[perlapace] Intervento umanitario e missioni di pace. Una guida non retorica. Libro e recensioni.



Si tratta di un materiale utile per i volontari e per
gli operatori che intendono intraprendere missioni sul
campo.
marco mayer 
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Intervento umanitario e missioni di pace
Una guida non retorica
di Marco MAYER

Come funzionano realmente le missioni di pace? Qual è
il rapporto tra componenti civili e militari? Cosa si
muove dietro le quinte? Lontano dai toni demagogici
che talora circondano inevitabilmente una materia così
delicata, il volume costituisce un vero e proprio
"itinerario di viaggio" nell´universo delle operazioni
di pace, destinato a incuriosire e far discutere un
vasto pubblico. Il libro infatti non si configura
soltanto come indispensabile strumento propedeutico
per chi intende intraprendere un percorso di
formazione, ma, prendendo spunto dalla personale
esperienza del suo autore - nei Balcani e in campo
didattico - offre una vasta panoramica sulle attività
di peacekeeping di ultima generazione. La lotta contro
il terrorismo e le aspre polemiche suscitate dalla
dottrina di G. W. Bush monopolizzano l´attenzione
dell´opinione pubblica internazionale, oscurando i
numerosi conflitti etnici che tuttora caratterizzano
vaste aree del pianeta. Questi conflitti "locali"
presentano però un grande potenziale di rischio per il
futuro della sicurezza globale, anche perchè
sottovalutati dai principali attori internazionali. È
dunque quanto mai indispensabile riaccendere i
riflettori su questa realtà e indagare criticamente le
controverse risposte della comunità internazionale.

2005 pp. 200 € 12,30
Cod ISBN 88-430-3305-0

RECENSIONI

di Roberta Pizzolante
Sei un operatore di pace che muove i primi passi nel
settore? Vuoi prepararti al contatto diretto con la
realtà in cui dovrai operare? Inizia a creare una rete
di fiducia attraverso le persone più vicine, per
esempio con il vicino di casa o con il venditore del
mercato, per poi passare a interlocutori privilegiati.
E guai a barricarsi in ufficio dietro una scrivania. È
uno dei tanti consigli che si possono trovare nel
volume di Marco Mayer edito da Carocci, un vero e
proprio "vademecum" del vasto universo delle
operazioni di pace che prende spunto dall'esperienza
sul campo. L'autore, infatti, come funzionario delle
Nazioni Unite è stato dal 1999 al 2002 in Kosovo,
dedicandosi a temi sensibili presso le amministrazioni
regionali Onu di Pec/Peja e Mitrovica. Non per questo
il suo intento è solo didattico, perché oltre a essere
una guida per i giovani che vogliono o hanno già
intrapreso questa avventura, il libro è un'analisi
critica che offre una panoramica sulle attività di
peacekeeping di ultima generazione analizzandone anche
i difetti. Come si legge nella premessa "il filo
conduttore è cercare di smitizzare i luoghi comuni
intrisi di retorica che circondano il settore,
proponendo immagini realistiche in modo da rafforzare
le capacità critiche dei futuri operatori". Mentre i
primi due capitoli offrono al lettore dei suggerimenti
su come accostarsi all'attività sul campo e agli
attori locali, e descrivono le figure professionali
con cui ci si troverà a collaborare, con i due
capitoli successivi si entra nel vivo del discorso.
Qui, infatti, Mayer spiega come funzionano e si
sviluppano i percorsi di mediazione, che sono la parte
più rilevante delle operazioni di pace. Tra quelli
gestiti e promossi da attori ufficiali, cioè Stati o
organizzazioni internazionali, emerge la predominanza
a livello internazionale degli Stati Uniti, il cui
tentativo di esportare indifferentemente in qualsiasi
contesto una 'democrazia multietnica' è molto
contestata nel volume. Come anche l'eccessiva
attenzione dell'opinione pubblica mondiale alla lotta
al terrorismo dell'amministrazione Bush, che oscura
gli altri conflitti etnici del pianeta, veri focolai
di rischio per la sicurezza globale. Infine, il volume
analizza le specificità dei diversi settori del
peacekeeping: il lavoro delle fasi postbelliche, la
fornitura di aiuti, la garanzia dell'ordine, della
sicurezza e della libertà, la ricostruzione di un
governo democratico, del tessuto amministrativo ed
economico e la tutela dei diritti umani. Tutti questi
ambiti sono strettamente correlati tra loro, spiega
Mayer, ma la comunità internazionale sembra non
capirlo e procedere a compartimenti stagni. A dispetto
del gran parlare di "interagency coordination", cioè
di interazione tra gli attori internazionali per
assicurare un'efficace strategia di approccio ai
problemi, sono i conflitti tra le organizzazioni o con
gli Stati nazionali a farla da padrone. Un limite
strutturale e burocratico che può compromettere
seriamente l'immagine complessiva delle operazioni di
pace.

di Eugenia Palazzetti
Bastano un esame e la curiosità per fare il
giornalista? L'amore per gli animali per scegliere
veterinaria?. E una laurea in diritto internazionale
per diventare operatori di pace? No. Lo ha ben chiaro
Marco Mayer che nel suo "Intervento umanitario e
missioni di pace" affronta la delicata questione della
formazione di quanti desiderano intraprendere una
delle tante professioni legate alle operazioni di
pace. Appurato che l'entusiasmo non basta, che
l'idealismo il più delle volte, rischia di rendere
troppo intransigenti, che anche un corso di studi
specialistici non è sufficiente, l'autore disegna il
suo "itinerario" virtuale e virtuoso del moderno
operatore. Utilizzando la sua vasta esperienza sul
campo (in particolare nei Balcani) ed esponendo
l'andamento delle più recenti missioni (Somalia, Timor
Est, Afghanistan, Iraq), Mayer chiama in causa errori,
modelli, visioni, a volte "vittorie", che più di tanti
discorsi sono in grado di accompagnarci all'interno di
meccanismi complicati e ambigui. Non un processo, ma
uno sguardo lucido su scenari estremamente delicati.
Al centro dell'attenzione i conflitti inter e
intra-etnici, i più difficili da gestire ma anche
quelli che negli ultimi anni sono stati alla base di
circa novanta guerre, dalle più note a quelle
dimenticate. Già perché dalla caduta del muro di
Berlino tante cose sono cambiate e ciò che un tempo si
richiedeva ai professionisti del settore oggi non
basta più. "Durante il bipolarismo chi lavorava per le
organizzazioni internazionali aveva alle spalle una
formazione rigidamente orientata all'esercizio di
funzioni 'notarili', di osservazione 'imparziale', di
'inerte' interposizione tra le parti, di controllo di
aspetti puramente procedurali e protocollari".
Viceversa, negli anni Novanta "si viene affermando,
sia pure in forme molto confuse e spesso incoerenti,
una maggiore propensione a un intervento attivo di
carattere esterno" accompagnata "da una varietà di
fenomeni che vanno dalla proliferazione dei soggetti -
internazionali, regionali, intergovernativi,
governativi e non governativi - che premono per
l'azione, peraltro in perenne competizione tra di
loro, al forte ampliamento dei settori e delle aree di
intervento, alla nascita di nuove funzioni e figure
professionali, all'aumento esponenziale della quota di
personale internazionale, umanitario, civile e
militare, dislocato sul terreno". Insomma un orizzonte
del tutto cambiato. Del resto prima "chi avrebbe
pensato alla possibilità che un funzionario di
carriera Onu, addetto al protocollo, si ritrovasse a
doversi improvvisare sindaco o assessore al Bilancio
di un comune dei Balcani o a Timor Est?". Ovvio, di
conseguenza, che "alla complessità dei nuovi percorsi
professionali debba simmetricamente corrispondere una
struttura poliedrica e innovativa del 'paniere
formativo'". "Se la confidenza con l'inglese e con il
computer sono supporti essenziali", assumono
importanza fondamentale "la ricezione e la
decodificazione dei segnali non verbali", la
familiarità con le tradizioni etniche, la storia, la
psicologia degli attori coinvolti. Oltre ad una buona
formazione in diritto internazionale, l'attenzione
deve rivolgersi soprattutto all'apertura mentale, alla
flessibilità, alla diplomazia, agli aspetti politici,
psicologici, investigativi e ad un certo grado di
disincanto. Soprattutto per non restare ostaggio delle
logiche che muovono le opposte fazioni, per evitare
"da un lato l'eccesso di comprensione e solidarietà,
dall'altro la tentazione di demonizzare le comunità
locali" e per essere pronti a misurarsi
quotidianamente con l'inevitabile "binomio
onnipotenza/impotenza". A organizzazioni
internazionali altamente burocratizzate e in parte
impreparate, dopo anni di congelamento, al lavoro sul
campo, si contrappongono oggi scenari che pretendono
interventi rapidi, agili, di ingerenza. Non è un caso,
del resto, che i maggiori problemi emergano non tanto
nella (rodata) fase dell'elargizione di aiuti
umanitari in casi emergenziali, quanto la gestione del
dopoguerra, quando si impongono impellenti necessità
di ricostruzione (delle case, dei confini, delle
istituzioni), di pacificazione delle fazioni in lotta,
di bonifica del territorio. Interessante, e
imprescindibile ai fini della comprensione del
contesto politico in cui ci si muove, anche
l'esposizione del diverso approccio di Stati Uniti ed
Europa rispetto alle problematiche sollevate dai
conflitti di natura etnica, laddove all'imperativo
statunitense dell'integrazione, del "modello melting
pot" (cui consegue un'eccessiva semplificazione della
situazione ed il carattere prettamente residuale delle
azioni a favore delle minoranze oppresse) si
contrappone la "dimensione valoriale" europea, in cui
prevalgono maggiormente "le componenti umanitarie e
dell'aiuto allo sviluppo, della non violenza e della
ricostruzione". Mayer non si sottrae neanche al
dilemma principe che accompagna ogni intervento: è
sempre necessario l'uso della forza? O meglio, "ogni
azione non violenta (diplomazia realistica in primis)
che tenta di indebolire, spiazzare e isolare i
sostenitori della guerra è sicuramente benvenuta, ma
può bastare da sola? E, allo stato dei fatti, "l'unica
valutazione che possiamo esprimere è che è difficile
escludere per principio il dispiegamento di una forza
multinazionale di stabilizzazione, quanto meno quella
necessaria a predisporre un ombrello di sicurezza e a
condurre funzioni che potremmo definire (anche se con
un po' di ipocrisia) operazioni di polizia
internazionale'". Difficile tentare di esporre gli
infiniti spunti di riflessione che questa "guida non
retorica" suscita. I tanti suggerimenti (da un
maggiore coordinamento tra civili e militari,
all'invito ad una maggiore valorizzazione della
creatività), le mille angolazioni da cui osservare i
teatri di guerra, le appassionate polemiche contro la
superficialità dei media, l'imprudenza delle ONG, gli
errori di organizzazione (vedi l'elevato turn over
degli operatori) e di gestione di casi tristemente
noti (Somalia). Quello che lascia è forse un panorama
ancora più confuso, ma anche un'intensa voglia di
conoscere di più e meglio. E per un libro con
dichiarati intenti di formazione è questo il risultato
migliore.

posted by CNV @ 28.10.05  


		
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