Siamo usciti da Ramallah con
la morte nel cuore, ma con la speranza di aver iniziato un percorso che
difficilmente verrà interrotto; abbiamo lasciato dietro di noi la quotidianità
disperata di persone in carne ed ossa, che vivono la paura e l'umiliazione di
appartenere ad un popolo senza diritti nè dignità di esistenza.
In quei
cinque giorni di presenza in Cisgiordania non solo abbiamo presidiato ospedali e
scortato ambulanze, ma abbiamo soprattutto aperto una finestra comunicativa con
il mondo esterno, abbiamo cercato, consapevoli dei nostri limiti, di essere
occhi ed orecchie indipendenti rispetto ad una situazione che mediaticamente è
stata risolta come guerra israelo-palestinese, se non come legittima
azione di polizia contro le cellule terroristiche dell'estremismo
antisraeliano.
A Ramallah abbiamo visto cecchini sparare su degenti appena
dimessi, su bambini che giocavano al pallone, su funerali, abbiamo visto
ambulanze colpite da proiettili, sui barellieri e gli internazionali che
cercavano di soccorrere i feriti.
Tutte le infrastrutture, tra cui
l'anagrafe, sono state scientificamente colpite, quasi a voler distruggere con
un fuoco purificatore storie umane, esperienze e vite vissute.
Se è vero che
le parole hanno una loro importanza, allora in Palestina non si sta combattendo
una guerra, ma si sta consumando l'umiliazione di un popolo, dando fondo alla
volontà di potenza e di dominio del governo Sharon. La presenza di Action for
Peace a Ramallah, ma anche il lavoro importantissimo portato avanti da Indymedia
a Dehyshe Camp vicino a Betlemme o dei tanti internazionali e delle varie Ong in
giro per i Territori Occupati sono stati e sono tuttora sabbia negli ingranaggi
della macchina da guerra; a mani nude, con le pettorine bianche si è cercato di
far prevalere una logica di pace sull'irrazionalità della morte, un'esperienza
che non si è conclusa, ma che sta continuando in queste ore con le persone
ancora presenti, nonostante rischi ed intimidazioni.
Da Ramallah siamo usciti
con un carico di emozioni e di esperienze da condividere, ma anche con la
consapevolezza che se è necessario mantenere ferma la verità storica su chi è
l'oppresso e su chi opprime, è altrettanto importante dare ossigeno alle
componenti sane ed avanzate della società israeliana, da Peace Now ai Refusnik,
perchè il problema oggi non è tra chi è di origine araba o è cittadino
israeliano, ma tra chi vuole risolvere i problemi con la guerra e la repressione
e chi cerca di costruire reti e relazioni applicando la cosiddetta diplomazia
dal basso.
La risoluzione del conflitto passa necessariamente attraverso il
convolgimento delle comunità israeliane e palestinesi, ogni tentativo di
boicottare questo percorso, sia da posizioni antiarabe che antisemite, è una
bomba ad orologeria sulla strada della convivenza civile.
Alberto Zoratti
Roba
dell'Altro Mondo/Rete Lilliput