A cosa dire sė se diciamo no alla base



Che pensate? Lo trovo molto interessante e
aspetto i vostri commenti
Marco Mayer

Giovanni Scotto (Università di Firenze – Centro Studi
Difesa Civile)Bernardo Venturi (Centro Studi Difesa
Civile)

[articolo pubblicato su azione nonviolenta, maggio
2007 e riportato sul sito Altravicenza:
http://www.altravic enza.it/dossier/ dalmolin/
doc/20070516azno n01.pdf

Il no alla base militare Dal Molin ha assunto tra
febbraio e marzo proporzioni più
ampie di quello che lo stesso movimento di protesta si
aspettava. Il governo Prodi,
osservando a posteriori la crisi, sembra essere stato
messo in difficoltà più da questa
scelta che dalla stessa missione in Afghanistan.
I motivi per il no rimangono oggi ancora concreti e
comprensibili. Dire sì
significherebbe favorire la filiera della guerra che
l'attuale governo neo-conservatore
statunitense sta promuovendo (oltretutto contro la
crescente ostilità degli stessi
elettori Usa e la contrarietà del Congresso). La nuova
base di Vicenza, infatti, non sarà
neppure una base dell'Alleanza atlantica, ma solo
statunitense. In più, servirebbe ad
ospitare la 173esima brigata aviotrasportata, già
protagonista della guerra all’ Iraq.
Concedere l’ utilizzo di quel territorio
significherebbe quindi di fatto appoggiare la
politica della guerra preventiva, che ha ampiamente
dimostrato il suo fallimento sia in
termini di obiettivi che di consenso. A ciò si
aggiunge che l’ Italia non aveva preso
accordi formali, quindi il Governo era libero di
rifiutare questa proposta. Tralasciamo
qui le assai valide obiezioni riguardanti l'impatto
territoriale e ambientale e la
questione degli infondati ricatti economici-lavorativ
i: ricordiamo solo che l’ Italia
sostiene quasi metà delle spese della base, e tali
risorse indubbiamente potrebbero
essere investite in altro modo.

Un movimento popolare
Il punto essenziale è che da Vicenza è ripartito, per
la prima volta dagli anni Ottanta,
un ampio movimento popolare di opposizione alle basi
militari. Anche se nelle ultime
settimane l’attenzione dell’opinione pubblica e dei
mezzi di comunicazione nazionali
sembra essere in calo, la protesta di Vicenza
rappresenta una grande opportunità.
Questo movimento si trova davanti a un’importante
occasione: non dire soltanto “no”,
ma proporre alternative concrete, anche sulla base di
altre esperienze simili a livello
internazionale, dimostrando come la rinuncia alla base
militare possa portare vantaggi
economici, ambientali e persino in termini di
sicurezza interna e internazionale. Bene
hanno fatto i comitati vicentini a sottolineare che il
punto cruciale non sia spostare la
base di qualche chilometro.

Si può capire la preoccupazione del governo Prodi a
volere tenere saldo, all’ interno
della diplomazia multilaterale, il legame atlantico.
Massimo D’ Alema, pur muovendosi
in modo discontinuo rispetto all’ esecutivo precedente
(come dimostrano la missione in
Libano, la dedizione in sede Onu e l’ impegno per una
moratoria sulla pena di morte)
non ha saputo o voluto accogliere in maniera creativa
l'impulso proveniente dal
movimento pacifista, dando invece corda a quanti,
dentro e fuori le istituzioni,
agitavano il fantasma di un pacifismo arrabbiato,
estremista e antiamericano.
La manifestazione del 17 febbraio ha smentito il luogo
comune dell'antiamericanis mo
del movimento, dando prova di profonda saggezza e di
un approccio costruttivo al
problema. Le proteste non erano certo in chiave
anti-Usa: anzi, erano presenti
svariate famiglie di statunitensi. Anche le testate
giornalistiche moderate si stanno
accorgendo che il movimento ha acquisito
organizzazione e rigore.

Per un nuovo rapporto tra Usa ed Europa
Noi crediamo che sia ormai urgente tessere in maniera
nuova i fili tra Usa ed Europa.
Proviamo ad analizzare più da vicino questo aspetto.
Il limite drammatico del rapporto
euroatlantico è che Usa ed Europa hanno un solo spazio
comune nel quale discutere di
sicurezza e pace: l'alleanza militare della Nato. Le
altre istituzioni multilaterali (Onu,
Osce), per quanto siano fondamentali, sono dei luoghi
di mediazione tra tanti soggetti
diversi, non un forum di confronto ed azione
concertata tra le due sponde
dell’ Atlantico.
Quello che appare quindi necessario è creare una
struttura dove Usa ed Europa
possano lavorare insieme, alla pari e sul lungo
periodo, nel campo della prevenzione e
soluzione con mezzi civili dei conflitti che mettono
in pericolo la vita di milioni di
persone. L'Europa ha molto da offrire: il concetto di
"potenza civile" su cui basa la sua
azione nel sistema internazionale, le singole
esperienze di diplomazia su più livelli, le
nuove politiche di prevenzione dei conflitti nell’Est
Europa e nel Caucaso. Anche gli
Usa possiedono però un enorme patrimonio storico e di
competenze scientifiche sul
tema della prevenzione dei conflitti e dell'intervento
civile, di mediazione per la
soluzione delle crisi: dallo storico accordo di Camp
David, al lavoro
dell'amministrazion e Clinton, a istituzioni come
l'Usip (United States Institute of
Peace), fino a singoli progetti di ricerca e
intervento per una soluzione pacifica ai
conflitti (come Preventing Deadly Conflict).
A partire da tutto ciò, il movimento di Vicenza
potrebbe invitare un tipo diverso di
presenza statunitense: non migliaia di paracadutisti
pronti a intervenire militarmente

ai quattro angoli del mondo, ma un Centro
euroatlantico per la prevenzione e
l'intervento civile nei conflitti, dove i Paesi
europei, Usa e Canada (Paese quest'ultimo
molto impegnato in politica estera sul concetto di “
sicurezza umana” ) possano
discutere e preparare insieme modalità civili di
soluzione delle crisi e di prevenzione di
escalation violente, e addestrare corpi civili di pace
per interventi non armati. Una
struttura civile, a basso impatto ambientale e
urbanistico. Vicenza diverrebbe così un
nuovo luogo di dialogo e produzione di politiche per
la pace per lavorare in maniera
diversa alla sicurezza atlantica.

I prossimi passi
Il movimento di Vicenza nei prossimi mesi potrebbe
dialogare con vari rappresentanti
governativi dei paesi atlantici, a cominciare proprio
dagli Stati Uniti. Un esempio?
Coinvolgere nella discussione i candidati
presidenziali Barak Obama, che si è
esplicitamente schierato contro la guerra in Iraq, o
Hillary Clinton. Oppure altre figure
di spicco della politica e della cultura Usa, come
l'ex-presidente Jimmy Carter, che
vogliono salvaguardare la cooperazione euroatlantica
senza aderire all'ideologa della
guerra preventiva neo-con .
Il movimento nato in questi mesi a Vicenza non deve
scoraggiarsi davanti alle
problematiche che hanno contrassegnato l’ Unione e al
calo fisiologico di attenzione
mediatica. Se la società civile e tanti singoli
cittadini hanno risollevato il problema
delle servitù militari, la questione va presa sul
serio, anche perché rientra tra i punti
programmatici della stessa coalizione.
Dire sì con chiarezza a un'alternativa praticabile di
pace, che valorizzi la migliore
Europa e la migliore America, potrebbe anche aiutare
una politica estera italiana che
non da adesso sembra confusa e priva di un vero
orientamento, ma che oggi è il vero
punto debole dell'alleanza tra centro e sinistre. Il
punto determinante sarà avere un
visibile approccio costruttivo, pensare in avanti, e
proseguire con tenacia su questa
strada.

Dr. Giovanni Scotto
Master in Mediazione dei Conflitti sociali e
interculturali:
www.mastermediazion e.unifi.it
Corso di Laurea Operazioni di pace, gestione e
mediazione dei conflitti
www.operatoriperlap ace.unifi. it
Università di Firenze - Dipartimento di Studi Sociali
- Facoltà di Scienze della Formazione
Via Cavour 82,  2. piano - 50129 Firenze
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