemente ho rivisto il suo viso in alcune foto. Non reggo quello
sguardo, non lo posso guardare. Non sopporto quella faccia. Lo vedo sempre
davanti a me, con gli occhi fissi su di noi. Noi non lo potevamo guardare,
dovevamo tenere sempre lo sguardo verso il basso o al di sopra della sua
testa. Con un cenno del pollice ti dava la vita o la morte. Appena arrivati
ti mandava al gas o in campo, e poi faceva le selezioni ogni 15 giorni.
Bastava un foruncolo o una piaga per finire nel camino. Una volta mi hanno
bruciato con un ferro rovente su una coscia perché avevo sorretto una
campagna durante un lungo appello. Mi hanno chiamata fuori dalla fila e mi
hanno punita davanti a tutte. Ho scampato il gas solo perché, quando la
ferita era ancora aperta, non ci sono state selezioni.
Nel libro definisce suo figlio "l'uomo che non avrei mai sperato di
conoscere". Perché?
Ad Auschwitz abbiamo subito degli esperimenti medici senza saperlo. In
lager abbiamo perduto tutte il ciclo mestruale con gravi conseguenze.
Quando sono tornata sono stata ricoverata oltre un mese a Milano. Pensavo
che non sarei mai stata in grado di mettere al mondo un figlio.
Lei è tornata ad Auschwitz per la prima volta nel '95. Cosa ha provato?
Niente. In quel momento a chi me lo chiedeva rispondevo: "quello che
provo da 50 anni, non è cambiato niente, è come se entrassi a casa mia.
Conosco ogni angolo, ogni pezzetto". Insomma non c'era niente di nuovo,
perché io vivo con quella visione. L'unica cosa che mi ha colpito un po' è
stato l'arrivo a Birkenaun (sulla rampa dove veniva effettuata la prima
selezione, ndr), vedere quei binari, quel portone grande... Mi sono
ricordata quando sono passata là sotto, il 6 agosto 1944. E' stato un attimo.
Che ricordo ha del suo arrivo a Birkenau?
Siamo arrivati alle 3 di notte. Abbiamo visto tutto questo filo spinato.
Il lager era illuminato a giorno. Non sapevamo cosa ci aspettava, ci
illudevano che saremmo andati in un campo di lavoro. Vedevamo le fiamme
uscire dal
camino, e sentivamo la puzza, ma pensavamo che fossero i vestiti che
venivano bruciati. Pensavamo tutto tranne che fossero esseri umani.
Cosa le ha dato la forza di sopravvivere?
Cercavo di ricordare i momenti sereni, prima dell'Anschluss. Pensavo ai
miei genitori. Alla mia vita a Vienna. Ho avuto sempre la volontà e lo
spirito della sopravvivenza. Non volevo morire e non mi sono lasciata
morire. Mi sono sempre detta "un giorno finirà". Ed è stata la mia fortuna.
Poi mi ha aiutato anche il fatto che parlavo perfettamente il tedesco.
Dovevi ubbidire immediatamente ai comandi, e chi non capiva veniva preso a
frustate: per un corpo già debole significava morire.
Come erano i rapporti tra prigioniere?
Ognuno cercava di formarsi un piccolo gruppetto. Io avevo una mia amica,
Edith Epstein, una viennese con cui ho fatto tutta la prigionia. E ci siamo
date fare insieme per sopravvivere. Ma non tutte erano così. Una notte ho
visto una madre rubare il pane alla figlia da sotto la testa. Gridavano,
litigavano, poi la ragazza è stata uccisa. Molte si azzuffavano per il cibo
o per il posto per dormire.
I '90 sono stati anni di genocidi: Bosnia, Kosovo, Rwanda. E' possibile
un paragone con l'olocausto?
Sì. L'unica differenza è che lo sterminio era programmato e c'erano il
gas e i forni crematori. Ma molte immagini sono sovrapponibili. Purtroppo
le cose si stanno ripetendo. Sembra che tanti anni siano passati
inutilmente, senza che l'uomo abbia imparato niente. Inoltre la comunità
internazionale ha guardato in silenzio, come con noi.
Levi ha scritto: c'è Auschwitz, dunque non c'è Dio.
Io la penso diversamente. Non è stato dio a mettere l'uomo in ginocchio,
ma il contrario. Dio esiste, dio c'è e non ha voluto tutto questo. E'
sempre l'uomo il colpevole.
Ma lei ad Auschwitz riusciva a pensare a dio?
Ho pregato dio. Gli ho sempre chiesto di aiutarmi. Molti, in lager,
hanno perso la fede. Ma se io non l'avessi avuta, non so ne se sarei uscita
viva. Quando mi sentivo abbandonata dialogavo con dio, è così che così sono
riuscita a superare i momenti più duri.
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