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l'impero americano d'occidente



     
 
il manifesto - 26 Maggio 2002 
ANALISI 
L'impero americano d'occidente 
TOMMASO DI FRANCESCO E MANLIO DINUCCI
«Si vis pacem para bellum» (se vuoi la pace prepara la guerra), insegnavano
nell'antica Roma. La pace era naturalmente la «pax romana», imposta ai
nemici sconfitti che, accettando di essere subalterni, venivano ammessi
nell'impero. Lo stesso cerca di fare la moderna Washington: imporre alla
Russia - a ciò che resta della superpotenza nemica - la «pax americana».
Essa viene suggellata dal Trattato di Mosca, che permette agli Stati uniti
di accrescere il vantaggio nel settore degli armamenti nucleari strategici
dopo avere stracciato lo storico trattato Abm contro la proliferazione
nucleare, e dalla Dichiarazione di Roma, che associa formalmente la Russia
(senza darle alcun potere effettivo) alla Nato sotto la leadership
statunitense. Prosegue così il riorientamento della strategia statunitense,
iniziato con la fine della guerra fredda. Durante la guerra fredda era
chiaro quale fosse il nemico degli Stati uniti: l'«impero del male»,
rappresentato dall'Unione sovietica. A un certo punto però esso crolla,
lasciandoli nella posizione di unica superpotenza, ma di fronte a un grave
dilemma: qual è ora il nemico? Senza più la «minaccia sovietica», come
avrebbero potuto gli Usa continuare ad armarsi e mantenere la loro
indiscussa leadership nei confronti degli alleati, soprattutto europei?
Viene allora introdotta la formula delle «minacce regionali», sulle cui
base sono condotte le prime due guerre del dopo-guerra fredda: quella del
Golfo (sotto la presidenza del repubblicano Bush senior) e quella contro la
Jugoslavia (sotto la presidenza del democratico Clinton). Ambedue
focalizzate sul nemico numero uno del momento, prima Saddam Hussein, quindi
Slobodan Milosevic.

Con la prima guerra, gli Usa rafforzano la loro presenza militare e
influenza politica nell'area strategica del Golfo, dove sono concentrati i
due terzi delle riserve petrolifere mondiali. Con la seconda, rafforzano la
loro presenza e influenza in Europa nel momento critico in cui se ne stanno
ridisegnando gli assetti, e rivitalizzano la Nato attribuendole (col
consenso degli alleati) il diritto di intervenire fuori area. E' a questo
punto che la Nato comincia a estendersi ad est, inglobando i primi tre
paesi dell'ex Patto di Varsavia (Polonia, Ungheria e Repubblica ceca).
L'adesione all'Alleanza atlantica diventa perfino l'unico criterio di
valutazione «democratica» dei nuovi regimi e avviene a costi elevatissimi
per i bilanci di questi fragili stati, sempre più mirati all'improduttivo
rinnovo di spese militari.

Ma il mondo però non va come decidono alla Casa bianca. L'economia
statunitense, pur restando la maggiore, perde terreno soprattutto nei
confronti di quella dell'Unione europea. Contemporaneamente, in Arabia
saudita e nel mondo arabo vi sono crescenti segni di insofferenza di fronte
al predominio statunitense e alla presenza militare Usa nella penisola
arabica, confermata dal disastro della politica americana in Medio Oriente;
mentre in Asia il riavvicinamento russo-cinese prospetta la possibilità di
una coalizione in grado di sfidare gli Usa. «Anche se gli Stati uniti non
avranno di fronte nel prossimo futuro un rivale di pari forza - sottolinea
il Pentagono nel documento strategico del 30 settembre 2001 - esiste la
possibilità che potenze regionali sviluppino capacità sufficienti a
minacciare la stabilità di regioni cruciali per gli interessi statunitensi.
In Asia, in particolare, esiste la possibilità che emerga un rivale
militare con una formidabile base di risorse»: un riferimento a Pechino e
al suo temuto e concorrenziale gigantismo economico che disegna in apertura
del nuovo millennio uno scenario insidioso.

Ciò avviene proprio nel momento in cui gli Stati uniti cercano di occupare,
prima di altri, il vuoto lasciato dal crollo dell'Unione sovietica in Asia
centrale (area di enorme importanza sia per le risorse energetiche del
Caspio e i relativi corridoi petroliferi) sia per la posizione
geostrategica rispetto a Russia, Cina e India. In questo momento critico,
l'attacco terroristico dell'11 settembre (sulla cui versione ufficiale vi
sono crescenti dubbi) permette agli Stati uniti di lanciare una formidabile
campagna militare, politica e mediatica: l'operazione «Libertà duratura»,
di cui la guerra in Afghanistan è solo l'inizio. A motivarla ufficialmente
è la necessità di combattere non solo Osama bin Laden, nemico numero uno
del momento, ma «un nemico oscuro, che si nasconde negli angoli bui della
terra».

Con questa motivazione, gli Stati uniti hanno deciso il più grosso aumento
del budget del Pentagono negli ultimi vent'anni: da 329 miliardi di dollari
nell'anno fiscale 2002 a 383,4 nel 2003, che, compresi i 17 miliardi per la
conservazione dell'arsenale nucleare, salgono a 400, circa la metà della
spesa militare mondiale. Si aggiungono a questi i 17 miliardi di dollari
spesi in sette mesi per la guerra in Afghanistan (cifra ufficiale del
Dipartimento della difesa). Si tratta di un enorme investimento,
finalizzato ad accrescere la supremazia militare della «potenza globale»
statunitense (come la definisce il documento del Pentagono), nei confronti
non solo degli avversari ma anche degli alleati, nella fase critica in cui
si ridefiniscono gli assetti mondiali del dopo guerra fredda.

Nello stesso quadro rientra l'occupazione fisica di aree un tempo facenti
parte dell'Unione sovietica e del suo blocco di alleanze: gli Usa si stanno
preparando a una presenza militare permanente nelle repubbliche ex
sovietiche dell'Asia centrale (Kirghizistan, Uzbekistan, Tagikistan,
Kazakhstan, Georgia) così come in Bulgaria e Romania, dopo aver disseminato
nei Balcani (dalla Bosnia al Kosovo) decine di basi militari.
Contemporaneamente Washington opera per l'ulteriore espansione a est della
Nato, che ingloberà il prossimo novembre molti dei 10 paesi candidati -
Lituania, Estonia, Lettonia (le prime repubbliche dell'ex-Unione sovietica
ad essere ammesse), Slovenia, Slovacchia, Romania, Bulgaria, Albania,
Macedonia e Croazia - che verranno in tal modo ad essere collegati non
tanto alla Nato quanto direttamente agli Stati uniti e alla loro strategia.

Significativo è che, nel lanciare la guerra in Afghanistan, gli Usa abbiano
scavalcato anche la Nato, aggregando all'operazione singoli paesi europei
(come Gran Bretagna e Francia). Gli Usa si fidano infatti solo fino a un
certo punto dell'Europa. Lo conferma lo studio Global Trends 2015,
elaborato dal Nic (National Intelligence Council) e dalla Cia: tra i
possibili scenari del 2015 vi è quello che «l'alleanza tra Usa ed Europa
crolli, a causa in parte dell'intensificazione delle guerre commerciali e
della competizione per la leadership sulle questioni della sicurezza».

Potrebbe allo stesso tempo - secondo gli analisti dell'intelligence
statunitense - verificarsi che «la Cina, l'India e la Russia formino de
facto un'alleanza geostrategica nel tentativo di controbilanciare
l'influenza statunitense e occidentale» e/o che «i maggiori paesi asiatici
stabiliscano un Fondo monetario asiatico o (cosa meno probabile) una
Organizzazione asiatica per il commercio, minando il Fmi e la Wto e quindi
la capacità degli Stati uniti di esercitare la leadership economica
globale». Brutti presagi, per l'impero americano d'occidente.