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il prezzo sociale e invisibile della spesa a basso costo



da la stampa.it
  Lunedi' 27 Settembre



OLTRE LA LIRA
Il prezzo sociale
(e invisibile) della spesa low cost

27 Settembre 2004

di Alfredo Recanatesi

Si è acceso un dibattito importante sulle implicazioni sociali della crisi
delle imprese. Lo ha innescato Tommaso Padoa Schioppa rilevando che, quando
una impresa entra in crisi, generalmente vi è spinta da un'altra impresa
capace di offrire il prodotto o il servizio a condizioni migliori. Di
conseguenza, non è giusto considerare solo il danno sociale della perdita
del lavoro di chi era impiegato nell'impresa soccombente, ma si deve tener
conto anche del beneficio che la generalità dei consumatori può trarre dalle
condizioni migliori che la nuova impresa può praticare. «Da che parte sta il
sociale?» chiede ai suoi lettori dopo aver osservato che «una coppia che a
stento vive con mille euro al mese oggi può arredare casa, ascoltare buona
musica o andare a Londra grazie ai prezzi di Ikea, Naxos e Rayanair che
nessun mobiliere, discografico e compagnia aerea nazionale gli offrono»?
Posto il problema in questi termini, - come dire? - non c'è partita. Questo
è il modo di porre le cose col quale il liberismo di questi anni ha
sostenuto le proprie ragioni ed esercitato, spesso con insistenza, le sue
pressioni. Ma, detto così, il problema è un po' troppo semplificato.
Basterebbe considerare che, se questa impostazione fosse esaustiva, di fatto
la riduzione dei prezzi - degli arredi di casa, della musica, dei passaggi
aerei - avrebbe determinato una elevazione delle condizioni di vita che
invece nella realtà non è così facile riscontrare.
La globalizzazione, infatti, è certamente apprezzata da chi trova da Ikea un
mobile che nella produzione nazionale potrebbe essere trovato solo a un
prezzo almeno doppio, ma probabilmente è apprezzata meno dai dipendenti
dell'industria nazionale i quali o hanno perso il posto perché
quell'industria ha trasferito i suoi stabilimenti in Romania, oppure hanno
dovuto accettare retribuzioni ridotte a parità di lavoro. Possono viaggiare
con Rayanair, ma è difficile che ciò basti a confortarli. Questo per dire
che Ikea, Rayanair, i discount, il made in China, le liberalizzazioni e la
globalizzazione, hanno ridotto il prezzo di molti beni o servizi, ma hanno
potuto farlo perché in quei beni e servizi è stato ridotto fortemente il
costo del contenuto di lavoro. Sarebbe progresso se ciò fosse avvenuto in
ragione di investimenti che avessero innalzato la produttività del fattore
lavoro e il valore aggiunto contenuto nei prodotti; è molto discutibile che
lo sia se, invece, avviene perché la remunerazione del lavoro viene ridotta
attraverso il trasferimento della manifatturazione in Paesi a basso costo, o
la riduzione della remunerazione che il lavoro nazionale possa aver
accettato nella illusione che ciò valga a evitare le delocalizzazioni o la
contrattazione di esuberi. Dunque, quei benefici non sono gratis, ma costano
quelle riforme - precarietà, riduzione del welfare, contratti di
solidarietà, aumenti di orario a parità di salario, esuberi, e tante altre
implicazioni minori spesso irritanti nelle quali ci imbattiamo
quotidianamente (i call-center automatici, tanto per dirne una) che dobbiamo
subire in omaggio alla ossessiva esigenza di comprimere i costi - che la
competizione, una competizione così concepita, inevitabilmente comporta.
Tutti possono permettersi una spesa da Ikea, ma non per questo campano
meglio di prima perché il prezzo da pagare non è solo quello esposto sul
cartellino.
E allora non c'è solo il beneficio di poter comprare da Ikea anziché da un
mobiliere di Cantù, o di volare Rayanair anziché Alitalia (anche se tra il
mobile di Cantù e quello di Ikea qualche differenza c'è, e se una Rayanair
ti porta più dove dice lei che dove vuoi tu). C'è un saldo che va calcolato
«al netto delle partite di giro» affinché non si risolva in qualcosa di
simile a una presa in giro. Perché è vero che, nel mondo globale nel quale
tutto si lega, c'è una offerta a basso costo che prima non c'era, ma quella
offerta è la faccia amica di una medaglia che, con l'altra faccia, ci impone
di ridurre ciò che costiamo noi in termini di retribuzione, di contributi,
di prestazioni sociali, di certezza del posto di lavoro, di programmabilità
della vita. Non è detto il saldo sia negativo, per carità; ma non è detto
neppure che con certezza possa essere dato per positivo per la maggioranza
delle persone. Sarebbe possibile se si fosse avverata la prospettiva che i
liberisti andavano offrendo: le produzioni a basso costo verranno cedute ai
Paesi emergenti e i Paesi evoluti faranno cose più sofisticate, più
innovative, più redditizie in modo che tutti, emergenti ed evoluti, potranno
progredire sulla via del benessere. Ma questo eldorado è rimasto una
chimera: il reddito dei Paesi come l'Italia ristagna; all'interno, si sposta
dalle persone alle imprese; e tra le persone da quelle che hanno meno a
quelle che hanno più. Questo è «il sociale» dei nostri giorni. Un giorno
forse ce ne sarà uno, tra i liberisti, che in un raptus di onestà
intellettuale arriverà a riconoscere la contraddizione nella quale i suoi
teoremi si sono drammaticamente impigliati.