L'inutile Durban
- Subject: L'inutile Durban
- From: Energia <meregalli.roberto at gmail.com>
- Date: Wed, 30 Nov 2011 10:00:27 +0100
L'inutile Durban (http://www.martinbuber.eu/energia/newsletter.asp)
E’ poco lo spazio che i mezzi di comunicazione stanno dando alla diciassettesima Conferenza delle parti (Cop-17) della Convenzione delle nazioni Unite sui cambiamenti Climatici che il 28 novembre si è aperta a Durban, in Sudafrica. Niente a che vedere con la quindicesima di Copenaghen, quando un accordo mondiale pareva a portata di mano dopo l’elezione di Obama alla presidenza statunitense.
L’attenzione oggi è puntata sulla finanza, sullo spread, sulla imminente manovra economica. Siamo schiacciati dal mercato, da una finanza che da strumento positivo si è trasformata in un cappio al collo delle nostre economie. C’è poco spazio per pensare al resto, per pensare al clima.
I negoziati multilaterali in questi due anni di strada ne hanno fatta ben poca, l’ambiente su cui si cammina è quello della competizione, non della collaborazione: come pensare di poter ottenere qualche risultato?
L’Europa sembra rimasta sola a difendere il vecchio accordo di Kyoto, il cui primo periodo di implementazione è in scadenza; ma Giappone, Russia, Canada e Australia non ne vogliono più sapere. Senza di essi, senza gli Stati Uniti che proprio non hanno mai pensato ad un accordo vincolante e senza Cina, India e Brasile, che senso ha andare avanti?
La Commissaria europea responsabile per l’Azione per il clima, Connie Hedegaard, (il 28 novembre) ha spiegato che la Ue è pronta a impegnarsi per un secondo periodo del protocollo di Kyoto, dopo la sua scadenza nel 2012, a patto che anche le altre grandi economie mostrino la disponibilità a dare il proprio contributo nella lotta ai cambiamenti climatici delineando una roadmap con scadenze precise per arrivare a un accordo globale vincolante per la riduzione delle emissioni di gas serra, al massimo per il 2020. Ma vista l’indisponibilità degli altri Paesi, l’annuncio appare più una resa che una proposta.
Di condiviso da tutti c’è solo il dato relativo all’aumento delle emissioni climalteranti. L’organizzazione metereologica mondiale ha segnalato che le concentrazioni di emissioni di gas a effetto serra hanno raggiunto i massimi nel 2010, l’aumento è del 29% rispetto al 1990. Alla Co2 è attribuito l’80% di questo rialzo. L’Agenzia internazionale per l’energia (IEA) nel suo recente Outlook ha scritto: “nel 2010 la domanda globale di energia primaria è tornata a crescere spingendo le emissioni di CO2 ad un nuovo massimo. […] Non possiamo permetterci ulteriori ritardi nell’implementare le azioni necessarie a contrastare il cambiamento climatico se vogliamo che venga raggiunto l’obiettivo di limitare l’aumento della temperatura media globale nel lungo termine entro i due gradi centigradi”.
A parole tutti concordano sull’obiettivo di non permettere che l’aumento medio della temperatura globale superi i due gradi centigradi, ma dal dire al fare c’è di mezzo il mare ed anche considerando il solo “dire” – le promesse – i conti non tornano. Per contenere l’aumento di temperatura le emissioni totali globali devono poter scendere al 2020 sotto le 44 miliardi di tonnellate di CO2eq. In base agli impegni presi lo scorso anno a Cancun dai vari stati, Climate Action Tracker prevede che si possano raggiungere verosimilmente 54 mld di t CO2 all’anno per il 2020. Ci sono 10 miliardi di CO2eq di troppo che porterebbero a una concentrazione di CO2 di circa 650 ppm al 2100 e dunque a un riscaldamento intorno ai 3,2 °C (in particolare tra 2,6 e 4,0 °C) a quella data. Secondo l'ultimo Emission Gap Report / Bridging the Gap dell'UNEP, le emissioni potrebbero invece essere tra i 6 e gli 11 miliardi di tonnellate al di sopra di ciò che è necessario per limitare il riscaldamento globale entro una media globale di incremento di 2 gradi. (http://www.unep.org/publications/ebooks/emissionsgapreport/index.asp),
Miliardo di tonnellata in più o in meno, è chiaro che non bastano neppure le promesse fatte.
La Cop17 di Durban insegue il sogno delle precedenti edizioni, quello di trasformare le promesse in vincoli, ma pochi Paesi lo vogliono veramente, perché parlare di clima significa parlare di economia, ogni azione sottintende interventi nel settore produttivo rilevanti e ciascuno teme di perdere competitività in questo. Così sembra di rivedere l’ennesima volta una replica di un film: ogni conferenza si apre con l’imperativo di non poter fallire, con la consapevolezza della gravità del problema climatico, con l’obiettivo di trovare un accordo che coinvolta o tutti o nessuno e che suddivida l’onere economico in maniera equa. Ma su questo termine tutto va in fumo poiché ognuno si sente più svantaggiato degli altri e meno responsabile degli altri. I paesi definiti come in via di sviluppo sostengono che siano quelli industriali a porsi dei vincoli stringenti accusandoli di essere i responsabili della maggior parte della Co2 emessa sinora, questi ultimi – irrigiditi da politiche di austerità – temono per la già problematica competitività delle proprie imprese rispetto ai paesi emergenti e chiedono un loro sostanziale contributo, (in effetti le emissioni pro-capite cinesi sono arrivate al livello di quelle italiane, 6,8 tonnellate). L’economia è prioritaria e finché l’ecosistema non tornerà a definirne i limiti non si esce da questo vicolo cieco.
Durban parte dunque con le premesse per l’ennesimo nulla di fatto, per un accordo debole, più formale che sostanziale, un messaggio per poter dire non abbiamo fallito e andiamo avanti. Ma sarebbe ora di prendere atto che questo processo non funziona, anche il maggior risultato dei negoziato multilaterali sul clima: l’accordo di Kyoto, non brilla per risultati, la finanza lo ha sfruttato per inventarsi un mercato dove si possano acquistare diritti per inquinare, mercificando anche l’aria!
Da dieci anni i negoziati multilaterali non producono risultati, l’ultima volta a Doha nel 2001 Pascal Lamy (oggi direttore del WTO) e Peter Zoellick (oggi a capo della banca mondiale) riuscirono a forzare l’avvio del Doha Round sul commercio internazionale, ma da allora il peso specifico di Usa ed Ue è calato drasticamente, non riescono più a forzare nessun accordo (a Copenaghen lo subirono da Cina e India!) e anche quel negoziato non è mai terminato. Piuttosto che un accorto globale stile o tutti o nessuno, meglio un accordo fra pochi stati, a livello globale meglio un confronto su tecnologie, uno scambio di esperienze sul risparmio energetico, sul trattamento dei rifiuti, sui sistemi di trasporto a basso impatto ambientale, sullo sviluppo delle energie rinnovabili.
Meglio che si creino link fra coloro che credono nell’esigenza di inquinare meno, di consumare meno (e meglio), di ridurre le diseguaglianze di reddito trovando negli eccessivi accumuli le risorse per investire nella green economy. A livello multilaterale – se un accordo si vuole – che sia per cancellare i sussidi alle fonti fossili, una moratoria sulle regole del commercio internazionale che ostacolano le politiche nazionali di salvaguardia dell’ambiente, l’esclusione dell’agricoltura dal cappio dei vincoli dell’accordo agricolo WTO in modo da favorire una sua transizione a metodi meno industriali.
Roberto Meregalli
Beati i costruttori di pace
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