F.Piperno: dall'Università alla Multiversità .



Dall’Università alla Multiversità
L’Università quaranta anni dopo il ’68:
ovvero come apprendere a dimorare tra le rovine.


(tratto dal libro '68. L'anno che ritorna,
 Piperno Franco, 2008, Rizzoli)


rovesciata verticale
aprendosi da una parte all’altra
mancava poco nel paesaggio necessario
mancava molto nel paesaggio possibile
non è finita
pentiti solo di non averlo fatto abbastanza

                           Nanni Balestrini



1.Università, ceto politico e regime di fabbrica.

La questione della riforma degli studi universitari è ritornata di grande
attualità, non solo in Italia ma, più generalmente, anche in Europa e negli
Stati Uniti.
Val la pena, in premessa, notare che, a differenza di quanto era avvenuto
negli anni sessanta, questa volta non sono né gli intrighi delle «lobbie»
accademiche né i movimenti sovversivi degli studenti a porre l’Università
come problema.
Si tratta, piuttosto, di un’iniziativa amministrativa dei governi, volta ad
aumentare l’efficienza della “alta formazione”, pesantemente sollecitata
dal complesso militare-industriale e dalle grandi burocrazie sindacali.
In Italia, poi,tutta l’operazione è condotta quasi in sordina: anno dopo
anno, i variegati conati di riforma trovano posto nei codicilli delle leggi
finanziarie. Così, attraverso trucchi parlamentari più o meno astuti, il
ceto politico evita una discussione pubblica sulla funzione sociale
dell’università e procede, per via amministrativa, a ingarbugliate e
contraddittorie riforme.
Ciò che davvero sorprende in queste iniziative non è tanto il loro
asfittico orizzonte culturale quanto il numero abnorme: ormai siamo al
quinto intervento legislativo in dieci anni. Questo numero costituisce un
indubbio primato del ceto politico italiano, non solo rispetto a quel che
accade nel mondo a noi contemporaneo ma anche se rapportato alla storia
millenaria dell’università come pubblica istituzione.
Si pensi, per cogliere a pieno gli aspetti grotteschi della situazione,
alla”inerzia” insita nella trasmissione dei saperi: gli effetti, nella
formazione culturale, delle modifiche apportate nell’organizzazione degli
studi universitari, richiedono, per poter essere misurati, almeno due o tre
generazioni di studenti—- grosso modo, un quindicennio.
Ciò significa che, se v’è, in media, una nuova riforma ogni biennio, questa
febbrile volontà riformatrice si priva di ogni riscontro empirico. Infatti,
le innovazioni introdotte dal ceto politico non hanno bisogno
dell’esperienza; esse nascono e si alimentano da astratte ed uniformizzanti
direttive comunitarie, si innervano poi sulle transitorie alleanze tra le
lobbie accademiche, che controllano l’università, e gli industriali che, in
cerca di pubbliche sovvenzioni, fingono di promuovere attività di ricerca
-- queste alleanze non disdegnano di lasciare un posticino per le
rivendicazioni sindacali dei “docenti precari” né di imbellettarsi con la
provinciale “USAfilia” dei consiglieri del ministro di turno.
Insomma, l’isteria riformatrice del ceto politico, questo furioso
cambiamento del cambiamento, procede ad una frequenza tale da non lasciare
nessun residuo reale— i dati empirici sui quali formulare un giudizio
restano indecifrabili, anzi non rientrano, neanche in linea di principio,
tra i criteri enunciati, coi quali il legislatore, o il ministro per sua
delega, dichiara d’operare.

Tutto questo non accade a caso. Il ritmo con il quale le invenzioni vengono
introdotte nel processo produttivo e nei servizi è divenuto così serrato da
rendere obsolete, nel volgere di pochi anni, le conoscenze, le competenze e
le tecniche lavorative acquisite durante il lungo periodo di educazione e
formazione professionale.
Come recita un motto coniato nei Laboratori della “Bell” a Seattle, non
bisogna più apprendere nozioni e discipline determinate ma piuttosto
“imparare ad imparare” in generale.
Riguardando lo stato delle cose dal punto di vista del movimento del ‘68,
possiamo dire che delle due grandi vie adoperate dal capitale per innovare
il processo lavorativo i.e. la via empirica basata sul furto
dell’informazione operaia e quella tecnologica fondata sull’applicazione
della scienza alla produzione, la prima si è ormai ridotta ad uno stretto
tratturo, e solo la seconda sopravvive e si slarga, almeno in questa nostra
schematica ed approssimativa rappresentazione.

La provenienza extra-empirica dell’innovazione, il suo prendere origine non
già dalla comune esperienza lavorativa bensì dall’esperimento scientifico,
produce nel senso comune quello stupore che s’accompagna al trovarsi in
presenza di qualcosa d’imprevedibile e d’immenso.
Nell’esperimento scientifico, infatti, la natura viene costretta ad un
comportamento iterativo che non assumerebbe spontaneamente. La ricerca
inventa nuove modalità per mettere al lavoro la natura; e queste modalità
vengono poi trasferite ed adattate al processo produttivo – e tutto ciò, a
ben vedere, senza sorpresa dal momento che, nell’epoca moderna, il
laboratorio è sempre stato il prototipo della fabbrica.
L’altra faccia del comune stupore verso le nuove tecnologie è la crisi
verticale non solo dei protocolli di ragionamento e manipolazione degli
oggetti tecnici ma anche, e forse ancor più, degli stessi oggetti e dei
saperi specializzati ad essi inerenti.



2. La miseria del sapere frantumato e l’idiozia specializzata.

Gli studi e le discipline universitarie risultano fortemente investiti dai
sommovimenti provocati dalla applicazione della ricerca alla produzione. E
questo con ragione, giacché sono appunto le attività che si svolgono dentro
l’università a cadenzare, in larga misura, il ritmo e l’ampiezza
dell’innovazione. Qui non si tratta tanto delle invenzioni e delle scoperte
che risultano dalla ricerca universitaria quanto della circostanza che
l’università sia il luogo sociale dove i saperi vengono elaborati e
criticati in forme pubblicamente accessibili. In altri termini, la
«Universitas», fin dalle origini medievali, fonda la sua autorità
istituzionale sulla capacità di ricondurre ad unità la molteplicità dei
saperi; e questa forma unitaria è di qualità tale da risultare adeguata al
senso comune, vale a dire in grado d’essere assimilata tramite la lingua
naturale e la comune facoltà di ragionamento.
Le difficoltà nelle quali versa l’educazione universitaria è riconducibile,
prima di tutto, all’affievolirsi, fin quasi a dileguarsi, della totalità
del sapere; ed alla frantumazione, sotto la spinta dell’industria moderna,
in una congerie senza fine di discipline e cognizioni talmente
specialistiche da rasentare pericolosamente l’idiozia: è avvenuto così che
la differenza senza concetto abbia finito col porsi a fondamento
professionale del sapere.
Del resto, non è certo la prima volta che l’organizzazione degli studi
superiori s’inceppa. L’università, infatti, non è per niente una qualità
moderna; ben più antica della fabbrica, tutto lascia credere che sia
destinata a sopravviverle; essa è una delle poche istituzioni medievali a
carattere corporativo che sia giunta fino a noi direttamente da una altra
epoca, cioè da una diversa formazione sociale – l’altro esempio notevole è
costituito, non a caso, dalla Chiesa cattolica.
Lungo la sua storia quasi millenaria l’università è entrata in crisi ogni
volta che sia risultata intaccata la fondazione unitaria e pubblica del
sapere.
È accaduto nel Rinascimento, quando, per opera delle Accademie, è stata
criticato e smontato il paradigma teologico-deduttivo che assicurava
l’unità alle discipline medievali; sicché all’università
aristotelico-tomista è subentrata quella pitagorico-platonica, e la
filosofia della natura ha fornito il criterio di convergenza degli studi
universitari.
Ed è di nuovo accaduto nel secolo dei lumi, quando gli scienziati della
Rivoluzione francese hanno ricondotto le verità della filosofia della
natura a poche proposizioni matematiche, ponendo così i linguaggi formali
in cima alla gerarchia dei saperi; l’opera di quei rivoluzionari ha poi
trovato il suo compimento in Germania, nello schema d’università elaborato
da Humboldt, schema dove i saperi scientifici sono nettamente distinti da
quelli umanistici e la fisica-matematica gioca il ruolo di regina tra tutte
le discipline universitarie.
Il modello di Humboldt si è rapidamente diffuso in tutto il continente
europeo; ed è significativo che esso sia stato fatto proprio perfino dal
movimento operaio e rigidamente rispettato giusto nei paesi che, a seguito
della Rivoluzione d’ottobre, hanno conosciuto un regime statuale di tipo
socialistico-- significativo della segreta complicità tra socialismo e
liberalismo e della subalternità culturale del primo nei riguardi del secolo.



3. La crisi dell’università moderna.

L’università di Humboldt, ai nostri giorni, ha ormai compiuto intero il suo
corso. Il criterio secondo il quale un sapere è tanto più scientifico, cioè
vero, quanto più esso è formale, cioè matematizzato, si è rivelato affatto
impraticabile.
Questo è accaduto non già per la resistenza, a vero dire rassegnata,
offerta dalle discipline umanistiche; ma grazie allo sviluppo autonomo del
pensiero matematico.
Infatti, una delle scoperte scientifiche più fertili del ventesimo secolo,
intellettualmente feconda quanto negletta nell’opinione accademica, è di
natura logico-matematica; ed è stata conseguita già prima della seconda
guerra mondiale per merito soprattutto dello sforzo di pensiero di Godel.
La scoperta, racchiusa in due “teoremi limitativi”, afferma che tutti i
linguaggi formali, ivi comprese le matematiche, non possono godere
contemporaneamente delle proprietà di completezza e di coerenza. In altri
termini, se un linguaggio formale contiene tutte le proposizioni vere
formulabili allora esso è necessariamente contraddittorio; viceversa se il
linguaggio è coerente allora non contiene tutte le verità in esso
formulabili e risulta incompleto.
La scoperta di Godel sembra qualche po’ astratta; e del tutto irrilevante
ad ogni fine pratico. Eppure, poche o punte teorie scientifiche del
ventesimo secolo hanno esercitato sulla vita quotidiana una influenza
paragonabile a quella conseguita dai teoremi di Godel. Questi ultimi,
infatti, hanno costituito l’orizzonte logico-matematico all’interno del
quale è stata elaborata la teoria della “macchina generale” ovvero lo
strumento operativo che ha permesso la costruzione dei moderni computer,
degli autonomi e delle grandi reti telematiche – Internet compresa. La
teoria della “macchina generale” è stata messa a punto da Turing, pochi
anni dopo la scoperta di Godel; essa, in buona sostanza, è niente altro che
la traduzione dei due teoremi di Godel in termini informatici.
Per paradossale che possa apparire, la diffusione a livello globale dei
linguaggi formali, questa vera e propria matematizzazione del mondo che è
in corso di compiersi attraverso le reti di computers e la robotica, ha
luogo grazie a dei teoremi limitativi; infatti, sono proprio i limiti
invalicabili posti ai linguaggi formali, e massime alle matematiche, che
consentono la costruzione degli automi e delle grandi reti telematiche,
automi e reti che penetrano nella giornata lavorativa avvolgendola e
stravolgendola – peraltro, a ben vedere, il paradosso si scioglie sol che
si rifletta sulla circostanza per la quale ogni sapere, come ogni forma di
vita, una volta che divenga consapevole dei suoi limiti, consegue perciò
stesso il massimo della potenza.
L’antico pregiudizio di riguardare la natura quasi fosse un libro scritto
in cifra; pregiudizio enunciato per la prima volta sulle rive del mare
greco da Pitagora; ripreso mille anni dopo dal Rinascimento come nucleo
generatore di quel sogno metafisico occidentale secondo il quale la
matematica è la lingua universale perché logica e naturale insieme; questo
pregiudizio conclude così la sua parabola materializzandosi nella macchina
generale di Turing o se si vuole nella rete globale dei computer.
Il concretizzarsi della matematica in macchina da una parte consegue il
risultato, assai rilevante per la vita quotidiana, di sgravare il corpo
umano dalla fatica del lavoro ripetitivo, sia esso muscolare o cerebrale,
fatica che può essere scaricata sui linguaggi formali messi a lavoro;
dall’altra priva di ogni legittimità la pretesa metafisica di misurare il
contenuto di verità di un sapere dal suo grado di formalizzazione; pretesa,
come si è visto, accolta dagli scienziati della Rivoluzione francese ed
introiettata nel modello humboldtiano d’università.

Va da sé che non sono stati di certo i teoremi limitativi di Godel ad
innescare il collasso della gerarchia che univa i diversi saperi e la crisi
delle discipline universitarie; semmai è accaduto l’inverso, il lavoro
scientifico di Godel non ha fatto altro che registrare e spiegare un
collasso ed una crisi che erano giù all’opera da tempo.
Godel non ha inventato qualcosa che non esisteva prima; egli ha scoperto
qualcosa, i.e. una proprietà intrinseca dei linguaggi formali, che era
presente da sempre, fin dall’inizio, fin da Pitagora –solo che, celata alla
coscienza, agiva, per così dire, nel buio e nel silenzio.
Infatti, il tentativo di formalizzare i saperi disciplinari era naufragato
all’inizio del ventesimo secolo, quando, una volta accertata
l’impossibilità di assiomatizzare perfino la stessa fisica, i programmi di
formalizzazione delle discipline universitarie erano stati abbandonati.
L’idea che la verità abbia la lingua matematica come dimora, questa
ideologia intrisa di platonismo, era caduta in discredito già dagli anni
trenta. E se la gerarchia delle discipline universitarie incentrata sulle
“scienze matematiche e naturali” è riuscita, per altri cinquant’anni, a
sopravvivere a quel discredito, ciò è avvenuto per l’enorme finanziamento
che il complesso militare-industriale ha destinato alla ricerca in fisica,
chimica e biologia -–finanziamento erogato non in base ad un criterio
epistemologico ma ad esigenze di distruzione bellica e produttività
industriale.
Così, una volta caduti i regimi a socialismo di stato, scoppiata la pace e
allentata la corsa agli armamenti, anche i giganteschi programmi di ricerca
nella fisica delle alte energie come nell’applicazioni militari della
chimica e della biologia, sono stati fortemente ridimensionati. Questo
ridimensionamento, se da un lato provoca la messa in libertà cioè il
licenziamento di migliaia di ricercatori e tecnici specializzati,
dall’altro rende pubblica la perdita di senso della “big science” cioè di
quelle discipline che nel ventesimo secolo hanno costituito il cuore del
sapere scientifico – valga come prova, il drammatico calo delle
immatricolazioni nelle facoltà scientifiche, calo in corso ormai da un
decennio in quasi tutte le università occidentali.
La “Universitas” di Humboldt sopravvive solo come rovina. Storicamente, gli
Stati Uniti sono il primo paese occidentale ad abbandonare la concezione
gerarchica ed unitaria delle discipline accademiche inserendo via via nel
sistema universitario le scuole tecniche-professionali di ingegneria,
legge, medicina, amministrazione; e giù giù, usque ad nauseam, le scuole di
“business”.
In effetti, il modello humboldtiano non era mai veramente penetrato nel
Nord America, dove le università più prestigiose avevano continuato a
coltivare le proprie radici teologiche-tomiste; sicché, con un salto, sono
cadute dalla “comunità medievale di professori e studenti” alla scuola
professionale in grado di competere nel mercato dell’educazione.
In Europa, dove l’autonomia è stata a lungo avvertita come un sentimento
comune, quasi una pubblica virtù, il processo di trasformazione ha
incontrato resistenze rilevanti; e solo di recente, una trentina d’anni
appena, può dirsi compiuta la riduzione dell’università ad agglomerato di
scuole professionali; o, il che è poi lo stesso, l’elevazione dei
politecnici al rango d’università.
Smarrito il riferimento alla unità della conoscenza, fosse di Dio o della
natura o delle matematiche, riferimento che autorizzava quella sorta di
straordinaria libertà dai vincoli esterni di cui per secoli ha felicemente
goduto l’attività universitaria; cessata cioè la ricerca del vero come
principio d’individuazione della “universitas”, gli atenei non sono solo
regrediti ad unità contabili amministrative per la formazione
professionale, ma hanno anche perso l’autonomia e perfino il gusto di
praticarla.


4. La vulnerabilità dell’invulnerabile prestigio dell’università
nord-americana.

A questo proposito, il paesaggio osservabile negli Stati Uniti sembra
avvertirci che nulla ci risparmierà il futuro. Il sistema universitario
nord-americano, una volta divenuto il luogo della formazione professionale
di massa, ha rinunciato all’autonomia della conoscenza, modellando il suo
funzionamento sul regime di fabbrica.
L’aziendalizzazione dell’università americana non significa che l’ateneo
muti statuto divenendo impresa privata in senso tecnico giuridico; ciò è
fortunatamente impedito dalla natura stessa del processo educativo e dai
suoi costi proibitivi; prova ne sia che i pochi casi nei quali il
fondamentalismo neo-liberista si è spinto a tanto, si sono rapidamente
chiusi per bancarotta finanziaria.
Piuttosto, le università americane hanno assunto via via la forma aziendale
nel senso che la gestione dell’attività e le relazioni di lavoro ricalcano
tempi e metodi tipici dell’impresa capitalista.
Negli atenei statunitensi, o meglio nella grande maggioranza di essi, il
curriculum universitario è rigidamente articolato in una complicata
sequenza di unità temporali chiamate “crediti e debiti” formativi. Qui, già
i nomi denunciano la loro origine; ma il pericolo si cela soprattutto in
quel pregiudizio ottuso che, contro ogni evidenza, ritiene di poter
omologare la durata ed il ritmo del lavoro di apprendimento al tempo
calcolabile del lavoro di fabbrica. L’attività universitaria ne risulta
standardizzata, le prestazioni dei docenti minuziosamente prefissate, la
lezione diviene una conferenza animata dalle tecniche multimediali, la
valutazione dello studente ha luogo tramite una curva statistica di tipo
elementare; e, infine, il giudizio dello studente sulla prestazione
didattica del docente si svolge come apprezzamento di un servizio specifico
da parte del cliente consumatore.

Bisogna riconoscere che, in questo modo, l’università americana è riuscita
a far fronte alla domanda di formazione superiore di massa, abbassandone
significativamente i costi.
Il prezzo pagato è lo stravolgimento della sua natura: la forma
contrattuale ha lacerato ed immiserito le relazioni e lo scambio
all’interno delle istituzioni universitarie; il governo degli atenei è
passato in mano ai manager cioè ai burocrati; i professori che fanno
carriera sono quelli più simili agli uomini d’affari che intercettano
finanziamenti proponendosi come mediatori tra la fabbrica e la ricerca;
l’attività della docenza ricade soprattutto sul personale accademico
precario e mal pagato; la lezione seminariale, esperita come comunicazione
dialogica del sapere, ha perso il suo senso; si è dileguato il rapporto
socratico tra docente e discente, e con esso ogni possibilità di
trasmettere per imitazione la capacità euristica, ovvero il segreto stesso
del lavoro intellettuale.
Per la verità, spesso, negli USA, dalla formazione universitaria sono stati
eliminati gli aspetti specializzati più idioti introducendo al loro posto
percorsi di studio che attraversano, sia, pure in forma costipata, saperi
diversi. Ma lo scopo al quale mira questa acquisizione di molteplici
discipline non è certo di render conto della completezza della conoscenza
ma di disciplinare lo studente in modo da rendere più facilmente
riconvertibile la futura prestazione lavorativa.
Nelle università americane, “imparare ad imparare” non significa
un’educazione polivalente, ma lo sviluppo nello studente della attitudine
passiva ad apprendere in generale, attitudine che è la precondizione per
una corriva flessibilità nel mercato del lavoro.
Mette conto notare, a questo proposito, che molti politecnici americani
hanno introdotto questi percorsi di studio multidisciplinari a partire
dalla metà degli anni ottanta, cioè dopo che la prospettiva di costruzione
di macchine intelligenti, capaci d’apprendere e modificarsi, si è rivelata
illusoria. Questo fallimento, che è un’indiretta conseguenza dei teoremi di
Godel, appare, nella coscienza stranita dei manager americani, come
constatazione contabile sul costo spropositato che comporta la conversione
delle prestazioni lavorative umane nelle procedure standardizzate degli
automi.
La descrizione della condizione degli studi universitari negli USA è qui,
per forza di cose, necessariamente sommaria; ne è in alcun modo possibile
dimostrare ciò è stato affermato. Vogliamo, però, mostrare qualche evidenza
empirica, sul sistema formativo di quel paese, che conforti quella aura di
degradazione suggerita dalla nostra descrizione.

Innanzi tutto, ognuno sa della cattiva reputazione che circonda, in patria
e all’estero, la scuola pubblica americana; ma quasi nessuno ha una idea
precisa dell’abissale ignoranza che questo comporta.
A questo proposito, giovandoci di un’inchiesta, per il periodo 2000-5,
realizzata dalla APS (American Physical Society) nonché delle osservazioni
esplicative della ricercatrice francese Odile Jacob, vogliamo ricordare che
metà degli allievi della scuola secondaria nord americana non sa
localizzare, sulla carta geografica,paesi come la Francia o il Giappone. La
pessima qualità dell’insegnamento penalizza, va da sé, gli strati sociali
emarginati: solo lo 8% degli adolescenti neri, il 20% degli ispanici e il
50% dei bianchi sa calcolare il resto che gli è dovuto per un pranzo con
due pietanze, cioè effettuare una addizione ed una sottrazione di seguito.
Il 18% della forza-lavoro di quel paese risultava, nel 2004, propriamente
illetterata: in grado sì di riconoscere le singole lettere e riprodurne il
suono ma incapace di leggere persino una sola frase.
Tutto questo contrasta nettamente con la formidabile vitalità dell’economia
americana, vitalità che, in principio almeno, sembrerebbe esigere un
salariato istruito e non semianalfabeta.
In realtà, quel principio è solo un pregiudizio liberale, giacché molti
ruoli lavorativi sono resi più semplici, per non dire più stupidi, dalla
tecno-scienza; insomma, non occorre capire, basta che i gesti del lavoro
siano eseguiti nella sequenza prevista.
Una nazione può essere ricca e tecnicamente ben strutturata senza che i
suoi cittadini-sudditi debbano possedere il sapere dal quale la ricchezza e
la tecnica hanno tratto origine; il che mostra,sia detto per inciso,quanto
falsa sia l’ideologia che affida la qualità della formazione dei giovani
alle necessità della competizione dell’industria nazionale sul mercato
globale.
Per onestà intellettuale, va tuttavia aggiunto che alcune delle debolezze
estreme del sistema formativo nord americano sono parzialmente
ridimensionate, se non corrette, da un certo numero di istituzioni
formative private, ad alto costo certo ma di ottima qualità.
Per quanto riguarda, poi, la forza-lavoro tecno-scientifica, l’inefficienza
pubblica degli USA è mascherata dalla contribuzione nascosta degli altri
paesi. Infatti, le università così come le scuole superiori di medicina ed
ingegneria, accolgono nel Nord America, ogni anno, un gran numero di
studenti stranieri, spesso assi brillanti; e finanziati, per i loro studi,
dalle famiglie o dalle istituzioni dei paesi d’origine. In alcune tra le
più prestigiose università oltre il 70% dei dottorandi in fisica è in
questa situazione, mentre per le scuole d’ingegneria si tratta del 50%. I
laboratori americani accolgono, dopo il dottorato, i migliori ricercatori
stranieri, offrendo loro delle occasioni di lavoro incomparabilmente
migliori di quelle che potrebbero ottenere nei paesi d’origine.
Così, il costo iniziale della formazione di questi studiosi non grava sul
contribuente americano; e questo permette agli USA d’avere accesso ad un
vivaio gratuito, la cui qualità contribuisce in modo determinante alla
prosperità industriale del paese.
Giova soffermarsi su questo punto: oltre il 70% dei Ph.D., i.e. dottorati
di ricerca, rilasciati dalle università americane sono, nel settore delle
scienze fisiche e naturali, conseguiti da studenti stranieri, asiatici ed
europei per la maggior parte. Poiché, come è noto, il Ph.D. è il grado più
alto del curriculum accademico la circostanza accennata registra il rifiuto
degli studenti americani a completare l’apprendimento conoscitivo; rifiuto
che, non essendo riconducibile a cause finanziarie o genetiche, sta a
denunciare l’incapacità della azienda università a promuovere le vocazioni
conoscitive degli studenti.



5. L’azienda universitaria italiana.

Anche in Italia l’aziendalizzazione dell’università avanza a grandi passi;
ed assume le forme parossistiche proprie ad un paese culturalmente
colonizzato. Mentre la riorganizzazione dei nostri atenei procede subdola a
colpi di decreti inseriti nella legge finanziaria, la discussione pubblica,
anche quella tra studenti e professori, è di fatto assente. I media
trattano la questione della riforma universitaria dentro il quadro,
generico e qualche po’ ideologico, della privatizzazione dei servizi
pubblici. Improbabili esperti sentenziano sulle cause della bassa
produttività universitaria e propongono uno stretto legame tra la
conoscenza ed economia, educazione superiore e mercato del lavoro: in modo
da riordinare le vocazioni culturali sulla base di previsioni della domanda
di professioni qualificate. Rimedio questo che è ben peggiore del male,
giacché bisognerebbe consegnare l’organizzazione degli studi universitari
ai pronostici delle discipline economiche; pronostici che non han dato, in
due secoli, grandi prove di sé, attestandosi ben al di sotto della capacità
predittiva della divinazione astrologica.
I governi succedutisi nell’ultima decade, privi di elaborazione nella
politica dell’alta formazione, si sono limitati ad inserire dall’esterno
della tradizione universitaria italiana, percorsi e metodi didattici presi
a prestito, tali e quali, dall’esperienza di altri paesi, giustificando
l’approssimazione frettolosa delle innovazioni legislative con la necessità
di “entrare rapidamente in Europa”, di “adeguarsi alla media europea” ancor
prima che essa si formi – il solo nucleo razionale di questa condotta
risiede nei vincoli dei conti pubblici del nostro paese e nel bisogno
affannoso di usufruire dei finanziamenti europei.
I primi segni della trasformazione in corso nelle università italiane sono,
a dir poco, inquietanti: la frammentazione centesimale del sapere
attraverso l’inflazione di nuove e peregrine “scienze”; l’aumento
esponenziale dei corsi di laurea e dei moduli formativi; la svalutazione
della qualità della docenza dovuta, in primo luogo, alla gerarchia senza
autorità delle cosche accademiche e alla consuetudine mafiosa
dell’autopromozione collettiva; la tentazione propria alle corporazioni
asfittiche di praticare modi di “familismo amorale” fino a renderli
arroganti ed offensivi—- tendenze queste, per la verità, già presenti nel
sistema universitario italiano sin dal dopo guerra ma esaltate proprio
dalle forme corrotte attraverso le quali è stata introdotta l’autonomia
negli atenei dalle riforme Zecchino-Berlinguer-Moratti-Mussi.
Fatto ancora più grave, tra l’abulia stonata degli studenti ed il cinismo
sordido dei professori che badano ai loro interessi minimali, si è diffusa
una specie di supina accettazione della fatalità che trasforma
irresistibilmente le nostre università in altrettante aziende. Sicché è
potuto accadere che, nel profondo Sud-- dove le aziende fanno apparizioni
fugaci, giusto il tempo di intercettare i fondi pubblici per poi
sparire,portandosi al nord le macchine e lasciando il paesaggio meridionale
punteggiato da enormi capannoni vuoti—- nel Sud, dicevo, v’è stato il caso
di un ateneo, che non nomino per carità di patria, dove il rettore è stato
eletto su un programma nudo ed osceno come questo: “facciamo della nostra
università una azienda competitiva”; senza che un simile proponimento
provocasse, tra studenti e docenti, nessuna manifestazione collettiva di
dissenso, e neppure una pantagruelica risata. E dire che nel ’68... ma che
lo dico a fare...



6. Come ricostruire un luogo singolare utilizzando le sue stesse rovine.

La visione che il ceto politico ha dell’università è quella di una scuola
professionale che, in funzione della dinamica del mercato globale, sforni
giovani formati, anzi “formattati”, per ipotetici ruoli di lavoro, più o
meno, qualificato. Si tratta di una fantasia priva d’immaginazione— la sua
traduzione in termini d’organizzazione della cultura ha già mandato in
rovina gli atenei, nel nostro come in altri paesi.
Infatti, le cose stanno proprio così: l’università è ormai sepolta sotto
l’ammasso delle sue stesse rovine; e le varie riforme che si sono
susseguite non hanno fatto altro che registrare il materiale crollato ed il
luogo che esso continua ad occupare.
Smarrito il sentimento dell’autonomia della conoscenza, sentimento che è il
fondamento stesso dell’esercizio del libero intelletto, la specificità
sociale dell’università, il suo essere un “luogo singolare”, ha fretta di
dileguarsi.
Come accade per tutti i luoghi singolari, non v’è una strategia, elaborata
da lontani esperti internazionali, che possa spazzar via i ruderi per
costruire una università tutta nuova.
Per salvare l’università, per serbarne l’autenticità, l’autonomia e la
pubblicità del sapere, occorre ricostruirla daccapo dalle sue stesse
rovine. Più che guardare altrove, conviene ricominciare, tornare
all’origine, all’universita medievale—solo coloro che sono ostaggio della
temporalità lineare possono ridurre il “ricominciare” ad un tornare indietro.
Del resto, non era stato il movimento del ’68, nella prassi più che nella
teoria, ad abbozzare un’ateneo strutturato attorno alla ad una sola figura
di docenza, sottoposta ad un periodico e vincolante giudizio collettivo da
parte degli studenti, che ne hanno seguito le prestazioni magistrali?
Questa maniera di garantire la qualità della docenza, propria
all’università medievale, suona, nella lingua di legno dei burocrati
sindacali, come precarizzazione dell’intero corpo docente, mortificato
dalla riconosciuta transitorietà del ruolo magistrale.




7. La potenza sovversiva della condizione dello studente.

Partiamo dal fatto che l’università non è un’azienda né un laboratorio di
ricerca né una scuola professionale.
Dal punto di vista totale, della produzione e comunicazione sociale,
l’università è il luogo dove il sapere viene formalizzato per essere
condiviso —organizzato in forme tali da renderlo pubblicamente accessibile,
da trasformarlo in senso comune.
Poniamoci ora l’interrogazione: chi mai, quale soggetto sociale può
ricostruire l’università, utilizzando come mattoni i suoi stessi ruderi?
Non certo i parlamentari della repubblica o la trimurti sindacale, gli uni
e l’altra incapaci perfino di porsi la questione in tutta la sua
complessità; e neppure i docenti afflitti, come i camerieri dei ristoranti
di lusso, da una gerarchia che premia come qualità suprema la vocazione
alla servitù volontaria.
L’unico soggetto, potenzialmente in grado di dare quel colpo di maglio che
polverizzi le attuali rovine e permetta di ricostruirvi sopra, è lo
studente o meglio il movimento sovversivo degli studenti. Soggetto nuovo
perché antico è sensualmente attratto dall’autonomia e dall’unità del
sapere; e per questa passione si batte per costruire fin da subito
--nell’università così com’è, rovinata-- forme alternative di trasmissione
dei saperi; e si batte anche nel senso di riappropriarsi dell’ateneo
occupandone i luoghi dove giacciono i suoi ruderi; o anche scendendo in
piazza e mettendo a rischio il corpo per difendere quel che è in corso di
costruirsi comunemente.

Malgrado l’acedia sembri oggi possederli, sono gli studenti il solo
soggetto potenzialmente in grado di arrestare il processo di
aziendalizzazione dell’università; e invertire la tendenza.
Solo lo studente, infatti, per la provvisorietà del ruolo che interpreta,
ha un ragionevole interesse a mettere al centro della questione
universitaria il tema della formazione dell’individuo sociale, cioè della
educazione sentimentale di una personalità completa perché multipla; e
multipla per tentare di possedere una “coscienza enorme”, all’altezza
dell’uomo come specie animale.
Solo lo studente, per via della relativa estraneità alla sfera della
produzione industriale e al mercato del lavoro, ha l’innocenza etica
sufficiente per resistere alle illusioni cognitive della scienze
economiche, e riprendere la grande tradizione d’autonomia dell’università
italiana,tradizione fondata sull’esercizio della libertà intellettuale.
Solo per lo studente la pratica interminabile e senza scopo del comprendere
può trapassare da fatica insensata in esperienza di piacere, assai simile
al piacere sensuale, il piacere che generano le azioni che sono fine e
mezzo nello stesso tempo.
Solo lo studente conserva intatto il lascito del senso comune secondo il
quale la verità, qualsiasi cosa essa sia, deve potersi dire nella lingua
naturale; ed entrare per intero nella disponibilità intellettuale del
singolo individuo.
Solo lo studente, per il quale le idee non sono ancora divenute ceppi della
mente, può proporsi di non trascorrere l’esistenza nello stupore attonito
davanti al succedersi delle innovazioni tecnico scientifiche, ma di
individualizzare, attraverso i concetti, l’origine dal cui seno quelle
innovazioni sono state partorite.
Solo la condizione di vita dello studente, non avviluppata da relazioni
contrattuali, libera e miserabile insieme, è sensibile al fascino di una
formazione intellettuale realizzata non già nell’azienda ma nella comunità
universitaria.
Infine, mentre per i burocrati del ministero l’autonomia degli atenei ha
una natura prevalentemente contabile e per i professori equivale ad una
licenza di autopromozione, solo per lo studente essa acquista un senso
forte giacché fonda la possibilità di concorrere alle scelte che riguardano
la sua formazione.

Certo, il pensiero critico deve prendere atto che ci siamo lasciati alle
spalle l’arroganza di ogni assoluto. Dopo Godel, la speranza di un’idea, un
principio, un’ideologia, una lingua dalla quale possa discendere,
snocciolandosi in una catena logico deduttiva,l’articolazione unitaria dei
saperi, una simile speranza non è più autorizzata.
Questo non vuol dire che bisogna rinunciare alla completezza del sapere; la
rinuncia comporterebbe il sacrificio dell’autonomia della conoscenza e
quindi la sua irreparabile mutilazione, con conseguenze perniciose anche
sul terreno della produzione e del consumo.
Non si tratta di rinunciare ma di porre diversamente i termini della
questione: la completezza del sapere non è il punto di partenza ma il
risultato sempre approssimato che si consegue percorrendo individualmente i
molteplici terreni sapienziali. Tante sono le forme dell’unità e della
completezza dei saperi umani quanto sono gli individui che questa unità e
completezza perseguono. L’unica rinuncia da proferire ad alta voce è quella
relativa ai linguaggi formali, cioè alla possibilità di trovare ed
esprimere la verità tramite le macchine informatiche. La verità abita le
lingue naturali; e ha la lingua materna come dimora.

Avanziamo qui alcune proposte che valgono non tanto come possibili
soluzioni quanto per una migliore intelligenza di come la questione
universitaria si ponga dal punto di vista del movimento del ‘68.
Intanto va rifiutato lo schema ministeriale secondo il quale in tutte le
università italiane il curriculum accademico deve essere ripartito tra un
primo triennio per la laurea di primo grado, un biennio per quella
specialistica ed un altro triennio per il dottorato. Solamente una velenosa
miscela di ideologia aziendale e di stoltezza burocratica può riproporsi di
uniformare i tempi della formazione intellettuale indipendentemente dai
campi tematici e dalle caratteristiche dei luoghi dove gli atenei operano.
Se la parola autonomia ha un senso, sono proprio i percorsi didattici ed i
gradi dell’istruzione universitaria che devono ricadere negli ambiti delle
responsabilità dirette ed esclusive dei singoli atenei.
In secondo luogo, il primo livello di laurea va strutturato in funzione di
una formazione polivalente dello studente, polivalenza che è un bene
sociale in sé e per sé; e non abbisogna di autorizzazioni o giustificazioni
da quella triste ed inaffidabile scienza che è l’economia.
Questo primo grado o diploma universitario deve comportare almeno un
triennio comune a tutti gli studenti, a prescindere dalla eventuale
specializzazione successiva. Il triennio consiste in un percorso
d’apprendimento che attraversi obbligatoriamente tutti i saperi essenziali;
fatta salva la libertà dello studente di scegliere, all’interno di ogni
grande area tematica, la disciplina che più gli è congeniale.
Un’organizzazione degli studi di questo tipo punta a conseguire tre
obiettivi notevoli:
a) sviluppare nello studente la facoltà d’apprendere come virtù civile;
assicurandogli, allo stesso tempo, una formazione culturale generale,
indispensabile per capire ed orientarsi in un modo che appare sempre più
come un artefatto umano in continua mutazione;
b) garantire allo studente l’informazione indispensabile per poter
scegliere responsabilmente l’eventuale specializzazione professionale
successiva;
c) bruciare l’organizzazione didattica per Facoltà in modo che dalle ceneri
di questa vacca sterile e mostruosa possa risorgere una architettura degli
studi mobile, continuamente ridisegnata sulle scelte discrezionali degli
studenti.
Quest’ultimo obiettivo, qualora fosse conseguito, provocherebbe una vera
rivoluzione degli studi universitari, buttando alle ortiche quei decrepiti
percorsi disciplinari come matematica, fisica, lettere, filosofia,
sociologia, economia e così via; per sostituire ad essi distinzioni e
relazioni adeguate al sapere nel suo farsi, i.e. linguaggi naturali e
linguaggi formali; grammatica e retorica; ermeneutica, pregiudizio ed
istituzioni politiche; linguaggi, interpretazione e teatro; il flusso del
tempo nella relatività e nella letteratura del novecento; informazione,
entropia ed autorganizzazione; identità e differenza nella fisica
quantistica e nella psicologia animale; l’acqua nella catena alimentare e
nella poesia di Petrarca; natura umana e natura non-umana; ambiente, mondo
ed etologia; lo smaltimento dei rifiuti, la Terra, il Sole ed il Cosmo;
fenomeni cooperativi e scienze sociali; termodinamica, ecologia; mente e
corpo; aspetti euristici-costruttivi ed aspetti assiomatico-deduttivi nelle
matematiche; cinetica, acustica, danza e musica; archeologia, antropologia
e società senza stato; calcolo numerico e disturbi ossessivi; luce,
geometria ed arti figurative; parola, dialettica e terapia; miti, racconti
e scienze storiche; poemi epici, astronomia ed astrologia-- e tutte le
combinazioni possibili di questi saperi e di altri ancora, secondo
l’immaginazione dello studente.
Decisivo-- per il funzionamento di un’università tornata alle sue origini,
rivoluzionata appunto-- sarebbe poi la crescita del potere degli studenti.
Questo non dovrebbe immiserirsi riducendosi al giudizio sulla prestazione
didattica del docente; ma esercitarsi come una vera e propria valutazione
nel modo più spontaneo possibile, cioè misurando, attraverso la frequenza
relativa dei corsi, la capacità del professore di attirare gli studenti,
stimolarne la curiosità e favorire l’emergere delle vocazioni.
Gli studenti, inoltre, dovrebbero avere una parola decisiva anche per
quanto riguarda l’apertura di nuovi corsi o la chiusura dei vecchi, così
come nella organizzazione dei servizi amministrativi rivolti alla
didattica, alla residenzialità ed al diritto allo studio.
Come si vede, si tratta di un potere studentesco che nulla ha a che fare
con la rappresentanza nei consigli d’amministrazione o negli organi di
gestione – l’esperienza rappresentativa si è rivelata, infatti, una vera e
propria scuola di addomesticamento tramite la corruzione; irrilevante per
la condizione di vita dello studente, vivaio per allevare futuri burocrati
di partito; e, nell’immediato, utile per legalizzare le più basse ed
illegittime istanze del corpo accademico e dell’amministrazione universitaria.
Il potere studentesco al quale qui pensiamo riannoda i fili con
l’indimenticabile ’68; e si mostra come capacità d’azione collettiva di una
componente della comunità universitaria e non come delega degli elettori
agli eletti; esso veste i panni ruvidi dell’assemblea e non la divisa
perbene della rappresentanza.

Vano, però, sarebbe attendersi, nello stato presente delle cose, che gli
studenti delle università italiane si mobilitino per arrestare la
degradazione aziendale dei nostri atenei e riaffermare l’antico modello
comunitario.
Anche se non fossero così accidiosi ed intrisi di mezza cultura come pure
sono, resterebbe il fatto incontrovertibile che costituiscono una folla
troppo disparata e generica per assumere il ruolo di soggetto.
Solo una piccola, anzi infima, frazione di questo insieme senza forma può
costituire la minoranza agente, la mano lesta dalla quale scocca la
scintilla che può incendiare la prateria.
Questa minoranza è costituita dagli studenti universitari che hanno già
vissuto la dimensione comunitaria, vuoi nei centri sociali o, più in
generale, nella pratica del volontariato. Sono essi i portatori del
discorso seminale sulle comunità elettive e dell’esperienza di vivere una
vita degna d’essere vissuta. Essi --che una volta almeno, fosse anche per
un solo attimo, hanno scelto, tra tutti i mestieri, quello di vivere,
semplicemente vivere-- sono protetti da sentimenti sufficientemente forti
ed armati di concetti abbastanza taglienti da poter aggredire con successo
l’opinione comune che pone il lavoro come un valore sacro e considera
l’università il luogo dove ci si prepara a questo sacrificio.
In Italia, nello stato presente delle cose, è questa la minoranza agente
che s’intravede all’orizzonte; la sola che sia riuscita, nei fatti, a
sottrarsi a questa grande ipocrisia nazionale che è l’etica del lavoro
nell’epoca delle macchine informatiche; la sola, comunque, in grado di
rovesciare il progetto moderno “contro la disoccupazione, educare i giovani
al lavoro” nella pratica sovversiva che dice “sì alla estinzione del lavoro
salariato, autoformiamoci all’ozio”.
Forse le rovine dell’università sono la dimora, la prima dimora, dove
accrescere l’interiorità ed ospitare la coscienza enorme dell’individuo
sociale.
A riguardare le cose, quaranta anni dopo, con gli occhi invecchiati e
stanchi del ’68, tutto appare talmente semplice da risultare del tutto
improbabile. Ma, per fortuna, tra cielo e terra, non accade, sempre, ciò
che è più probabile…



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