cosa esce dai nostri rubinetti




da repubblica.it
 

il caso dell’arsenico a Viterbo,
TROVARE L’ACQUA BUONA È DIVENTATA UNA SCOMMESSA
RAPPORTO NAZIONALE SUI PESTICIDI
Viaggio nell’Italia dell’emergenza idrica
DA NORD A SUD
CONFERMA LA PRESENZA DI RESIDUI IN PIÙ DELLA METÀ DEI CAMPIONI.

Cosa esce dai nostri rubinetti

JENNER MELETTI

RUBIERA (Reggio Emilia)
Anche questa terra dove puoi andare in bicicletta a prendere l’acqua fresca e frizzante — evitando il bar dove ti chiedono 1 euro per mezzo litro — non è comunque il paradiso. Il rapporto Ispra (Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale) dice infatti che proprio «nella pianura padano —veneta»c’èlamaggioreconcentrazione di aree contaminate. «Questo per le caratteristiche idrogeologiche del territorio e per il suo intenso utilizzo agricolo».
La natura ha una memoria da elefante, ricorda tutti i torti subiti. L’atrazina è stata bandita dai campi più di vent’anni fa ed è ancora fra i maggiori inquinanti. La simazina continua ad avvelenare le acque anche se fuori commercio. La terbutilazina e il suo metabolita terbutilazina — desetil sono ancora in commercio e sono state trovati nel 46% dei campioni di acqua superficiale e nel 15% di quelle sotterranee.
Ormai in tutta Italia per trovare acqua buona bisogna scavare pozzi sempre più profondi e poi bisogna disinquinare quelle che erano le chiare, fresche e dolci acque con filtri a carbone e altri marchingegni. Non sempre però la tecnica riesce a vincere. Il viaggio
nelle acque avvelenate può fare tappa nel centro commerciale “il Poggio” a Montescudaio, al confine con Cecina. «Qui — racconta Yuri Trusendi, del comitato Trielina no grazie — possiamo dire davvero di essere becchi e bastonati. È stato trovato un enorme inquinamento da Tce, trielina e Pce, percloroetilene che ha avvelenato le nostre falde e le nostre terre, e noi danneggiati rischiamo di dovere pagare i danni: cinque o sei milioni di euro per 22 famiglie, soprattutto di contadini».
C’erano una lavanderia industriale, la Rapida, chiusa nel 1983 e una conceria, la Massini, fermata nel 1996, qui dove ora c’è il centro commerciale. «Nel 2004 — dice Yuri Trusendi — l’Asa, azienda
servizi ambientali, per la prima volta cerca la trielina nel pozzo Ladronaia e ne trova una quantità assurda: 40.000 microgrammi per litro, quando il limite sarebbe di 10. Scatta l’ordinanza che vieta l’uso di questo e di altri pozzi sia per l’acquedotto che per l’irrigazione. Nell’ex conceria vengono trovati 80 fusti di materiale mal stoccato con alta concentrazione di Tce e Pce e per l’azienda parte la denuncia di avvelenamento delle acque ad uso idropotabile. Ma le indagini, almeno all’inizio, non sono approfondite e l’area non viene messa sotto sequestro. Così in primo grado l’ex conceria viene assolta e noi che subiamo l’inquinamento siamo nei guai. Se non si trova il colpevole,
recita l’articolo 253 del D. lgs 152/06, sono i proprietari dei terreni inquinati a dover sostenere i costi della bonifica».
Al processo la Regione Toscana si è presentata come parte civile. «I Comuni di Montescudaio e Cecina — dice Yuri Trusendi — sono invece rimasti a guardare, come del resto hanno fatto negli ultimi vent’anni. I miei genitori ed i miei fratelli continuano ad allevare vacche da carne. Ma debbono comprare il foraggio da aziende non inquinate e nelle stalle debbono portare l’acqua dell’acquedotto, filtrata da carboni attivi e pagata a caro prezzo».
Nell’ufficio del sindaco di Montescudaio, Aurelio Pellegrini, una fotografia mostra ragazzi
felici che portano brocche d’acqua. «È stata scattata nel 1936, quando fu costruito l’acquedotto. Sembrava che tutto fosse risolto, allora…La vicenda della trielina è grave, ma purtroppo è solo una piccola parte del problema. In alta e bassa Val di Cecina sono tanti infatti i pozzi avvelenati da cromo e da boro, e ancora non sappiamo dove sia nato l’inquinamento. Per fortuna, sotto tutta la valle, a circa 200 metri c’è una falda di acqua buona che basterebbe per tutti i 150.000 abitanti della zona ma questo patrimonio ci viene sottratto, in misura del 60 — 70%, dalla Solvay di Rosignano, il gruppo belga che produce soda, bicarbonato, materie plastiche. Così i nostri acquedotti debbono prendere acqua in pozzi inquinati e spendere soldi per togliere cromo e boro. L’anno scorso ho sequestrato il pozzo della Steccaia, usato dalla Solvay, per dare acqua al nostro paese. Da anni proponiamo all’azienda di prendere acqua in mare, costruendo un dissalatore. Loro rispondono che i costi sarebbero troppo alti e dovrebbero lasciare a casa i loro mille lavoratori».
Ci sono anche veleni prodotti non dall’uomo ma dalla natura. Dal 1° gennaio in 40 Comuni del Lazio, soprattutto nella Tuscia, non è più possibile bere l’acqua del rubinetto (né usarla in cucina, nei forni, nei ristoranti) perché contiene troppo arsenico, contenuto nelle rocce vulcaniche intorno ai laghi laziali. «L’ultima proroga — dice Roberto Scacchi, responsabile acqua di Legambiente Lazio — è scaduta alla fine dello scorso anno. La Regione pensava assurdamente a un altro rinvio che l’Europa ha giustamente negato, perché già nel
2001 aveva stabilito, come raccomandato dall’Organizzazione mondiale della sanità, che la presenza di arsenico non potesse essere superiore ai 10 microgrammi per litro. E così abbiamo centinaia di migliaia di persone che non possono aprire il rubinetto nemmeno per lavarsi i denti o pulire gli indumenti». Dal 14 aprile a Viterbo è in corso lo sciopero della sete (per un giorno, a staffetta) proposto dal candidato sindaco Filippo Rossi per chiedere la depurazione degli acquedotti. Nel comune di Farnese, 1.600 abitanti, l’arsenico arriva a 22 microgrammi. Sotto gli alberi di via S. Magno i bambini giocano a pallone ma se vogliono bere debbono andare a comprare la bottiglietta al bar, perché sulle fontane un cartellino annuncia «Acqua non potabile». «Da una ricerca dell’Iss — dice Valeria Cattaneo, che guida il circolo La Spinosa di Legambiente — condotta nelle aree a rischio del viterbese sulle unghie di 269 soggetti sani, sono stati trovati 200 nanogrammi di arsenico per grammo, contro gli 82 trovati nella popolazione non a rischio. Qui a Farnese l’allarme è grande, soprattutto nelle famiglie che hanno bimbi piccoli, i più esposti. Forni e ristoranti si sono comprati un depuratore, spendendo più di 1.000 euro a testa». Il Comune sta preparando un “dearsenificatore”. Doveva essere pronto il 17 ottobre 2012, con un costo di 7.148.211 euro, ma i lavori sono ancora in corso. C’è una sola fontana attiva, chiamata “Fontana leggera”, con impianto anti arsenico. Acqua naturale gratis, acqua gasata 5 centesimi a bottiglia di 1,5 litri. C’è la fila, con signore che portano la tanica per poter poi cuocere la pasta. Chiusa la
grande fontana in piazza Umberto I. Una lapide ricorda che nel 1887 «condotte le copiose acque della sorgente la Botte / furono paghi i secolari voti del popolo». C’èdasperareche,ancheperl’acqua senza troppo arsenico, l’attesa non sia secolare.

Cattive acque d’Italia il pericolo nel bicchiere
 
ASSEDIATI dalle acque avvelenate, come ci difenderemo? Prima il referendum per la proprietà pubblica delle acque; poi le sentenze della Corte costituzionale che hanno seppellito il tentativo di reintrodurre le norme bocciate. Ma se le acque ci appartengono, come mai tolleriamo contaminazioni che minano la nostra salute?
 
  L’UNICO ANTIDOTO È DIFENDERE IL SUOLO
  
SALVATORE SETTIS

La retorica dei grattacieli, in ritardo di un secolo rispetto ai suoi modelli americani, comporta profonde escavazioni, che spesso mettono in comunicazione due o più falde acquifere, favorendo la subsidenza e la contaminazione delle acque e dei suoli (ancor più grave dove insistono discariche miste, con forti presenze di sostanze organiche). Rifiuti industriali liquidi e semiliquidi, spesso scaricati nel terreno per risparmiare sui costi, si infiltrano in terreni già compromessi, e i veleni si spargono per ogni dove, raggiungono le acque e le radici degli alberi, alterano il nostro cibo. I controlli pubblici, pur segmentati e diseguali, dovrebbero crescere di fronte a tanto disastro, e invece sono in ritirata, perché il vangelo è risparmiare a ogni costo, anche a costo della vita dei cittadini. La riduzione delle risorse pubbliche è un aspetto di quello smontaggio dello Stato che i governi della legislatura appena chiusa (compreso il governo “tecnico”) hanno perseguito senza rimorsi, etichettandolo cinicamente come “riforme” (un bel libro di Ugo Mattei, Contro riforme [Einaudi] ne propone un’analisi serrata). Come nel caso di Taranto, si è imposta alla politica una regola non scritta, ma improntata alla massima illegalità: che, cioè, quando siano in ballo interessi economici, la protezione della salute passa in secondo piano. E se un magistrato osa aprire un’inchiesta su costruttori senza scrupoli o su industrie che inquinano, c’è subito chi lo accusa di lesa maestà e invoca le borse, i mercati, l’Europa e quant’altro pur di scodinzolare senza pudore all’indirizzo dei padroni del vapore.
La risposta a tanto disastro dovrebbe essere in primo luogo il rilancio dell’agricoltura, che è la miglior possibile tutela dei suoli: ma nemmeno questo rimedio è più garantito, visto che l’industrializzazione delle coltivazioni intensivizza l’uso dei suoli usando pesantemente fertilizzanti chimici senza prevedere il loro impatto sul regime idrogeologico. La segmentazione delle competenze amministrative e l’insistenza sulla piena autonomia di ciascun Comune nella pianificazione del proprio territorio impedisce una visione “dall’alto” dei problemi, e dunque anche una qualsiasi soluzione. I confini amministrativi fra Comuni (ma anche fra Regioni) sono del tutto arbitrari, e non coincidono mai con la distribuzione naturale delle risorse ambientali, meno che mai con la mappa dei problemi, delle violazioni, dei pericoli. Dal ministero dell’Agricoltura è venuta almeno una proposta di legge sui suoli agricoli con molti aspetti positivi, ma travolta dalla fine legislatura; mentre il ministero dell’Ambiente troppo spesso si adagia in una passiva trincea di mera osservazione.
Prevale insomma l’idea berlusconiana che ognuno sia “padrone in casa propria”: gli industriali di inquinare, i coltivatori di usare concimi avvelenati, i Comuni di chiudere un occhio, anzi due. Il più prezioso dei nostri beni comuni, il suolo in cui viviamo, anziché esser gestito a beneficio della comunità dei cittadini, viene segmentato in funzione dell’esercizio del potere locale, della distribuzione di favori e benefici, del voto di scambio, dell’esazione di gabelle. Sparisce lentamente dall’orizzonte dei cittadini, dalla nostra etica quotidiana, perfino dai nostri sogni e speranze, ogni traccia di senso civico, ogni rispetto del bene comune. Ma è al bene comune che la Costituzione è orientata, dalla prima parola all’ultima. Essa subordina la proprietà privata e la libertà d’impresa all’utilità sociale (artt. 41-42), «tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività» (art. 32), pone sicurezza e dignità in cima alla lista dei diritti, e non in fondo. Fra le “larghe intese” che a quel che pare ci attendono, quali sono le priorità? La salute dei cittadini o la loro condanna? Il
rispetto della Costituzione o il suo stravolgimento?