[Date Prev][Date Next][Thread Prev][Thread Next][Date Index][Thread Index]
e il capitale strategico diventa il lavoratore
dal sole24ore
Domenica
E il capitale strategico diventa il lavoratore
di Bruno Manghi
Dagli anni 90 c'è stata in Italia una graduale ripresa di interesse per il
tema della partecipazione dei lavoratori, ravvivato sia da casi aziendali
come Zanussi, Alitalia, Dalmine, sia da pratiche meno vistose di altre
imprese, sia dall'intervento di studiosi. Tra i quali chi ha seguito con
maggiore costanza, spirito critico e passione questa problematica è Guido
Baglioni che con il saggio Lavoro e decisioni nell'impresa, corona un
decennio d'impegno intellettuale. La frontiera nobile e impervia tra
capitale e lavoro umano ha caratterizzato in modo "drammatico", ma anche
creativo la storia occidentale di oltre due secoli. Intorno a essa si sono
manifestati i vertici della subordinazione e quelli della rivolta
antagonista per lasciare via via spazio alla negoziazione collettiva e a
quella individuale fondate su una nuova legalità. Ma sempre c'è stato chi
nei fatti e nel pensiero ha pensato di forzare quella frontiera, dalle
esperienze dei falansteri e delle comunità di lavoro ai modernissimi
tentativi del l'"economia di comunione" con in mezzo la migliore tradizione
cooperativa, le autogestioni generalmente brevi e fiammeggianti. Anche tra
gli imprenditori a ogni generazione grandi personalità hanno tentato di
modificare ciò che appariva inevitabile in quanto consueto: la Bata della
prima parte del secolo, il nostro Adriano Olivetti, e ancora oggi si
rinvengono casi originalissimi come Auchan e Gore-Tex. Quando il capitale
umano diventa la risorsa strategica per eccellenza, quando la qualità e
l'orientamento al mercato impongono le loro richieste anche alle
prestazioni più modeste, non è forse il momento di andare oltre le
classiche pratiche di scambio contrattuale? È una prospettiva che attrae
una parte del mondo sindacale (Cisl e Uil, qualche importante sindacato
professionale), e generalmente aree culturali di stretta ascendenza
socialdemocratica o cattolico sociale. Ma la novità è che la cosa interessa
esponenti di spicco del mondo manageriale come Annibaldi, Castro, Figurati,
e figure importanti della sinistra come Aris Accornero che vede nella
partecipazione l'unica tra le utopie ottocentesche sul lavoro a non essere
stata sconfitta. Il lavoro di Baglioni non è tuttavia un pamphlet, un'ode
sociologica alla partecipazione, ma un'indagine sugli spazi possibili di un
lavoro che "conta" nelle decisioni d'impresa. Intanto muove da una
piattaforma conoscitiva dove la partecipazione in senso generale e non
formalizzato appare in realtà la condizione normale della sopravvivenza dei
sistemi produttivi: parliamo di cooperazione, di convergenza, di
collaborazione informale. Anche nei luoghi più esposti ai conflitti
l'equilibrio quotidiano poggia sulla dimensione comunitaria, che non è
vuoto sentimento ma un insieme di regole non scritte relative al dono, alla
reciprocità, al riconoscimento simbolico. Senza questo codice i puri scambi
o le pure gerarchie non durerebbero più di qualche settimana. C'è poi il
complesso universo della partecipazione "per competenze" dove i saperi
concorrono a risolvere i problemi e a prendere decisioni. C'è un oltre
possibile? Certamente, purché non si cada nel l'equivoco di adattare alle
relazioni industriali il calco della democrazia politica fondata su
rappresentanze e mandati. Esiste un nocciolo di autorità nelle decisioni
d'impresa che può essere condizionato indirettamente ma che deve
salvaguardare la propria efficacia e soprattutto la tempestività delle
scelte. Passando dal negoziato alle pratiche partecipative troviamo
anzitutto alcuni vasti spazi già sperimentati; quello del l'innovazione
tecnica e dei cambiamenti organizzativi, alcuni aspetti della gestione
delle risorse umane (formazione, valutazione). Ambiti che stanno al di qua
delle decisioni strategiche, ma che modificano radicalmente l'ambiente e la
cultura dell'impresa, purché sostenuti da una fondamentale condivisione
degli obiettivi. L'aspetto importante della partecipazione organizzativa è
che essa può essere un prodotto naturale della contrattazione collettiva.
Quando invece muoviamo verso forme di partecipazione
strategica,inevitabilmente qualche problema si pone anche se risolvibile,
come dimostra il caso tedesco. Influire sulle decisioni di indirizzo del
l'impresa senza bloccare la gestione manageriale ordinaria, può
legittimarsi per via legislativa ma anche attraverso il possesso collettivo
di titoli di proprietà da parte dei lavoratori, sempre che questo non abbia
un esclusivo scopo redistributivo. Nel caso ideale, la quota azionaria dei
lavoratori consente quantomeno un giudizio autorevole sull'operato del top
management e in ogni caso ha un peso decisivo nei momenti critici
inevitabili per qualunque impresa. Baglioni approfondisce con molta cura
tutte le possibili alternative di partecipazione strategica, cercando con
successo di contestare i timori di azzeramento della presenza sindacale e
anche la loro inapplicabilità in tempi di new-economy. La net-economy
infatti espande l'area del lavoro individualizzato, ma per un verso
trascina un'enorme retrovia di lavoro tradizionale (logistica,
sorveglianza, pulizia, manifatture) e per un altro dà vita a imprese i cui
lavoratori professionali operano in un clima di sostanziale autogestione e
a livelli estremi di condivisione. Quanto alla globalizzazione, essa rende
indubbiamente difficile intercettare la controparte, ma in qualche modo
rende più utile la partecipazione sia dal punto di vista del lavoro sia da
quello della sfera pubblica. Non mancano domande successive: quali forme
partecipative possono disegnarsi per il mondo delle piccole imprese, per i
distretti? Oppure se la democrazia economica non vada piuttosto perseguita
attraverso i fondi pensione per i lavoratori organizzati. In taluni casi è
storicamente evidente quanto essi poco influiscano sulle scelte d'impresa,
ma non sempre come dimostra il fondo dei lavoratori del Quebec, oggi
principale finanziatore dello sviluppo locale. L'itinerario di Baglioni,
così articolato e aperto alla lezione dei casi, ha un altro merito: quello
di farci vedere come le imprese e i loro mondi del lavoro siano
lontanissimi da ogni processo di omologazione: più che mai scorgiamo una
straordinaria varietà di culture, organizzazione e anche di volontà umane.
Quanto al plausibile sogno di forzare il paradigma del lavoro salariato, la
partecipazione rappresenta comunque una discontinuità e non deve fare tanto
i conti con sindacalisti scettici o imprenditori gelosi del loro ruolo,
quanto con la ritrosia generale ad abbandonare relazioni subordinate e
certo asimmetriche ma ormai incivilite per avventurarsi in un percorso che
accentua rischi e responsabilità. Guido Baglioni, «Lavoro e decisioni di
impresa», Il Mulino, Bologna 2001, pagg. 234, L. 34.000, 17.56.
25 novembre 2001