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urbanistica: manca il coraggio o manca la sinistra?
- Subject: urbanistica: manca il coraggio o manca la sinistra?
- From: "ANDREA AGOSTINI" <lonanoda at tin.it>
- Date: Mon, 14 Jan 2013 06:49:26 +0100
da eddyburg.it Eddytoriale n. 155 ( 20 dicembre
2012)
«La sinistra pare proprio aver perso la sua identità anche quando si tratta di ripensare alla città e all'urbanistica. Fra le tante componenti che la crisi delle ideologie ha ridotto in pezzi che non riescono a ricomporsi, vi è sicuramente l'idea di città, o almeno una sua declinazione davvero progressista, orientata al bene comune». Questa affermazione, espressa da Cristina Gibelli a proposito del nuovo PGT di Milano, ha una portata che travalica la dimensione, pur rilevantissima, della seconda capitale d'Italia. Quando si cimenta con le questioni che hanno a che fare con l'uso del suolo (e quindi con il ruolo della rendita immobiliare) anche la sinistra che ha la schiena dritta si rivela schiava della triade mattone-finanza- potere mediatico. Seppure in cuor suo (e nelle sue parole) prediliga "la città dei cittadini" o "la città come bene comune", di fatto si limita ad addolcire, mitigare, depeggiorare la devastante realtà della "città della rendita". Succede a Milano come a Napoli, a Cagliari come a Venezia (se quest'ultima può essere ancora definita di sinistra). Abbiamo scrittoin altra occasione i della "vergogna napoletana" e non passa settimana senza che dobbiamo raccontare qualche ulteriore episodio della svendita dei patrimoni pubblici della Serenissima al Benetton o Cardin di turno, o al "libero mercato" che aspirerebbe a investire sulle sponde della Laguna. Questa volta parliamo di Milano, per tirare qualche conclusione di carattere più generale sulla sinistra al potere. L'articolo di Cristina Gibelli, che compare qui accanto, documenta con efficace sintesi i passaggi e le scelte che hanno provocato forte delusione in chi aveva partecipato con speranzosa fiducia all'avventura elettorale di Giuliano Pisapia, e ai primi passi della sua giunta. Altri scritti ci sono giunti, da fonti diverse ma tutte meritevoli di credito, per documentare con dovizia di argomenti le ragioni di un giudizio profondamente critico del "nuovo" piano di governo del territorio ambrosiano. Spero che giungano anche altri scritti che argomentino le ragioni degli amministratori in carica. Gli errori più gravi che emergono da ciò che abbiamo finora potuto esaminare sono, in sintesi, i seguenti: - la pretesa di affrontare i problemi di assetto
della città senza alcuna
visione del sistema territoriale di cui è parte (quanti decenni sono passati invano dal generoso tentativo del Piano intercomunale milanese?); - la sostanziale conservazione, se non addirittura
l'incremento, delle
quantità della nuova edilizia rispetto alle immani dimensioni del piano Moratti; - l'accettazione acritica delle infami pratiche di
"perequazione" e
"compensazione" urbanistica. - l'oggettivo abbandono del principio,
legittimato con tenaci lotte sociali
negli anni '60 e '70, degli "standard urbanistici", cioè di spazi pubblici come tali assicurati solidamente al possesso e all'uso della cittadinanza. Non ci sembrano "errori" da poco a fronte dei
"depeggioramenti" sbandierati
dalla giunta. Se riflettiamo a queste critiche di merito tenendo conto dell'opacità nella quale si è svolta la preparazione e l'approvazione del PGT, non possiamo sfuggire a qualcosa che è ben più d'un sospetto: è un'ombra pesante che si getta su tutta l'area della sinistra, ivi compresa quella che - almeno nelle intenzioni dichiarate - si propone di essere radicale (nel senso di mirare alle radici dei problemi) e meno compromessa con i poteri dominanti. Le due domande che ci poniamo sono allora le
seguenti: (1) quali sono i
poteri che governano oggi le città e i territori: quelli espressi dalle istituzioni democraticamente elette secondo le regole della democrazia rappresentativa, oppure quelli costituiti dai tre interessi, sempre più solidalmente legati tra loro, dalla grande proprietà immobiliare, del sistema finanziario, dei mass media? (2) rispetto a questo sistema di potere, rispetto alla triade mattone, banche, grandi media, sono complici o succubi solo i soggetti politici facenti capo al vecchio sistema dei partiti, arricchito dai partiti dei tycoons e del razzismo padano, oppure anche quelli che vogliono esprimere un'alternativa? I casi che abbiamo sott'occhio ci obbligano a dare risposte molto sconfortanti a entrambe le domande. La "trahison des clercs" Prima di concludere questa dolorosa nota dobbiamo formulare un'autocritica: anzi, una critica a quegli intellettuali che, professando il sapere e praticando il mestiere dell'urbanistica, hanno accreditato, o addirittura inventato, gli strumenti consentono ai portatori di interessi privati di scardinare i principi dell'interesse pubblico. Ci riferiamo a chi ha criticato la "urbanistica autoritativa", a chi ha inventato i "diritti edificatori", a chi ha dichiarato fuori moda gli "standard urbanistici" e ha gettato alle ortiche il metodo del rigoroso calcolo delle quantità di urbanizzazione necessarie per i fabbisogni sociali non soddisfacibili nei volumi già edificati e sui suoli già laterizzati. Quello della trahison des clercs è un tema sul
quale dovremo ancora tornare,
nel tentativo di comprendere come e perché si sia dissolto il nesso tra la cultura e la pratica politica da un lato e, dall'altro, la cultura urbanistica, intendendo per questa la capacità di comprendere ciò che la città è, quali siano le forze e i meccanismi che ne determinano le trasformazioni, e quali i modi in cui queste incidano sulla vita delle persone. Su questo tema dovremo richiamare di nuovo l'attenzione dei nostri lettori. E probabilmente questo ci aiuterà a comprendere perché la sinistra, anche quella radicale, sia stata così debole nei confronti dei "poteri forti" rivelandosi portatrice suo malgrado d'una "incultura della città". Il ricatto della triade Ma c'è un'ultima questione su cui non possiamo non spendere ancora qualche parola. Le vicende delle nostre città ci dicono chiaramente che le istituzioni, e in particolare i comuni, sono schiave del sistema finanziario. Le banche che finanziano giorno per giorno le amministrazioni pubbliche sono intrinsecamente legate agli interessi immobiliari e tutt'e due insieme, attraverso i mass media, informano e formano l'opinione pubblica. Perciò lo stesso potere delle maggioranze di sinistra (e della stessa sinistra radicale) è sotto ricatto: si sono dovuti stipulare o accettare in silenzio accordi, espliciti o impliciti, per ottenere il consenso necessario a governare. Questi impegni, si dice, vanno rispettati: i margini dei "depeggioramenti" consentiti dall'accordo di potere sono esigui, al di là non si può andare, pena il fallimento. Che fare allora? Scendere dal treno e lasciare che la locomotiva lo conduca verso il peggiore dei destini possibili? Oppure guidare il convoglio lungo i binari già tracciati da altri? E' un dilemma che per fortuna non ci tocca personalmente, ma pensiamo che l'ultimo arbitro debba essere la coscienza di ciascuno. Se però dobbiamo dare (come vogliamo) una risposta politica, il nostro giudizio è chiaro. Chi ha ottenuto i voti necessari per governare in nome di scelte radicalmente diverse da quelle contro le quali è sceso nell'arengo, non può governare proseguendo la vecchia politica, per di più nascondendolo ai suoi stessi elettori. Se la presa sulla società della triade proprietà-banche-media è così forte da esercitare un'egemonia non contrastabile, cederle oggi significa cancellare anche i germi di controegemonia che l'inizio dell'avventura aveva fatto emergere, a Milano e altrove. A Milano, cedere oggi e proseguire il progetto urbanistico Moratti Masseroli, per non rischiar di perdere il consenso ottenuto nella vicenda elettorale, significa propter vitam vivendi perdere causas. Significa, nel concreto della società, disperdere i germi di speranza: quei germi che oggi forse sono troppo deboli per prevalere, ma che da domani saranno del tutto cancellati, o sostituiti dalla rabbia non incanalata. Su questa nostra posizione la discussione,
naturalmente, è aperta.
Città e territorio » Milano PGT di Milano: manca il coraggio o manca la sinistra? di Maria Cristina Gibelli «La sinistra pare proprio aver perso la sua identità quando si tratta di ripensare alla città e all'urbanistica». Un'analisi serena e senza veli del 'nuovo' Piano di Governo del Territorio milanese. Scritto per eddyburg La sinistra pare proprio aver perso la sua identità quando si tratta di ripensare la città e l'urbanistica. Fra le tante componenti che la crisi delle ideologie ha ridotto in pezzi che non riescono a ricomporsi, vi è sicuramente l'idea di città, o almeno una sua declinazione davvero progressista, orientata al bene comune. Da Milano, dal suo 'nuovo' Piano di Governo del Territorio, ci aspettavamo una decisa presa di distanza dal modello neoliberista e mercatistico che ha dominato nelle politiche urbanistiche lombarde: un modello che, dall'inizio degli anni '90 in poi, ha progressivamente smantellato il sistema di pianificazione, nel silenzio, quando non con l'esplicito sostegno, di una parte della cultura tecnica e politica. Ci aspettavamo maggiore creatività e coraggio e, soprattutto, risposte innovative alle speranze e alle attese dei cittadini che avevano votato per il cambiamento. Così non è stato. A Milano, con il 'nuovo' PGT, si sta toccando con mano questa perdita di identità della sinistra. Come noto, il PGT, adottato dalla Giunta Moratti nel 2010 ma non ancora divenuto efficace allo scadere del mandato, era un piano meramente al servizio del mattone: prometteva infatti espansioni edilizie tali da poter accogliere in prospettiva 257.946 nuovi abitanti (sugli attuali 1,3 milioni). Ma analisi attente delle previsioni di sviluppo urbanistico-edilizio avevano evidenziato un ben maggiore sovradimensionamento delle opportunità edificatorie: per oltre 600.000 nuovi abitanti! Fra i primi atti del nuovo governo municipale retto da Pisapia in materia urbanistica vi fu una decisione apparentemente coraggiosa: si decise di revocare la delibera di approvazione del Piano di Governo del Territorio, ripartendo dal riesame delle osservazioni che erano state respinte in blocco dal governo precedente. Un preludio necessario, pensavamo, per ricostituire un sistema di garanzie, trasparenza e pubblicità; preliminare, pensavamo, a una profonda e radicale revisione del Piano. Ma il Piano non è stato cambiato in maniera sostanziale e si è persa una grande occasione: di provare a ripensare alle politiche urbanistiche milanesi in una dimensione davvero metropolitana e con una visione di respiro europeo. Il riesame delle osservazioni non è infatti servito, come era possibile e legittimo, per riaprire la 'questione urbana' milanese, ma per dare un segnale di solo apparente discontinuità e per completare al più presto i lavori garantendosi una ossequienza formale alla tempistica prescritta dalla legge 12/2005; in pratica per non rischiare le procedure commissariali. Ci chiediamo: perché, di fronte a sfide così rilevanti e troppo a lungo trascurate, si è scelta la strada del minor rischio? Non sarebbe stato più lungimirante, e un vero segnale di cambiamento, cestinare il Piano Moratti/Masseroli e dare forma a una nuova visione strategica per l'intera area metropolitana milanese, anche a costo di incorrere nelle sanzioni di legge per le amministrazioni inadempienti (una situazione in cui si trovano oggi del resto molti altri comuni lombardi)? Oltre tutto, in una fase di crisi manifesta del settore edilizio/immobiliare; con la prospettiva, sia pure incerta, di imminente istituzione delle Città Metropolitane e con l'accumularsi di scandali che hanno totalmente delegittimato il governo regionale? Si è invece preferito produrre un piano soltanto blandamente modificato del quale non condividiamo né il metodo né il merito. Approvato il 22 maggio 2012 in tutta fretta dal Consiglio Comunale un documento ancora in bozza, in cui venivano segnalate con i diversi colori le modifiche apportate al Piano Masseroli - peraltro difficilmente comprensibili ai non addetti ai lavori - e senza tavole allegate (!), il Piano è stato pubblicato in versione completa sul BURL il 21 novembre 2012. Ma solo contestualmente alla pubblicazione, il PGT integrale è stato messo in rete, consentendoci finalmente di conoscerne i contenuti, di fatto sottraendo alla civitas il diritto alla informazione e al dibattito critico. Dunque, è in primo luogo il metodo con cui si è arrivati alla pubblicazione del Piano a suscitare sconcerto: una frettolosa discussione in Consiglio Comunale su Bozze di Piano 'secretate'(è grazie a Masseroli, proprio lui, che le Bozze sono state inserite in Internet e rese accessibili ai cittadini!) e senza tavole allegate; una approvazione con un solo voto contrario e l'assenza dall'aula dell'opposizione; la pubblicazione del PGT completo sul BURL, giusto in tempo per ottemperare alle scadenze imposte da un governo regionale già in caduta libera. Strategia davvero discutibile: oltre a qualche evento di presentazione a carattere celebrativo e piuttosto retorico, che ha lasciato gran parte delle possibili questioni inevase, del PGT e dei suoi contenuti poco o nulla si è saputo; e dal recinto chiuso dei decisori e dei loro consulenti nulla è filtrato alla società civile e ai cittadini, salvo ostici e incompleti documenti di dettaglio per soli addetti ai lavori e incontri pubblici pilotati. Il governo locale milanese ha una volta di più mostrato una modesta propensione all'ascolto e alla costruzione partecipata del piano, in un'epoca in cui tutte le grandi città europee hanno ormai fatto di queste procedure il fondamento della propria legittimazione. Ma il nuovo Piano di Governo del Territorio ci lascia perplessi anche nel merito, e ci conferma una volta di più dell'intreccio, arduo da districare, fra politica, finanza e mattone che tanto ha nuociuto e continua a nuocere alla vivibilità urbana. Sono davvero troppo modesti i cambiamenti rispetto alla versione Moratti/Masseroli. Qui segnalerò soltanto le criticità più rilevanti, rinviando agli articoli di approfondimento già pubblicati su eddyburg. E altri ne seguiranno. Il nuovo PGT ha stabilito che il Parco Sud non potrà generare diritti edificatori trasferibili altrove e ha operato una riduzione dell'indice unico di edificabilità e delle quantità previste in alcune aree di trasformazione. Ma quest'ultima misura a ben vedere più che un segnale di inversione di rotta (anche se la stampa ne ha enfatizzato la rilevanza) appare poco incisiva, data la drammatica crisi economica e del settore edilizio, e di solo buon senso a fronte di un mercato già carico di tensioni e di quote elevatissime di invenduto o sfitto. Inoltre, la indicazione ufficiale di una capacità insediativa aggiuntiva di 182.873 abitanti teorici appare comunque molto elevata. Si tratta di un incremento del 13% rispetto alla popolazione attuale, in una città dal perimetro angusto e già molto densa. E alcune verifiche puntuali in corso, che pubblicheremo su questo sito, stanno evidenziando dati assai più preoccupanti: gli abitanti teorici potrebbero essere più del doppio. Comunque, una vera assurdità! Su altri aspetti cruciali il Piano appare molto debole, se non rischiosissimo: è privo di qualsivoglia visione di ampio respiro proiettata sul futuro della regione urbana, chiuso in una dimensione tutta milanocentrica, muto sulla disponibilità di spazi pubblici e nuove funzioni pubbliche di rilievo, evasivo sulla drammatica 'questione delle abitazioni' che affligge gli strati più deboli della popolazione. Sono quattro le domande che vogliamo porre alla amministrazione milanese. Ha senso continuare a pensare di rilanciare la città pubblica attraverso l'utilizzo estensivo, mai sperimentato altrove al mondo in un contesto urbano denso, di una perequazione urbanistica in cui "l'impiego, anche in forma frazionata, dei diritti edificatori è libero e può essere esercitato su tutto il territorio comunale edificabile" (Piano delle Regole, art. 7, comma 5)? Non solo la città pubblica non ne guadagnerà in qualità, ma si potranno determinare abnormi processi di addensamento centrale e disinteresse per bassa profittabilità di interventi sui tessuti periferici, nonché un indebito vantaggio per i proprietari di aree non centrali ai quali vengono attribuiti diritti edificatori utilizzabili ovunque e quindi anche al centro (si vedano i contributi di Camagni, Gibelli e Roccella in eddyburg). La Giunta Pisapia si è assunta la responsabilità di avallare la versione più deregolativa possibile della già controversa perequazione urbanistica: una versione che - ricordiamolo - la legge 12/2005 rende possibile, non certo obbligatoria. È lungimirante ipotizzare che la qualità di Milano possa essere migliorata con un approccio meramente quantitativo? Se la scelta del mix funzionale nella città consolidata è lasciata libera (come è nel PGT milanese) e se manca una visione di futuro per la metropoli e per il suo territorio, non basterà certo una riduzione degli indici edificatori rispetto alle surreali previsioni insediative del PGT Masseroli a migliorarla. Anche se non sono questi i tempi per prevedere una spesa pubblica rilevante, non era forse possibile pensare, grazie all'ingente quantità di diritti edificatori concessi e attraverso accordi con i grandi proprietari, tra cui le Ferrovie dello Stato, di progettare e finanziare qualche nuova funzione di rilievo per Milano, per la sua area metropolitana, per la immagine internazionale? È socialmente accettabile che l'edilizia residenziale sociale, che riceve un incremento dell'indice di utilizzazione territoriale di 0,35 mq/mq, sia obbligatoria soltanto negli Ambiti di Trasformazione Urbana e sulle aree d'intervento superiori ai 10.000 mq.? E che alla 'vera' edilizia economico popolare, e cioè in affitto a canone sociale, spetti la modestissima quota di 0,05 mq/mq, peraltro sempre sostituibile con altre categorie qualora l'operatore accetti l'onere della monetizzazione di una parte del "maggior ricavo" conseguito? E' accettabile che, nel resto del tessuto urbano, la realizzazione di edilizia residenziale sociale sia unicamente affidata alla buona volontà/convenienza dei privati? A puro titolo di esempio di maggior coerenza fra obiettivi e azioni: nell'attuale PLU (Plan Local d'Urbanisme) di Parigi approvato nel 2005, e di cui il sindaco Delanoë ha fatto una bandiera del suo mandato descrivendolo come un piano che persegue la 'rupture avec le passé', per tutti gli interventi di nuova edilizia residenziale privata superiori a 800 mq. di superficie netta di pavimento, è obbligatoria una quota di edilizia residenziale sociale (HLM) del 25%: una misura considerata cruciale per garantire vera mixité. E nel Programme Local pour l'Habitat de Paris (2011-2016) questa quota è stata estesa anche alle porzioni più centrali e pregiate della città: il Marais e il Settimo Arrondissement). E ancora, ha senso, per quanto riguarda il sistema della mobilità, avere ulteriormente rafforzato una progettualità tutta milanocentrica, anziché proiettata sulla regione urbana? In conclusione Le grandi promesse contenute nell'iniziale Documento di Indirizzo per il Governo del Territorio dell'ottobre 2011 si sono rivelate ingannevoli: "città come bene comune, concezione attiva della cittadinanza, metodo metropolitano, massimizzazione nell'housing sociale dell'affitto e, in particolare, della quota a canone sociale, mobilità dolce ." ecc. ecc. Troppo invadente appare ancora oggi l'eredità del passato in cui Milano ha fatto da apripista e da cantiere sperimentale di tutte le controriforme urbanistiche lombarde: dalla radicale deregolamentazione volta a premiare gli interessi del mattone; alla semplificazione delle procedure al fine di sottrarre decisioni rilevanti al dibattito democratico in Consiglio Comunale; agli ampi premi concessi alla rendita fondiaria (volumetrie, monetizzazioni a prezzo di realizzo, oneri irrisori); alla propensione a evitare un diffuso e partecipato confronto con gli interessi deboli e le associazioni di base; alla opacità di procedure di elaborazione e approvazione degli atti di pianificazione sempre tese a sopire e sedare. Preoccupante è stata la mancanza di informazione e confronto pubblico, come d'abitudine sostituita da retoriche occasioni celebrative piene di promesse anziché di contenuti. Imbarazzante infine, come da troppi anni avviene, è stato il sostegno di parte della cultura urbanistica, e nel caso particolare del Politecnico di Milano che in passato aveva già avuto modo di distinguersi per autocensure quando non per aperto supporto alle strategie 'innovative' dell'urbanistica milanese. Alla domanda di cambiamento delle regole del gioco, di coinvolgimento civico e di trasparenza, che ha costituito una delle leve potenti del successo elettorale di Pisapia si è risposto, per quanto riguarda la politica urbanistica, scegliendo la strada del minore attrito con gli interessi forti, del restyling, del business as usual. Davvero, ci aspettavamo un'altra storia. Questo piano, che ha dovuto soggiacere a vincoli istituzionali rilevanti (veri o presunti), dovrà essere subito riconsiderato e rinvigorito per quanto riguarda beni comuni, funzioni pubbliche e apertura a una dimensione davvero metropolitana. D'altra parte, proprio la legge regionale lo consentirebbe, grazie alla sua filosofia di fondo che rende gli atti di pianificazione sempre modificabili: una flessibilità che nel breve periodo potrebbe tornare utile per porre rimedio ai difetti più vistosi di questo Piano. Non ci resta che sperare infine che un eventuale e auspicabile futuro Presidente di una Giunta progressista al comando della Regione Lombardia si dimostri consapevole della immediata necessità di riscrivere la inaccettabile Legge di Governo del Territorio: che è tale solo nel titolo. E basta restyling per favore! La legge 12 ha già fatto troppi danni. Occorrerà mettervi mano e riformarla completamente! |
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