la sostenibile leggerezza della riconversione



La sostenibile leggerezza della riconversione ("Quale energia", n.2
aprile-maggio 2012)
Inserito da Guido Viale on giugno 1, 2012 

L'orizzonte esistenziale delle nostre vite è dominato dalla crisi
ambientale: non solo dai mutamenti climatici, che rappresentano ovviamente
la minaccia maggiore; ma anche dalla scarsità di acqua e suolo fertile (non
a causa della loro limitatezza naturale, ma dell'inquinamento e della
devastazione a cui sono sottoposti); dalla distruzione irreversibile della
biodiversità; dall'esaurimento del petrolio e degli altri idrocarburi (che
sono anch'essi "risorse naturali", anche se utilizzate prevalentemente per
devastare la natura); dall'esaurimento di molte altre risorse, sia
geologiche che biologiche e alimentari (il nostro "pane quotidiano"); dall'inquinamento
degli habitat umani che riduce progressivamente la qualità della vita e
delle relazioni interpersonali. A molte di queste minacce c'è chi pensa di
poter fare argine con l'innovazione: nuovi materiali; nuovi processi; nuove
tecnologie. È un'illusione: anche se fosse possibile affrontare così una o
alcune delle grandi questioni ambientali, è la loro interconnessione in un
sistema unico e complesso a imporre un approccio globale. Parlare di
crescita economica, qualsiasi cosa si intenda con questa espressione, senza
fare riferimento a questo quadro, è un discorso vuoto.
Scienziati di tutto il mondo, riuniti nell'Intergovernmental Panel on
Climate Change (IPCC) insistono nel mettere in guardia i governi che il
tempo per evitare una catastrofe irreversibile che cambierà i connotati del
pianeta Terra e le condizioni di sopravvivenza della specie umana sta per
scadere; e che misure drastiche devono essere adottate per realizzare subito
un cambio di rotta. Ma nelle recenti riunioni COP, Durban (2011), Cancun
(2010) Copenhagen (2009) non è successo praticamente niente. La delegazione
europea, che aveva le posizioni più avanzate, ha rinunciato - a causa della
crisi finanziaria - a proporre agli altri governi vincoli più stretti (e
quella italiana non ha mai avuto molto da dire). Ma se stampa e media
avessero dedicato alla minaccia di questa catastrofe imminente anche solo un
decimo dell'attenzione dedicata allo spread, probabilmente il 99 per cento
della popolazione mondiale sarebbe scesa in piazza per costringere i
rispettivi governi a prendere provvedimenti immediati.
A livello locale il nostro paese - ma anche il resto d'Europa - viene
sconvolto sempre più spesso dal dissesto di interi territori, con morti e
danni incalcolabili. Cielo (clima) e terra (suolo) si uniscono nel provocare
disastri che non hanno altra origine che l'incuria e il profitto, e che
mille "piccole opere" di salvaguardia del territorio (invece di poche
"Grandi opere" che concorrono al suo dissesto) potrebbero invece prevenire.
Ma questi problemi non si trova la minima traccia nei discorsi ufficiali
degli ultimi anni (compresa la presentazione in Parlamento del governo
Monti, dove la parola ambiente non è stata mai nemmeno nominata). La cultura
ambientale, che è ormai "scienza della sopravvivenza", è fuori dal loro
orizzonte. Eppure potrebbe e dovrebbe essere una bussola per la
riconversione del sistema economico (e di ogni prodotto che usiamo o
consumiamo, dalla culla alla tomba). Perché, oltre a contribuire a salvarci
dai disastri, rappresenta un'opportunità unica per difendere e promuovere l'occupazione
e per salvare impianti, competenze e capacità produttive di imprese che ogni
giorno vengono chiuse, vuoi per delocalizzazioni, vuoi per crisi di mercato,
vuoi per speculazioni selvagge. Per questo bisognerebbe mettere al centro
del programma di governo una politica industriale, una vera politica
agroalimentare, una politica di salvaguardia dell'ambiente, un piano per l'occupazione.
Cambiare il mondo si può. Quando gli Stati Uniti sono entrati nella seconda
guerra mondiale, in pochi mesi hanno convertito l'intero loro apparato
produttivo (il più potente del mondo) per far fronte alle esigenze della
produzione bellica. Poi lo hanno di nuovo convertito (sempre in poco tempo,
anche se solo parzialmente) per fare fronte alle aspettative della pace.
Oggi siamo di fatto in guerra contro una minaccia altrettanto se non più
mortale: quella dei cambiamenti climatici. Ma la resa dei conti sta per
arrivare e chi si sarà attrezzato per tempo si troverà meglio; o meno
peggio. Per questo la crisi ambientale offre all'economia delle opportunità
e impone dei vincoli. Le opportunità sono note: sono le potenzialità di una
conversione ecologica di produzioni e consumi verso beni e servizi meno
dipendenti dai combustibili fossili, meno devastanti per la biodiversità,
per la qualità e la disponibilità di risorse primarie; e sono le
potenzialità di una occupazione maggiore e diversa, caratterizzata a una più
estesa valorizzazione delle facoltà personali e della cooperazione; e le
potenzialità legate alle caratteristiche fisiche, storiche e sociali di ogni
territorio; perché i territori sono diversi uno dall'altro e la loro
ricchezza dipende dalla conservazione di questa diversità. Ma i vincoli sono
altrettanto rilevanti: il consumo di suolo e di risorse non può procedere al
ritmo seguito finora; molte delle produzioni che hanno guidato lo sviluppo
industriale dell'ultimo secolo - dall'edilizia all'automobile, dagli
armamenti all'utilizzo dei combustibili fossili, dal turismo di massa alle
monocolture alimentari - non potranno continuare per molto sulla stessa
strada: non solo per mancanza di risorse e per eccesso di rilasci
inquinanti, ma anche per saturazione dei mercati: della domanda solvibile.
Vincoli e opportunità indotti dalla crisi ambientale dovrebbero essere i
criteri informatori delle scelte che determinano o orientano le decisioni su
che cosa, quanto, con che cosa, come, per chi e dove produrre. Sono scelte
che non possono essere lasciate al "mercato": cioè al libero gioco della
domanda e dell'offerta; perché nessun mercato è in grado di cogliere e
soprattutto di rispondere correttamente a tutti i segnali che provengono
dalla complessità del contesto ambientale, da cui non si può più
prescindere.
Inoltre, oggi la globalizzazione ha trasformato alcune aree geografiche del
pianeta in manifatture del mondo. A questo è dovuta la contrazione della
domanda di lavoro - qualificato e no - che ha colpito i paesi di più antica
industrializzazione, imponendo alle relative classi lavoratrici un
drammatico deterioramento delle condizioni di lavoro e di vita:
precarizzazione, disoccupazione, riduzione dei redditi, compressione del
welfare. Questo processo ha investito tutti i settori e tutta - o quasi - la
gamma delle produzioni; ma, in misura maggiore, i beni consumati dalle
classi lavoratrici: i cosiddetti "beni-salario". Nel corso degli ultimi
decenni sono anche venute meno molte leve tradizionali di politica
economica: gli Stati ne hanno perso alcune (la determinazione del tasso di
sconto e dei cambi, la creazione di moneta, la politica doganale) o per
averle cedute a enti sovranazionali (è il caso dell'Unione Europea e
soprattutto dell'eurozona); o perché esse sono state di fatto requisite
dalla finanza internazionale: cioè da organismi di diritto privato
detentori - e anche creatori - di una massa monetaria sufficiente a
condizionare le decisioni di ogni Stato: anche di quelli più potenti. Ma,
soprattutto, le misure economiche adottate in una parte del pianeta possono
distribuire i loro effetti - diluendoli o moltiplicandoli - su tutto il
resto del mondo (lo si è visto con la crisi dei mutui subprime); e magari
non avere alcun effetto, né positivo né negativo, nel paese dove sono state
prese. Ciò ha minato molte delle misure di sostegno della domanda di matrice
keynesiana con cui spesso si propone di stimolare la produzione e, con essa,
l'occupazione.
Una politica industriale che faccia i conti con la globalizzazione e con la
crisi ambientale, cioè orientata a produzioni e consumi sostenibili,
richiede una riconversione delle fabbriche dove esistono impianti,
attrezzature e knowhow adeguati, alla produzione di impianti per lo
sfruttamento delle fonti rinnovabili per la microcogenerazione; o di mezzi
di trasporto collettivi o condivisi a basso consumo. E interventi su edifici
e macchinari per eliminarne le dispersioni energetiche. Occorrerà poi
restituire a ogni territorio la sovranità alimentare con un'agricoltura meno
dipendente dal petrolio e un'alimentazione meno dipendente da derrate
importate: una operazione da mettere in cantiere avviando una nuova leva di
giovani ad attività agricole e agronomiche ad alta intensità di innovazione
e di lavoro qualificato, che potrebbe cambiare l'aspetto fisico dell'intero
paese. Analogamente occorrerà intervenire sul patrimonio edilizio
inutilizzato, sul ciclo di vita dei materiali (risorse e rifiuti), su
scuola, università, sanità con interventi che riducono gli sprechi e
producono cultura, salute e occupazione. Ma ci vorrà anche una revisione
generale dei modelli di consumo e degli acquisti quotidiani: il passaggio,
per quanto è possibile, da forme di consumo individuali, fondate sullo
spreco e l'emulazione, a forme di consumo condiviso: per gestire rapporti
diretti con il produttore (come fanno oggi, nel loro piccolo, i "gruppi di
acquisto solidale"), per ridurre gli imballaggi e il superfluo, per
promuovere l'usato e la riparazione e condivisione dei beni guasti o
obsoleti.
Tutto ciò non è concepibile se non in un contesto di progressiva
riterritorializzazione: cioè di riavvicinamento fisico ("km0") e
organizzativo (riduzione dell'intermediazione affidata al solo mercato) tra
produzione e consumo. Sarà un processo graduale, "a macchia di leopardo" e,
ovviamente, mai integrale. Ma in essa un ruolo centrale lo giocheranno - e
già lo stanno giocando - l'impegno, i saperi e soprattutto i rapporti
diretti della cittadinanza attiva, le sue associazioni, le imprese e dell'imprenditoria
locale effettiva o potenziale e, come punto di agglutinazione, i governi del
territorio: cioè i municipi e le loro reti, riqualificati da nuove forme di
democrazia partecipativa. Le caratteristiche di questa transizione sono date
dal passaggio, ovunque tecnicamente possibile, dal gigantismo delle
strutture proprie dell'economia fondata sui combustibili fossili alle
dimensioni ridotte, alla diffusione, alla differenziazione e all'interconnessione
degli impianti, delle imprese e degli agglomerati urbani rese possibili dal
ricorso alle fonti rinnovabili, all'efficienza energetica, a un'agricoltura
e a una gestione delle risorse (e dei rifiuti), dei suoli, del territorio e
della mobilità condivise e sostenibili.
Per operare in questa direzione è essenziale che i governi del territorio
possano disporre di "bracci operativi" con cui promuovere i propri
obiettivi. Questi "bracci operativi" sono i sevizi pubblici, restituiti,
come disposto dal referendum del 12 giugno 2011, a un controllo congiunto
degli enti locali e della cittadinanza, cioè sottratti al diktat della
privatizzazione. Per questo le risorse necessarie alla conversione ecologica
dovrebbero essere restituite agli enti locali e sottoposte ad adeguati
controlli, non solo di legalità, ma soprattutto di legittimità, ad opera
della cittadinanza attiva.
Questo indirizzo, che non è protezionismo né abolizione della concorrenza,
ma una sua moderazione certamente sì, rimette al centro delle politiche
economiche e industriali il governo del territorio. Ma è l'unica alternativa
plausibile al progressivo deterioramento dell'occupazione, dei redditi e
delle condizioni di vita delle classi lavoratrici dell'occidente
industrializzato, ormai trascinate in una corsa al ribasso per allinearle a
quelle dei paesi emergenti. La politica salariale della Grecia (salari
minimi giunti ormai vicino al livello di quelli cinesi) ne rappresenta oggi
la manifestazione più lampante.