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no logo dieci anni dopo
- Subject: no logo dieci anni dopo
- From: "ANDREA AGOSTINI" <lonanoda at tin.it>
- Date: Thu, 28 Jul 2011 07:07:30 +0200
da SINISTRAINRETE Archivio di documenti e articoli per la discussione politica nella sinistra Lunedì 25 Luglio 2011 12:08 No logo dieci anni dopo Naomi Klein La cultura delle multinazionali non governa solo i centri commerciali. Detta legge a Washington e alla Casa Bianca. E ha creato un presidente-marchio che produce gadget e false speranze. Il cambiamento deve venire dal basso Nel maggio del 2009 la vodka Absolut ha lanciato una nuova serie
limitata: no label, senza etichetta. Kristina Hagbard, la responsabile delle
pubbliche relazioni dell’azienda, ha spiegato: “Per la prima volta abbiamo il
coraggio di affrontare il mondo completamente nudi. Presentiamo una bottiglia
senza etichetta e senza logo per veicolare l’idea che l’aspetto esteriore non
conta, l’importante è il contenuto”.
Qualche mese dopo anche la catena di caffetterie Starbucks ha inaugurato il suo primo negozio senza marchio a Seattle, chiamandolo 15th Avenue E Coffee and Tea. Questo “Starbucks nascosto”, come lo chiamavano tutti, era arredato in uno stile “originale e unico”. I clienti erano invitati a portare la loro musica preferita da trasmettere nel locale e a far conoscere le cause sociali a cui tenevano di più: tutto per contribuire a creare quella che l’azienda ha definito “una personalità collettiva”. I clienti dovevano sforzarsi per riuscire a trovare la scritta in piccolo sui menù: “Un’idea di Starbucks”. Tim Pfeiffer, uno dei vicepresidenti dell’azienda, ha spiegato che, a differenza dello Starbucks che occupava prima gli stessi locali, quello era “proprio un piccolo caffè di quartiere”. Dopo che per vent’anni aveva cercato di mettere il suo logo su sedicimila punti vendita in tutto il mondo, Starbucks stava cercando di sfuggire al suo marchio. Sono passati dieci anni da quando ho scritto No logo: nel frattempo le
tecniche di branding sono cambiate e si sono evolute, ma ho scritto molto poco
su questi cambiamenti. Il perché l’ho capito leggendo il romanzo di William
Gibson L’accademia dei sogni. La protagonista, Cayce Pollard, è allergica ai
marchi, in particolare a Tommy Hilfiger e all’omino Michelin. Questa
“insofferenza morbosa e a volte violenta alla semiotica del mercato” è così
forte che Cayce fa raschiare i bottoni dei suoi jeans Levi’s per cancellare il
logo.
Quando ho letto queste parole, ho capito subito di soffrire della stessa malattia di Cayce. Non è un disturbo congenito, ma una malattia che insorge con il tempo a causa di una sovraesposizione prolungata. Da bambina e da adolescente ero attratta dai marchi in modo quasi ossessivo. Ma per scrivere No logo mi sono immersa completamente nella cultura della pubblicità per quattro anni: quattro anni passati a studiare gli spot del Super bowl, a sfogliare Advertising Age in cerca delle ultime idee per migliorare le sinergie aziendali, a leggere deprimenti libri di marketing sul valore del personal brand, a frequentare seminari aziendali e a girare per le Niketown e i centri commerciali. Per certi versi è stato divertente. Ma alla fine mi sembrava di aver
varcato una soglia e, come Cayce, ho sviluppato una specie di allergia ai
marchi. I marchi hanno perso gran parte del loro fascino ai miei occhi, ed è
stato un bene perché, quando No logo è diventato un bestseller, se avessi bevuto
una Diet Coke in pubblico sarei finita subito nella rubrica di gossip di qualche
quotidiano locale.
L’insofferenza si è estesa anche al marchio che io stessa avevo
involontariamente creato: No logo. Dopo aver studiato marchi come Nike e
Starbucks, conoscevo bene le tecniche del brand management: trovare il
messaggio, brevettarlo, proteggerlo e ripeterlo fino alla nausea facendo
interagire mezzi di comunicazione diversi. Ho deciso di infrangere queste regole
ogni volta che mi si presentava l’occasione. Ho rifiutato le offerte per alcuni
progetti basati su No logo (un lungometraggio, una serie tv, una linea di
abbigliamento) e gli inviti delle multinazionali e delle agenzie pubblicitarie a
tenere seminari sull’odio contro le multinazionali (stavo imparando che si può
costruire una carriera sul personaggio della dominatrice sadomaso
antiaziendalista, e far felici i manager strapagati spiegandogli quanto sono
cattivi). Contro il parere di tante persone, sono rimasta fedele al proposito di
non registrare il titolo del libro come un marchio (non ho percepito diritti
d’autore dalla linea di prodotti alimentari italiani No logo, ma mi hanno
mandato del delizioso olio d’oliva in omaggio).
Il programma di disintossicazione a cui mi sono sottoposta si può
riassumere in due parole: cambiare argomento. Quando non era ancora passato un
anno dall’uscita di No logo, ho smesso di parlare di marchi. Nelle interviste e
negli incontri pubblici, invece di discutere delle ultime frontiere del
marketing virale e del nuovo superstore di Prada, parlavo del movimento di
resistenza al dominio delle multinazionali che si era fatto conoscere in tutto
il mondo protestando contro l’Organizzazione mondiale del commercio (Wto) a
Seattle. “Ma non sei un marchio anche tu?”, mi chiedevano i giornalisti furbi.
“È probabile”, rispondevo io. “Ma mi sforzo di essere un pessimo
marchio”.
Cambiare argomento – passare dai marchi alla politica – non è stato un
grande sacrificio, perché era stata la politica a farmi avvicinare al marketing.
I miei primi articoli denunciavano le scarse opportunità di lavoro per me e per
i miei coetanei, la diffusione dei contratti a breve termine e lo sfruttamento
della manodopera per produrre la merce che ci viene venduta. Da brava “giovane
opinionista”, denunciavo il modo in cui la cultura del marketing si espandeva
anche fuori dalle aziende in luoghi un tempo protetti come le scuole, i musei e
i parchi. Intanto le idee e le parole d’ordine che io e i miei compagni
consideravamo radicali venivano assorbiti nelle nuove campagne pubblicitarie
della Nike, di Benetton e della Apple.
Imprese vuote Ho deciso di scrivere No logo quando mi sono resa conto che queste tendenze apparentemente distinte erano unite da un’idea: che le aziende debbano sfornare marchi, non prodotti. Era l’epoca in cui gli amministratori delegati avevano improvvise intuizioni: la Nike non è un’azienda che produce scarpe da ginnastica, ma l’idea della trascendenza attraverso lo sport. Starbucks non è una catena di caffetterie, è l’idea di comunità. Ma qui sul pianeta Terra, queste intuizioni hanno avuto conseguenze concrete. Molte aziende che prima producevano nelle loro fabbriche e avevano tanti dipendenti a tempo indeterminato sono passate al modello Nike: hanno chiuso le fabbriche, affidato la produzione a una rete di appaltatori e subappaltatori e hanno investito nel design e nel marketing necessari a diffondere il più possibile la loro grande idea. Altre aziende hanno scelto invece il modello Microsoft: conservare un nucleo strettamente controllato di azionisti-dipendenti che gestiscono “l’attività centrale” dell’azienda ed esternalizzare tutto il resto, dalla gestione della posta alla scrittura del codice informatico, affidandolo a lavoratori precari. Alcuni le hanno chiamate hollow corporations, imprese vuote, perché queste aziende ristrutturate sembravano avere un unico obiettivo: trascendere il mondo fisico per trasformarsi in un marchio incorporeo. Come ha detto l’esperto di gestione aziendale Tom Peters: “È da stupidi possedere cose!”. Mi piaceva studiare i marchi come Nike o Starbucks perché in un attimo ti
ritrovavi a parlare di tutto tranne che di marketing: la deregolamentazione
della produzione globale, l’agricoltura industriale, i prezzi delle materie
prime. E da qui arrivavi al legame tra politica e denaro, che si era cementato
in regole da far west grazie a una serie di accordi di libero scambio e al
sostegno della Wto, al punto che attenersi a quelle regole è diventato il
requisito indispensabile per ricevere i prestiti dal Fondo monetario
internazionale. In poche parole, finivi per parlare di come funziona il
mondo.
Il governo all’asta Quando è uscito No logo, il movimento si era già schierato davanti ai cancelli delle istituzioni che diffondevano il corporativismo nel mondo. Migliaia di dimostranti protestavano fuori dai summit sul commercio internazionale e dalle riunioni del G8, a Seattle come a Nuova Delhi, e in molti casi riuscivano a fermare sul nascere i nuovi accordi. Quello che i mezzi d’informazione istituzionali continuavano a definire “il movimento contro la globalizzazione” non era niente del genere. L’ala riformista del movimento si opponeva alle grandi aziende, l’ala radicale era anticapitalista. Ma a renderlo unico era l’insistenza sull’internazionalismo. Tutto questo per dire che mentre facevo il tour promozionale del libro c’erano cose più interessanti dei loghi di cui parlare: per esempio da dove veniva quel movimento, cosa voleva e se esistevano alternative a quella spietata difesa di interessi particolari che andava sotto l’innocuo pseudonimo di “globalizzazione”. Negli ultimi anni, tuttavia, mi sono ritrovata a fare una cosa che avevo
giurato di non fare più: rileggere i grandi esperti di branding citati nel mio
libro. Mi sono serviti per capire cosa stava succedendo non nei centri
commerciali, ma alla Casa Bianca, sia durante la presidenza di George W. Bush
sia oggi con Barack Obama, il primo presidente statunitense che è anche un
supermarchio.
Gli anni di Bush sono stati odiosi e violenti per molti motivi: le
invasioni, le guerre, la difesa di metodi violenti come la tortura, il tracollo
dell’economia globale. Ma l’eredità più pesante lasciata dall’amministrazione
Bush è il modo in cui ha sistematicamente fatto al governo statunitense quello
che i dirigenti fissati con il branding avevano fatto alle loro aziende dieci
anni prima: l’ha svuotato, assegnando al settore privato molte funzioni
essenziali, dalla difesa dei confini alla protezione civile all’intelligence.
Questo svuotamento non è stato un progetto secondario dell’amministrazione Bush,
ma una missione centrale, che ha riguardato ogni ambito della sfera governativa.
E anche se il clan di Bush è stato spesso preso in giro per la sua incompetenza,
l’impresa di mettere all’asta lo stato, riducendolo a un guscio vuoto – o a un
marchio – è stata condotta con un impegno e una dedizione
straordinari.
Oggi molti servizi fondamentali sono forniti dalla Lockheed Martin, la più
grande azienda privata del mondo nel settore della difesa. “La Lockheed Martin
non governa gli Stati Uniti”, scriveva il New York Times nel 2004, “ma
contribuisce a governarne una percentuale enorme. Smista la vostra
corrispondenza e calcola le tasse che dovete pagare. Stacca gli assegni di
previdenza sociale e organizza il censimento. Gestisce i voli spaziali e
controlla il traffico aereo. Per fare tutto questo, scrive più codice
informatico della Microsoft”.
Nessuno si è impegnato con più zelo a mettere all’asta il governo degli
Stati Uniti del tanto vituperato segretario di stato di Bush, Donald Rumsfeld.
Avendo lavorato per più di vent’anni nel settore privato, Rumsfeld era imbevuto
di cultura del branding e dell’esternalizzazione. E aveva molto chiaro qual era
il marchio che il suo dipartimento doveva promuovere: il dominio globale. La
competenza chiave era combattere. Per tutto il resto, diceva Rumsfeld con un
tono che lo faceva somigliare a Bill Gates, “dobbiamo cercare fornitori che
implementino le attività secondarie”.
Questa visione radicale è stata sperimentata in Iraq durante l’occupazione
statunitense. Fin dall’inizio Rumsfeld ha pianificato la dislocazione delle
truppe come un vicepresidente di Walmart che cerca di risparmiare sul personale.
I generali volevano 500mila soldati, lui ne offriva 200mila, con i contractor e
i riservisti a colmare le lacune secondo necessità. Seguiva la filosofia
industriale del just in time: produrre solo quello che è già stato venduto o che
si venderà immediatamente. Nella pratica, mentre la situazione irachena sfuggiva
al controllo degli Stati Uniti, l’industria privata della guerra cresceva sempre
di più per sostenere un esercito ridotto all’osso.
La Blackwater, che originariamente doveva limitarsi a fornire guardie del corpo al diplomatico statunitense Paul Bremer, presto si è assunta altri compiti, compresa una battaglia contro l’esercito del Mahdi nel 2004. Quando la guerra si è spostata nelle prigioni, piene di migliaia di iracheni rastrellati dai soldati americani, i contractor si sono occupati di interrogare i prigionieri, e in alcuni casi sono stati accusati di torture. Nel frattempo, la gigantesca Green zone era amministrata dalla Halliburton come una città-stato aziendale. Se la Nike e la Microsoft sono state le prime imprese vuote, la guerra in
Iraq in molti sensi è stata una guerra vuota. E quando uno degli appaltatori ha
commesso un errore grave – per esempio quando nel 2007 gli uomini della
Blackwater hanno aperto il fuoco in piazza Nisour a Baghdad uccidendo
diciassette civili – l’amministrazione Bush, come tante imprese vuote prima di
lei, ha potuto negare ogni responsabilità, scaricando la colpa sui contractor.
La Blackwater, la Disney delle compagnie mercenarie, aveva perfino la sua linea
di abiti e orsacchiotti con il logo. E sapete come ha risposto agli scandali?
Con un rebranding. Oggi si chiama Xe Services.
L’America rinata L’amministrazione Bush ha deciso di imitare le imprese vuote, che tanto ammirava, anche nel modo di reagire alla rabbia suscitata in giro per il mondo. Invece di cambiare davvero la sua politica, o anche solo di aggiustare il tiro, ha lanciato una serie di sfortunate campagne per un rebranding degli Stati Uniti di fronte a un mondo sempre più ostile. Osservando quegli imbarazzanti tentativi, mi sono persuasa che avesse ragione Price Floyd, l’ex direttore dell’ufficio stampa del dipartimento di stato. Dopo essersi dimesso per la frustrazione, Floyd ha dichiarato che gli Stati Uniti erano il bersaglio di tanta rabbia non a causa di una campagna di comunicazione sbagliata, ma a causa di una politica sbagliata. “Partecipavo a riunioni con altri funzionari del dipartimento di stato e della Casa Bianca”, ha raccontato Floyd al magazine online Slate. “Dicevano: ‘Dobbiamo dare più visibilità ai nostri sui mezzi d’informazione’. Io ribattevo: ‘Il problema non è l’apparenza, ma la sostanza’”. Una potenza imperialista non è come un hamburger o una scarpa da jogging. Il problema dell’America non era il marchio, ma il prodotto. Un tempo la pensavo così, ma a un certo punto ho pensato che forse mi ero sbagliata. Quando Barack Obama è diventato presidente, il marchio statunitense era ai
minimi storici: Bush era per il suo paese quello che la New Coke era per la
Coca-Cola, o quello che il cianuro era stato per il Tylenol. Eppure Obama, con
una delle campagne di rebranding più efficaci della storia, è riuscito a
invertire la tendenza. Kevin Roberts, l’amministratore delegato della Saatchi
& Saatchi, ha voluto illustrare graficamente quello che il nuovo presidente
rappresentava. In un’immagine a tutta pagina pubblicata sulla rivista patinata
Paper Magazine, ha messo la statua della libertà a gambe aperte che partorisce
Barack Obama. L’America rinata.
Sembrava che il governo degli Stati Uniti potesse risolvere i suoi problemi
di reputazione con il branding: servivano solo una buona campagna promozionale e
un testimonial abbastanza giovane e alla moda per riuscire a competere nel
difficile mercato del momento. E il testimonial è stato trovato in Barack Obama,
un uomo dotato di un istinto naturale per il marketing, che si è circondato di
una squadra di grandi esperti di pubblicità.
Come coordinatore della sua campagna sui social network ha scelto Chris
Hughes, uno dei fondatori di Facebook. E come responsabile degli eventi sociali
della Casa Bianca ha preso Desirée Rogers, un’affascinante laureata in gestione
d’impresa ad Harvard ed ex responsabile del marketing di alcune aziende private.
David Axelrod, il principale consigliere di Obama, è stato socio della Ask
Public Strategies, una società di pubbliche relazioni che ha organizzato
campagne per aziende come Cablevision e At&t.
Questa squadra di consulenti ha sfruttato tutte le risorse del moderno arsenale del marketing per lanciare e far crescere il marchio Obama: un logo perfettamente calibrato (un sole che sorge sopra la bandiera a stelle e strisce); un uso attento del marketing virale (suonerie a tema Obama); il product placement (spot a favore di Obama nei videogiochi); uno spot tv da trenta minuti (che rischiava di apparire melenso, ma che invece è stato definito da tutti “autentico”); e alleanze strategiche con altri marchi (Oprah Winfrey per ampliare al massimo il bacino d’ascolto, la famiglia Kennedy per darsi un tono serio; e un mucchio di star dell’hip-hop per costruirsi un’immagine al passo con i tempi). Quando ho visto per la prima volta il video di Yes we can, quello prodotto
da will.i.am (il cantante dei Black Eyed Peas), in cui alcune celebrità parlano
e cantano sul sottofondo di un discorso di Obama in stile Martin Luther King, ho
pensato: ecco finalmente un politico che trasmette in tv uno spot fico come
quello della Nike. Le agenzie pubblicitarie erano d’accordo con me. Poche
settimane prima di vincere le elezioni, Obama ha battuto la Nike, la Apple, la
Coors e la Zappos aggiudicandosi il premio dell’Associazione nazionale dei
pubblicitari. Di sicuro è stata una svolta. Negli anni novanta i grandi marchi
rubavano completamente la scena alla politica, oggi le aziende fanno a gara per
salire sul carro di Obama – basta pensare alla campagna Choose change (scegli il
cambiamento) della Pepsi-Cola, allo slogan Embrace change (accogli il
cambiamento) dell’Ikea e ai biglietti Yes you can offerti dalle linee aeree
Southwest.
In effetti, ogni cosa sfiorata da Obama o dalla sua famiglia si trasforma
in oro. Il valore di mercato della J.Crew è cresciuto del 200 per cento nei
primi sei mesi della presidenza Obama, anche grazie alla nota predilezione di
Michelle per quel marchio di abbigliamento. La passione di Obama per il
Blackberry ha fruttato vantaggi simili al produttore Research In Motion. Il modo
più sicuro per vendere giornali e riviste in questi tempi difficili è mettere
Obama in copertina, e per vendere a quindici dollari un cocktail a base di vodka
e succo di frutta basta chiamarlo Obamapolitan o Barackatini.
Secondo la rivista Portfolio, a febbraio del 2009 la “Obama economy” – il
turismo generato dal presidente e i gadget a lui ispirati – valeva 2,5 miliardi
di dollari. Niente male, in piena crisi economica. Desirée Rogers si è messa nei
guai con alcuni colleghi quando ha parlato con troppa franchezza al Wall Street
Journal: “Abbiamo il marchio migliore del mondo: il marchio Obama”, ha detto.
“Le nostre possibilità sono infinite”.
Bush aveva usato il suo ranch di Crawford, in Texas, come fondale per la
sua interpretazione del Marlboro Man, che passa il tempo a sfrondare cespugli e
a preparare barbecue con gli stivali da cowboy ai piedi. Obama si è spinto molto
più in là, trasformando la Casa Bianca in una specie di reality show senza fine
che ha per protagonista l’adorabile clan Obama. Anche questo ha a che fare con
la mania per il branding, quella esplosa a metà degli anni novanta, quando gli
esperti di marketing si sono stancati dei limiti della pubblicità tradizionale e
hanno cominciato a creare “esperienze” tridimensionali: dei templi delle griffe
dove i clienti potevano esplorare la personalità dei loro marchi preferiti.
Desirée Rogers somigliava molto a quei guru quando ha definito la Casa Bianca il
“fiore all’occhiello” del marchio Obama, uno spazio fisico in cui il governo può
incarnare i valori di trasparenza, innovazione e diversità che hanno portato
alle urne tanti elettori.
La Coca-Cola e la tisana Il problema non è che Obama usa gli stessi trucchi dei grandi marchi. Oggi chiunque voglia influenzare la società deve farlo. Il problema è che, come è successo prima di lui a tanti altri marchi legati agli stili di vita, quello che fa non è minimamente all’altezza delle aspettative. È presto per emettere un verdetto sulla sua presidenza, ma sappiamo questo: Obama preferisce sempre il gesto simbolico grandioso al cambiamento strutturale profondo. Annuncia a gran voce che chiuderà Guantanamo e intanto dà il via libera all’allargamento del carcere di Bagram in Afghanistan e si oppone ai processi contro i funzionari di Bush che autorizzarono le torture. Nomina la prima giudice latinoamericana alla corte suprema e intanto fa approvare un nuovo giro di vite sull’immigrazione. Investe nell’energia pulita ma appoggia la favola del “carbone pulito” e rifiuta di tassare le emissioni di CO2, l’unico metodo davvero valido per ridurre il consumo di carburanti fossili. Si scaglia contro l’avidità dei banchieri e affida le redini dell’economia a veterani di Wall street. E, soprattutto, promette di mettere fine alla guerra in Iraq, mandando in pensione l’orrendo concetto di “guerra al terrore ”, mentre in Afghanistan e in Pakistan i conflitti ispirati da quella logica s’intensificano. Questa predilezione per i simboli a scapito della sostanza, e la riluttanza
a tenere fede a un’etica cristallina quando questa comporta scelte impopolari,
sono i punti su cui Obama si allontana decisamente dai movimenti politici
rivoluzionari a cui tanto si è ispirato (i poster di pop art che ha preso dal
Che, il modo di parlare alla Martin Luther King, lo slogan yes we can che
richiama il Sí, se puede degli agricoltori immigrati). Le richieste di quei
movimenti erano molto chiare: la distribuzione delle terre, l’aumento dei
salari, programmi sociali ambiziosi. Quelle richieste avevano costi elevati, e
per questo i movimenti avevano non solo militanti convinti ma anche nemici
agguerriti.
Invece Obama, a differenza non solo dei movimenti ma anche di presidenti
innovatori come Franklin D. Roosevelt, segue la logica del marketing: offrire
uno schermo invitante su cui ognuno è chiamato a proiettare i suoi desideri più
profondi, e farlo in modo abbastanza vago da non lasciare indietro nessuno, a
parte i più radicali (che peraltro sono un segmento non irrilevante di
popolazione negli Stati Uniti). Advertising Age aveva ragione quando scriveva
che il marchio Obama “è grande abbastanza da poter rappresentare qualunque cosa,
ma anche abbastanza personale da guadagnarsi il sostegno di chiunque”. E poi, la
lode più sperticata: “Obama è riuscito, chissà come, a essere sia una Coca-Cola
sia una tisana naturale: è un megamarchio conosciuto e distribuito in tutto il
mondo e allo stesso tempo un outsider che si è fatto da solo”.
In altri termini: Obama ha interpretato il ruolo del guastafeste pacifista
e nemico di Wall street agli occhi della sua base. L’ha fatta sentire
protagonista di una rivolta contro il monopolio politico dei due grandi partiti
americani condotta grazie a un’organizzazione perfetta e a colpi di donazioni
raccolte vendendo limonata e racimolando spiccioli tra i cuscini del divano.
Contemporaneamente, ha preso più soldi da Wall street di qualsiasi altro
candidato alla presidenza. Dopo aver sconfitto Hillary Clinton, prima ha
divorato in un sol boccone la dirigenza del partito democratico e poi, una volta
insediato alla Casa Bianca, ha imboccato la strada del dialogo con i fanatici
repubblicani.
Le regole del gioco Il fatto che Obama non si sia rivelato all’altezza del suo nobile marchio lo ha danneggiato? All’inizio no. Cinque mesi dopo l’ingresso di Obama alla Casa Bianca il Pew’s global attitudes project ha chiesto a un campione significativo di persone in tutto il mondo se pensavano che Obama avrebbe fatto “la cosa giusta in politica estera ”. Anche se c’erano già molti indizi del fatto che Obama stava proseguendo sulla linea di Bush (con uno stile meno arrogante), la maggioranza degli intervistati approvava le scelte di Obama: in Giordania e in Egitto la percentuale di consensi era quattro volte superiore a quella dell’era Bush. In Europa l’inversione di rotta era drastica: il 91 per cento degli intervistati francesi e l’86 per cento dei britannici aveva fiducia nelle scelte di Obama, rispetto al 13 e 16 per cento dell’era Bush. Secondo Usa Today, il sondaggio dimostrava che “Obama ha restituito credibilità all’immagine degli Stati Uniti dopo otto anni di amministrazione Bush”. Secondo David Axelrod era successa una cosa molto semplice: l’antiamericanismo non andava più di moda. Questo era sicuramente vero, e ha avuto conseguenze molto concrete. Obama è
stato eletto – e il mondo si è innamorato della sua nuova America – in un
momento cruciale. Nei due mesi prima delle elezioni, la colpa della crisi
finanziaria che scuoteva i mercati mondiali veniva giustamente attribuita non
solo alle cattive scommesse di Wall street, ma all’intero modello economico di
deregolamentazione e privatizzazione (chiamato “neoliberismo” in gran parte del
mondo) che era stato osannato da istituzioni controllate dagli Stati Uniti, come
il Fondo monetario internazionale e la Wto.
Se gli Stati Uniti non fossero stati guidati da una superstar globale, il
loro prestigio avrebbe continuato a colare a picco, e la rabbia nei confronti
del modello economico responsabile della crisi globale si sarebbe probabilmente
trasformata nella richiesta pressante di nuove regole per imbrigliare (e tassare
sul serio) la finanza speculativa.
Quelle regole avrebbero dovuto essere all’ordine del giorno all’incontro del G20 a Londra nell’aprile del 2009, nel pieno della crisi economica. Invece, mentre i giornalisti erano impegnati a riferire gli avvistamenti della coppia Obama, i leader mondiali si mettevano d’accordo per tirare fuori dalla crisi il Fondo monetario internazionale – uno dei principali colpevoli di quei guai – con finanziamenti per quasi mille miliardi di dollari. In poche parole, Obama non ha solo restaurato l’immagine degli Stati Uniti, ha anche resuscitato quel progetto economico neoliberista che aveva già un piede nella fossa. Solo Obama, a torto considerato un nuovo Roosevelt, poteva riuscire in quest’impresa. Eppure, rileggere No logo dopo dieci anni ci ricorda anche che il successo
nel branding può essere effimero, e che nulla è più transitorio della moda.
Molti grandi marchi e personaggi griffati che fino a poco tempo fa sembravano
intramontabili, oggi appaiono sbiaditi o sono in piena crisi. Il marchio Obama
potrebbe fare la stessa fine.
Certo, molte persone hanno sostenuto Obama solo per motivi strategici: era il candidato migliore per cacciare i repubblicani dal governo. Ma cosa succederà quando le folle dei fedelissimi di Obama si renderanno conto di aver donato il cuore non a un movimento che condivideva i loro valori più profondi, ma a un partito sottomesso a interessi particolari, che si preoccupa più dei profitti delle aziende farmaceutiche che di creare un sistema sanitario sostenibile, che tutela Wall street e le sue bolle finanziarie invece dei milioni di cittadini che avrebbero potuto salvare la casa e il posto di lavoro con una ricapitalizzazione più prudente? Il rischio – ed è un rischio reale – è che la reazione sia un’ondata di
profondo cinismo, soprattutto tra i più giovani, per i quali la campagna
elettorale di Obama è stata il primo assaggio della politica. Più che cambiare
partito, la maggior parte di loro farà quello che hanno sempre fatto i giovani
durante le elezioni: restare a casa e infischiarsene. Nella migliore delle
ipotesi, l’obamamania finirà per diventare quella che i consulenti del
presidente chiamano “un’occasione per imparare”. Obama è un politico di talento,
molto intelligente e più interessato alla giustizia sociale di ogni altro leader
democratico nella storia recente. Se non riesce a cambiare il sistema per
mantenere le sue promesse elettorali, è perché il sistema stesso è
marcio.
Era di questo che discutevamo in quel breve periodo tra le proteste contro
la Wto a Seattle, nel novembre 1999, e l’inizio della cosiddetta guerra al
terrore. Forse era un suo limite, ma il movimento che i mezzi d’informazione
insistevano a chiamare “noglobal” si preoccupava poco dei partiti. La nostra
attenzione era focalizzata sulle regole del gioco e su come erano state distorte
per servire gli interessi delle grandi aziende a tutti i livelli: dagli accordi
internazionali sul libero mercato a quelli locali per la privatizzazione
dell’acqua. Quello che apprezzavo di più era la spudorata secchionaggine di
tutti noi.
Nei due anni successivi alla pubblicazione di No logo ho partecipato a
decine di conferenze e incontri, a volte con migliaia di persone (decine di
migliaia, nel caso del World social forum) che avevano l’obiettivo di informare
l’opinione pubblica sui meccanismi della finanza e del mercato globale. Era come
se all’improvviso le persone avessero capito che raccogliere quelle informazioni
era cruciale per la sopravvivenza non solo della democrazia, ma del pianeta. Sì,
era complicato, ma accettavamo questa complessità perché finalmente potevamo
studiare dei sistemi, non solo dei simboli.
Richieste concrete In certe parti del mondo, in particolare in America Latina, quel movimento si è diffuso e rafforzato. In alcuni paesi è diventato talmente forte che ha fatto accordi con i partiti, vincendo le elezioni e avviando la creazione di un sistema regionale di commercio equo. Ma altrove, e sicuramente negli Stati Uniti, il movimento è stato annientato dall’11 settembre. È stato come se avessimo dimenticato quello che sapevamo sulla complessità del corporativismo globale: cioè che tutte le ingiustizie del mondo non possono essere colpa di un solo partito di destra o di una sola nazione, per quanto potente. Se mai c’è stato un momento giusto per ricordare le lezioni che abbiamo
imparato alla svolta del millennio, quel momento è ora. Una conseguenza positiva
dell’impossibilità di regolare la finanza internazionale, anche dopo il suo
catastrofico collasso, è che il modello economico dominante si è rivelato per
quello che è: non un “libero mercato”, ma un “capitalismo clientelare”, in cui i
politici cedono a dei privati la ricchezza pubblica in cambio del loro sostegno.
Quello che prima era tenuto discretamente nascosto è venuto alla luce. Di
conseguenza la rabbia dell’opinione pubblica per l’avidità delle aziende ha
raggiunto livelli altissimi. Molte idee che gli attivisti dei movimenti
gridavano nelle strade dieci anni fa, oggi sono date per scontate nei talk show
delle tv e negli editoriali dei grandi quotidiani.
Eppure, oggi manca quello che dieci anni fa cominciava a emergere: un
movimento capace non solo di rispondere all’indignazione dei singoli, ma anche
di avanzare delle richieste concrete per un modello economico più equo e
sostenibile. Negli Stati Uniti e in molte parti d’Europa, invece, la rabbia
contro gli interessi particolari si esprime attraverso i partiti di estrema
destra e perfino con il neofascismo.
Personalmente, nulla di tutto questo mi fa sentire tradita da Barack Obama.
Provo piuttosto un sentimento ambivalente, simile a quello che provavo nei
confronti della Nike e della Apple quando hanno cominciato a usare l’iconografia
della rivoluzione nelle loro campagne pubblicitarie. Dalle loro costose ricerche
di mercato era emerso che le persone desideravano qualcosa di più dello
shopping: il cambiamento sociale, lo spazio pubblico, l’eguaglianza, il diritto
alla diversità.
Certo, i marchi hanno cercato di cavalcare quel desiderio solo per vendere
caffè e computer portatili. Eppure mi sembrava che noi di sinistra, in un certo
senso, dovevamo essere grati ai pubblicitari: le nostre idee non erano antiquate
come ci avevano detto. E poiché i grandi marchi non avevano saputo esaudire i
desideri profondi che risvegliavano, ai movimenti sociali è venuta voglia di
riprovarci.
Forse dovremmo pensare a Obama proprio in questi termini. Anche stavolta,
c’è una ricerca di mercato già bella e fatta. La vittoria di Obama e
l’entusiasmo per il suo marchio hanno dimostrato che c’è un’enorme fame di
cambiamento in senso democratico: moltissime persone non vogliono conquistare i
mercati con la forza delle armi, disprezzano la tortura, credono nelle libertà
civili, vogliono che le aziende stiano fuori dalla politica, pensano che il
riscaldamento globale sia la grande battaglia del nostro tempo e vogliono far
parte di un progetto politico più grande.
Trasformazioni come queste si potranno ottenere solo quando i movimenti
avranno i numeri e la forza per pretendere delle risposte dalle élite. Obama ha
vinto le elezioni perché ha saputo sfruttare la nostra profonda nostalgia per
quei movimenti. Ma era solo un’eco, un ricordo. Il nostro compito ora è
costruire un movimento che sia – per rubare un vecchio slogan alla Coca-Cola –
the real thing, un vero movimento. Come diceva Studs Terkel, un grande storico
dell’oralità: “La speranza non è mai discesa dall’alto, è sempre spuntata dal
basso”.
Internazionale, numero 906, 15 luglio 2011 Naomi Klein è una giornalista canadese, nata a Montréal nel 1970. Questo
articolo è un estratto dell’introduzione alla nuova edizione di No logo,
pubblicata in Italia da Rizzoli. In Italia sono usciti anche Recinti e finestre
e Shock economy. |
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