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energia e grandi opere
- Subject: energia e grandi opere
- From: "ANDREA AGOSTINI" <lonanoda at tin.it>
- Date: Tue, 17 Apr 2012 06:37:57 +0200
Energia e grandi
opere
di GUIDO VIALE
Dal manifesto di martedì 10 aprile 2012 Crisi del mercato – italiano ed europeo – dell’auto, attacco governativo agli incentivi per le energie rinnovabili, movimenti NoTav, No Tem (Tangenziale esterna milanese) ed altri simili: sono fatti da prendere in considerazione insieme. E insieme, anche, a due altri problemi: chi deve tenere insieme quei fatti? E dove? Di questi tre problemi il più serio è il terzo: perché occorre ricostituire uno spazio pubblico – o molte sedi: una per ciascuno dei territori che sono interessati a quei fatti – dove affrontare la discussione in modo operativo. La soluzione del secondo problema coincide in gran parte con quella del terzo: una volta costituita una sede del genere, la partecipazione di una cittadinanza attiva, e di una schiera di lavoratori che aspettano solo di riprendere in mano il loro destino, è molto più facile: c’è nel paese una spinta alla partecipazione che da anni non si sentiva più (la Valle di Susa insegna). Quanto alla crisi dell’auto, agli incentivi per le rinnovabili e alla resistenza contro le Grandi opere, parlano da sé. Li possiamo riassumere così. Primo, Marchionne ha lasciato definitivamente cadere il fantasioso progetto «Fabbrica Italia» che avrebbe dovuto triplicare la vendita in Europa di auto prodotte nel nostro paese. Al suo posto ha ridotto ulteriormente di un terzo la produzione italiana e spiegato che bisogna ridurre di un terzo anche la capacità produttiva di tutto il settore in Europa: il che vuol dire chiudere altri due (e forse tre) stabilimenti italiani della Fiat. Lo ha detto – o minacciato – e lo farà. In un’Europa ormai entrata in una recessione che a furia di tagli ai bilanci finirà per coinvolgere anche la Germania – e la Volkswagen – la Fiat non ha alcuna possibilità di recuperare le quote di mercato perse. Ma che succederà degli stabilimenti dismessi? Si continuerà a chiedere a Marchionne di «tirar fuori» dei nuovi modelli per recuperare lo spazio perduto? Si aspetterà, come a Termini Imerese, un altro Rossignolo che prometta di produrvi un «Suv di lusso», solo per intascare, come ha sempre fatto, un bel po’ di milioni pubblici? E si passerà poi la mano alla Dr Motors, perché produca – lì e anche alla Irisbus di Avellino – un «Suv per poveri», senza avere neanche i soldi né il credito per tenere in piedi lo stabilimento di quella capitale europea dell’automobile che è Isernia? Oppure si lascerà andare in malora fabbriche e lavoratori, come a Termini Imerese e a Avellino? Non si può invece mettere in cantiere una produzione che abbia un futuro più certo e un impatto meno devastante dell’automobile, e che sia compatibile con gli impianti, il know how e l’esperienza dei lavoratori della Fiat e dell’indotto? Secondo, il ministro Passera vuole abolire o ridurre drasticamente gli
incentivi per le fonti rinnovabili (che hanno eroso gli incassi degli impianti
di termogenerazione) e riempire il paese di trivelle per estrarre altro petrolio
e metano (se c’è). La scusa è che quegli incentivi costano troppo (anche se
hanno fatto risparmiare parecchio ai consumatori). La realtà è invece che sono
stati elargiti a casaccio, senza alcuna programmazione. Sono stati per anni i
più alti del mondo (non ce n’era alcun bisogno) e sono finiti in gran parte in
mano non a società energetiche, ma a finanziarie, in gran parte estere (che non
ne avevano alcun bisogno); e non a coprire fabbisogni energetici di abitazioni e
piccole imprese (fotovoltaico) o di comuni e zone industriali (eolico e
biomasse) di prossimità.
È vero che con quegli incentivi sono stati finanziati oltre 400mila
impianti fotovoltaici; ma quattro quinti della potenza installata è esclusa
dallo «scambio sul posto»; cioè l’energia prodotta non è asservita a un
fabbisogno locale, ma va tutta in rete: a costi maggiori di quella generata da
impianti termici e, per lo più, dopo aver espiantato campi e frutteti per
ricoprire intere vallate di assai più redditizi (grazie agli incentivi) pannelli
solari. Peggio, il paese si sta riempiendo di impianti a biomassa, alimentati
non da residui agroforestali di prossimità, ma da olio di palma importato da
Indonesia e Madagascar; o da mais sottratto all’alimentazione umana e animale.
Per di più, quasi tutti quegli impianti sono importati, mentre in Italia chiude
– e continuerà a chiudere – uno stabilimento metalmeccanico dopo l’altro; perché
si è lasciato che fosse il mercato – che è solo, e sempre più, speculazione – a
decidere come e dove impiegare i fondi degli incentivi.
Ecco allora una soluzione. I nuovi incentivi devono essere inquadrati in
una programmazione energetica nazionale che vincoli la loro concessione a un
coinvolgimento diretto di quegli enti locali, Asl comprese, che si faranno
carico di promuovere, raccogliere e organizzare la domanda di nuovi impianti sul
loro territorio. Una programmazione che preveda anche il coinvolgimento
societario degli enti locali nella riconversione delle fabbriche destinate alla
dismissione, prima che il processo imbocchi un cammino irreversibile. Se il loro
proprietario non sa più che cosa farsene, che ceda gli impianti a chi ha
interesse alla loro esistenza e alla loro conversione. Un progetto del genere
può riguardare tutte le fonti rinnovabili ma anche misure di risparmio
energetico: per esempio produzione di infissi, di regolatori di flusso, di pompe
di calore e, soprattutto, di impianti di micro cogenerazione, come quelli che
Fiat aveva messo a punto e poi abbandonato quarant’anni fa (il Totem) e che oggi
ha ripreso con successo la Volkswagen. Quest’idea vìola le regole del libero
mercato? Forse. Comunque la Volkswagen le ha aggirate mettendosi in società con
distributori di energia elettrica.
Dunque, si può fare anche in Italia. Cominciando a mettere insieme
maestranze e sindacati degli stabilimenti a rischio con le imprese interessate a
una generazione energetica locale; e con i loro tecnici, gli esperti della
materia (università e centri di ricerca), la cittadinanza attiva e le
amministrazioni dei comuni disposti a farsi coinvolgere in un progetto del
genere.
Una piattaforma con questi progetti, una volta che siano stati messi a
punto in termini generali, potrà essere presentata al governo – questo o il
prossimo – ma soprattutto dovrebbe entrare in un programma elettorale e di
governo sostenuto dalle forze e dalle istituzioni che vi si riconoscono. Ed
essere sostenuta da una mobilitazione generale. In sostanza: si tratta di non
delegare al governo la redazione di un piano energetico, ma di elaborarlo dal
basso, mobilitando su interessi concreti tutti coloro che possono essere
coinvolti e costruendo per questa via le forze per cercare di imporlo con la
lotta.
Un discorso analogo si potrebbe fare per la mobilità, rimettendo in pista
la domanda di autobus, treni locali e traghetti per il trasporto merci lungo le
«vie del mare»; o per l’edilizia; o per la salvaguardia del territorio;
ecc.
Terzo, qui arriva il tema Tav, Tem e le decine di altri progetti di Grandi
Opere in cantiere. Per finanziarle, dopo aver sottratto fondi a pensioni e
servizi pubblici locali, Passera ha deciso di dare l’assalto alla Cassa Depositi
e Prestiti: una specie di banca, finanziata dai depositi postali, che ha 300
miliardi di risorse utilizzabili. Era stata creata per finanziare gli
investimenti degli enti locali; invece è stata privatizzata e oggi il governo
conta di utilizzarla per finanziare quelle Grandi Opere devastanti che nessuna
banca vuole più finanziare se non ha la certezza che i soldi, alla fine, li
metterà lo stato.
La Cassa Depositi e Prestiti è fuori dal perimetro della finanza pubblica e
per questo il governo pensa di poterla utilizzare senza aumentare il debito.
Impedirglielo con un programma di riconversione produttiva significa impedire un
furto a danno dei comuni, evitare ulteriori devastazioni del territorio, salvare
occupazione, impianti e know how nelle imprese condannate a morte. È la strada
verso la conversione ecologica: in una forma che unisce l’esigenza di
mobilitarsi su un programma generale con la sua elaborazione dal
basso.
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