città e decrescita



da Eddyburg
 
città: quale futuro?

Serge Latouche Città e decrescita
Data di pubblicazione: 13.06.2011

Autore: Latouche, Serge

Da Carta.org un interessante articolo nel quale il filosofo ed economista
esamina la crisi della città e ne argomenta la soluzione ; «La crisi è
politica e dunque il rimedio deve anche essere politico»

Riassunto. Il disastro urbano che ciascuno può constatare, è il risultato di
logiche che sfuggono palesemente agli architetti e agli urbanisti. Tuttavia
questi ne sono stati i complici e al medesimo tempo hanno cercato di porrvi
rimedio. Ma l'architettura ecoresponsabile [o l'habitat bioclimatico] non è
la soluzione, al meglio costituisce un elemento ipotetico della soluzione.
Questi tentativi onorevoli degli architetti e degli urbanisti di porre
rimedio alla crisi urbana e sociale proponendo schemi ingegnosi sono
condannati allo scacco per mancanza di un'analisi globale del fallimento
della società della crescita. La crisi è politica e dunque il rimedio deve
anche essere politico. È questa la ragione per cui il progetto della
decrescita passa necessariamente attraverso una rifondazione del politico e
quindi della polis, la città e del suo rapporto con la natura.

Il progetto urbano è necessariamente secondo ripetto al progetto sociale, e
il progetto architettonico è secondo rispetto al progetto urbano. Il
«disastro» urbano non è il risultato di una mancanza degli architetti ne
degli urbanisti, è il résultato di una crisi di civilità. La città
decrescente dovrebbe essere una città con una impronta ecologica ridotta,
trattenendo un rapporto forte con l'ecosistema [una bio-regione]. In un
primo tempo, la città decrescente, potrebbe essere la cità attuale dalla
quale sarebbe stati eliminati la publicità, le auto e la grande
distribuzione e dove sarebberò stati introdotti i giardini condivisi, le
piste ciclabili, una gestione pubblica dei beni comuni [acqua, servizi di
base] e anche la coabitazione e le «botteghe di quartiere». Una
riconversione sarà necessaria ma anche una certa deindustrializzazione. In
sintesi, la città decrescente, primo passo verso una società di abbondanza
frugale, preserverà l'ambiente che è in ultima analisi la base di tutta la
vita, aprirà a ciascuno un accesso più democratico all'economia, ridurrà la
disoccupazione, rafforzerà la partecipazione [e dunque l'integrazione] e
anche la solidarietà, fortificherà la salute dei cittadini grazie alla
crescita della sobrietà e alla diminuzione dello stress.

Il disastro urbano della società della crescita

Il disastro urbano che ciascuno può constatare, è il risultato di logiche
che sfuggono palesemente agli architetti ed agli urbanisti. Abbiamo una
quantità di architetti e urbanisti di ottima qualità [compresi quelli del
campo dell'abitare ecologico] ma questo non impedisce il caos urbano e
paesaggistico attuale nel quale il mondo è rinchiuso. Il problema è che
questa architettura è spesso molto seducente quando si tratta di ville
individuali o di palazzi prestigiosi, ma è molto deludente nel'insieme.
Fallisce «a fare città» e sopratutto ha fallito nell'impedire la
decomposizione del tessuto urbano, le mitage du paysage [tarmatizzazione del
paessaggio], la cementificazione del territorrio, la crescita dello
squallore del quadro della vita e la distruzione del'ambiente, per non
parlare dello scacco nel ridurre il consumo di energia e l'impronta
ecologica. Tuttavia questi architetti e urbanisti ne sono stati i complici e
al medesimo tempo hanno cercato di porvi rimedio. Siamo di fronte a una
forma di schizofrenia. Questo disastro urbano è stato constatato anche dal
grande architetto portoghese, Alvaro Siza. «La cosa più grave è la
devastazione del territorio, lo scacco di questa disciplina è l'uso della
terra. Noi assistiamo alla fine di un ordine delle cose che prefigura forse
un'altra cosa, che noi non connosciamo ancora. E, senza dubbio questa era
inevitabile. Ma nell'immediato, la qualità è emarginata e siamo di fronte a
un disastro». Noi viviamo ancora nella città produttivista, pensata e
strutturata in funzione del'automobile sotto forme che pretendono di essere
razionali [basta pensare alla città radiosa di Le Corbusier] con le sue
segregazionì degli spazi, sue zone industriali, i suoi quartieri
residenziali senza vita.

Si è potuto parlare giustamente della distruzione delle città in tempo di
pace con l'esplodere dei vecchi centri storici, la speculazione immobiliare
sfrenata che caccia i ceti inferiori e medi verso le periferie, il
proliferare dei centri commerciali, l'estensione delle zone residenziali, l'emergere
dei gratttacieli, la lacerazione dello spazio dalle autostrade e la
proliferazione dei non-luoghi [stazioni, aeroporti, ipermercati, ecc.]. L'asfissia
del traffico automobilistico è uno dei sintomi di una crisi più ampia
generata dalla «super» o «iper» modernità [parola che trovo più giusta di
«post»-modernità]. Questo è il trionfo della brutezza.

Per poter abozzare ciò che potrebbe essere l'urbanismo e l'architettura in
una sociétà della decrescita, bisogna capire prima, che cos'è la società
della decrescita e le suoi implicazioni architetetoniche e urbanistiche, poi
si potrà precisare a che cosa somiglierebbere la città decrescente.

Il progetto della decrescita e le sue implicazioni urbane

Che cosa è la decrescita? La parola d'ordine della decrescita ha soprattutto
lo scopo di sottolineare con forza la necessità di abbandonare il progetto
insensato dello sviluppo per lo sviluppo, della crescita per la crescita. Si
può definire la società di crescita come una società dominata da una
economia di crescita e che tende a lasciarsene assorbire. La crescita per la
crescita diventa così l'obiettivo principale, se non l'unico, della vita. Il
cancro della Crescita [con la «C» maiuscola] non distrugge soltanto la
città, ma distrugge anche il senso dei luoghi lacerando il territorio.
Questo è l'esplosione del'urbano, secondo la sociologa Tiziana Villani. Si
tratta di un processo di artificializzazione della vita. L'uomo pretende di
ricreare il mondo meglio di Dio e della Natura. Gli Ogm, le nanetecnologie,
la clonazione, l'allevamento industriale dei pesci, ecc. Ne sono una
illustrazione. L'esito finale sarebbe il cyberman, l'uomo artificiale. Ora,
il resultato più visibile è la transformazione del mondo reale, del mondo
nel quale siamo condannati a vivere, in discarica o pattumeria.

Il fallimento di Dubaï e della sua torre di ottocento metri inabitata,
constituisce un simbolo del fallimento del sogno americano e del suo
urbanismo. Il progetto della torre di un chilometro di altezza non sarà
probabilmente mai costruito. La citta produttivista appartiene al passato,
ma la distruzione del mondo si prosegue.

Ovviamenteil fine della società della decrescita non è un capovolgimento
caricaturale consistente nel predicare la decrescita per la decrescita.
Soprattutto la decrescita non è la crescita negativa. Si sa che il semplice
rallentamento della crescita fa cadere le nostre società nello sconforto a
causa della disoccupazione e dell'abbandono dei programmi sociali, culturali
e ambientali che assicurano un minimo di qualità della vita. Si può ben
immaginare quale catastrofe costituirebbe un tasso di crescita negativo!
Così come non c'è niente di peggio che una società fondata sul lavoro senza
lavoro, niente è peggio di una società di sviluppo senza sviluppo.
Rigorosamente parlando, più una a-crescita [come si parla di a-teismo] che
una de-crescita. Si tratta precisamente dell'abbandono di una fede e di una
religione: quella dell'economia.

Il cambiamento reale di prospettiva necessario per costruire una società
autonoma di decrescita può essere realizzato attraverso il programma
radicale, sistematico, ambizioso delle otto «R»: rivalutare, ridifinire,
ristrutturare, ridistribuire, rilocalizzare, ridurre, riutilizzare,
riciclare. Questi otto obiettivi interdipendenti scatenano un circolo
virtuoso di decrescita serena, conviviale e sostenibile. Non si tratta di un
programma, siamo al livello di concezione. Il progetto della società della
decrescita si articola dunque intorno al circolo virtuoso delle otto «R». Si
può dire delle otto «R» che sono tutte altrettanto importanti. Mi sembra
comunque che tre abbiano un ruolo più «strategico» delle altre: la
rivalutazione, perché dà origine a tutti cambiamenti, la riduzione perché
tiene in sé tutti gli comandamenti pratici della decrescita e la
rilocalizzazione perché ha a che fare con la vita quotidiana e il lavoro di
milioni di persone. Il problema della città e del territorio ormai distrutti
e tutto da ripensare si inscrive nel contesto più ampio del mondo lacerato,
della perdita dei punti di riferimento e della crisi del locale. Il disastro
urbano è al medesimo tempo un disastro rurale e paesagistico. Ma, nell'ottica
della costruzione di una serena società di decrescita, la rilocalizzazione
non può essere solo economica. Sono la politica, la cultura, il senso della
vita che debbono ritrovare il loro ancorarsi territoriale. La parola chiave
è l'autonomia.

La rilocalizzazione svolge quindi un ruolo centrale nell'utopia concreta e
feconda della decrescita, e si articola quasi subito in un programma
politico. La decrescita sembra rinnovare la vecchia formula degli
ecologisti: pensare globalmente, agire localmente. Rilocalizzare l'economia
e la vita è una condizione non trascurabile della sostenibilità. Se l'utopia
della decrescita implica un pensiero globale, oggi la si realizza solo
partendo dai territori. Si tratta di Riterritorializzare [Alberto Magnaghi],
ritrovare un sito e ri-abitarlo.

Tuttavia, l'architettura ecoresponsabile o l'habitat bioclimatico non è la
soluzione, al meglio costituisce un elemento ipotetico della soluzione. La
«città sostenibile» promossa dalla Carta d'Aalborg [1994] è più una forma di
modernizzazione ecologica del capitalismo [greenwashing] che un vero rimedio
al disastro del produttivismo. Gli ecoquartieri - quartiere Vauban a
Friburgo [Germania], Houten [periferia di Utrecht, 40.000, in Olanda] e di
Bedzed [Beddington zero energy development] nella città di Sutton a sud di
Londra - sono alla fine delle isole di sostenibilità dentro un'mare di
inquinamento urbano, e non riusciranno a trasformarlo. Il fallimento e lo
scacco clamroso delle «ecocittà » cinesi sono sintomatiche. I rari progetti,
lanciati con trombe e fanfare come Chongming, sono nel'impasse. L'ecocittà
di Dongtan à Chongming di fronte a Shanghai è stata promossa con forza dal
2006-2008 per fare vetrina ecologica all'Esposizione Universale. Il padrino
del progetto è stato eliminato nel 2008 per corruzione dopo di che il
progetto, mal conçepito, è stato abandonnato. Gli altri progetti [Huangbaiyu
e Tianjin] non vanno bene. L'economia ha vinto sull'ecologia. In questi
progetti si tratta sempre di abitare meglio ma non di cambiare il rapporto
con la natura, il paesaggio e con il consumismo. I tentativi onorevoli degli
architetti e degli urbanisti di porre rimedio alla crisi urbana e sociale
proponendo schemi ingegnosi - regioni urbane, città giardino, città totale,
reti urbane, conurbazioni [Geddes], Broadacre city [Wright], città compatta,
città distesa, ecc., che cercano una nuova articolazione tra città e
campagna, sono condannati allo scacco per mancanza di un'analisi globale del
fallimento della società della crescita.

Il funzionalismo formalizato nella Carta di Athene da Le Corbusier [1943]
che pretendeva di lottare contro il «disordine urbano» ha generato
finalamente un disordine più grande al prezzo di una esplosione dell'impronta
ecologica delle città. Secondo la profezia di Lewis Mumford, la megapolis si
trasforma in tyrannopolis, poi finisce come nekropolis. Questo sembra essere
il destino de l'iperpolis virtuale, constituita dalla finanza e dai media
globalizzati.

La crisi è politica e dunque il rimedio deve anche essere politico. È questa
la ragione per cui il progetto della decrescita passa necessariamente
attraverso una rifondazione del politico e quindi della polis, la città e
del suo rapporto con la natura. Il progetto urbano è necessariamente secondo
ripetto al progetto sociale, e il progetto architettonico è secondo rispetto
al progetto urbano. Il «disastro» urbano non è il risultato di una mancanza
degli architetti ne degli urbanisti, è il résultato di una crisi di
civilità. Solo con l'inserimento dentro il progetto di costruzione di una
società di decrescita il tessuto locale e urbano può essere ricomposto.

A che cosa somiglierà la città decrescente?

La città decrescente dovrebbeessere una città con una impronta ecologica
ridotta, trattenendo un rapporto forte con l'ecosistema [una bio-regione].
Piutosto di sognare la construzione di città nuove, bisognerà imparare ad
abitare le città in modo diverso, questo al Nord come al Sud. La città
consuma bassa entropia [energia, risorse, cibo, ecc.] e esporta
massiciamente alta entropia [rifiuti, inquinamento]. Si tratta di un
predatore ecologico che consuma una superficie «fantasma» molto superiore
alla sua superficie reale.

«Pourqu'un mètre carré de surface urbaine fonctionne dans les villes
espagnoles, il faut 60 mètre carrés d'espace rural, de sol agricole, forêt
ou prairie, pour permettre aux troupeaux de produire les biens et services
réclamés par les grandes villes. L'empreinte écologique urbaine n'arrète pas
de croître. Il y a 50 ans, les villes n'avaient besoin pour chaque mêtre
carré que de 25 m2 de campagne. Si on fait une projection, à ce train là, en
2050, il faudra 500 m2 de sol rural par m2 urbanisé. L'empreinte écologique
du citadin espagnol représente 4 fois l'empreinte soutenable [6ha 395/1,8]».

Più la citta è estesa, «funzionale» [Le Corbusier], più questa impronta è
forte. Quello che non si vuole dire che bisogna verticalizzare le città. Le
torri sono dei divoratori di energia e non accrescono veramente la densità.
Bisogna sicuramente reinventare una città più «compatta». L'habitat
individuale, isolato, anche pensato ecologicamente bene, è una eresia
urbanistica, dal punto di vista della decrescita, perchè ogni anno
spariscono ettari di terre agricole sotto l'asfalto e il cemento. La
costruzione ragruppata e l'alloggiamento collettivo dimostrano una efficacia
energetica più alta.

Invece delle megalopoli attuali, bisogna imaginare una città ecologica,
fatta di villagi urbani dove ciclisti e pedoni utilizzano una energia
rinovabile. Nella città decrescente, gli abitanti ritroverano cosi il
piacere di gironzolare, come sognavano Baudelaire o Walter Benjamin.
Riapprendere di abitare il mondo è quindi un imperativo.

Si può pensare a organizzare delle bioregioni urbani. La bioregione urbana,
costituita da un insieme complesso di sistemi territoriali e locali dotati
di una forta capacità di autosostenibilità, mira a ridurre il consumo di
energia e le diseconomie esterne [o esternalità negative, cioè i danni
provocati dall'attività di un soggetto che ne fa pagare i costi alla
collettività]. Politicamente, una bioregione potrebbe essere concepita come
una città di città, città di municipi, municipio di municipi o forse una
città di villaggi, in breve una rete policentrica o moltipolare. Si potrebbe
considerare un'area metropolitana come una articolazione di quartieri
autonomi che funzionano come dei comuni giustapposti, secondo la proposta di
Murray Bookchin. «La città, che da secoli ha funzionato secondo la formula
del 'luogo dove tutto si scambia' - scrive Yona Friedman - diventerà un'arca
di Noè destinata ad assicurare la sopravivvenza della specie nonostante il
diluvio. Una grande autonomia, una grande autarchia saranno dunque
necessarie». Questa autonomia comunque non significa ancora un'autarchia
completa. Si potrà stimolare il commercio con le regioni che avranno fatto
la stessa scelta e avranno abbandonato il produttivismo. Si ricercherà anche
l'autonomia energetica locale: le energie rinnovabili sono adatte alle
società decentralizzate, senza grandi concentrazioni umane. Questa
dispersione ha il vantaggio che ogni regione del mondo possiede un
potenziale naturale per sviluppare una o più filiera di energia rinnovabile.

«Saremo noi un giorno capaci - si chiede Christophe Laurens, architetto e
paesaggista - abitare poeticamente le torri degli uffici, gli stadi, gli
incroci, i centri commerciali, le discariche e tutti i parchi d'attrazione,
tutto ciò quello che l'architetto olandese Rem Koolhaas chiama i
junkspace?». La risposta viene forse da Yona Friedman: «Per trasformare il
male in bene - dice - dovremo disfarci del condizionamento che abbiamo
subito». Si tratta di abitare diversamente la stessa città. Pensare al Paris
[Parigi/scommessa] della decrescita.

In un primo tempo, la città decrescente, potrebbe essere la cità attuale
dalla quale sarebbe stati eliminati la publicità, le auto e la grande
distribuzione e dove sarebberò stati introdotti i giardini condivisi, le
piste ciclabili, una gestione publica dei beni comuni [acqua, servizi di
base] e anche la coabitazione e le «botteghe di quartiere». Una
riconversione sarà necessaria ma anche una certa disindustrialisazione. Il
risultato di questa disindustrializzazione realizzata, grazie a degli
attrezzi soffisticati ma conviviali, sarebbe la prova che si può produrre
altrimenti. Anche se la parte autoprodotta non è totale, essa è comunque
importante.

Nel suo bel libro «Manifesto per la félicita. Come passare dalla società del
ben-avere a quella del ben-essere» [Donzelli, 2010], Stefano Bartolini
presenta così la città «relazionale» che corrisponde quasi-esattamente al
progetto della decrescita: «La città relazionale è uno degli aspetti
cruciali della mia proposta di assegnare ai bambini una priorità ben
maggiore di quella attuale perché essi sono il paradigma dello stretto
legame tra spazio e mobilità nel determinare l'esperienza relazionale. I
bambini devono disporre di spazi pedonali di qualità vicino a casa e della
possibilità di arrivarci da soli. Gli elementi chiave di una città
relazionale sono: l'auto privato deve essere drasticamente limitata come
misura strutturale, per fare in modo che tutti i cittadini usino i trasporti
publici; la densità di popolazione deve essere alta; ci devono essere molte
piazze, parchi, isole pedonali di qualità, centri sportivi ecc.; le aree
pedonali ideali sono nei dintorni del mare, di un lago, un fiume, un
ruscello, un canale; devono attraversare la città in modo da formare una
rete pedonale e ciclabile; ci devono essere il più possibile marciapiedi
spaziosi e piste ciclabili; ampi terreni di proprietà publica deveno
circondare la città, per costruirvi parchi e case16».

E per il Sud? Bisogna partire dalla realtà. Due miliardi di persone vivono
nei baraccopoli [bidonvilles] o delle favelas autoconstruite e non
accederanno mai alla città produttivista. La visione di Yona Friedman dell'architettura
e dell'urbanismo di sopravivvanza è certamente più realista per il Sud, e
inoltre in coerenza con la città decrescente al Nord. La città povera è
fatta di un insieme di bidonvillages. «Il bidonvillage - dice Friedman - è
la società anarchica dei poveri e non ha che fare con una scelta ideologica
o politica; questo tipo di società si è costituito semplicemente perché l'esperienza
ha provato che questo assicura al bidonvillage le migliori probabilità di
sopravvivenza».

Finalmente, «La risposta dell'architettura di sopravivvenza ai problemi
correnti sarebbe dunque: costuire meno, ma imparare ad abitare in altro
modo; sfruttare meno i nostri campi, e in compenso imparare a rivedere i
nostri criteri di 'commestibilità»; vivere nelle città in cui abitiamo, ma
organizzarci con minori spostamenti e vivere all'interno del nostro
villaggio urbano, isolato dagli altri villaggi urbani, non più frequentati
da noi perché lontani».

In attesa dei cambiamenti necessari della governance mondiale e della salita
al potere di governi nazionali intonati all'obiezione di crescita, numerosi
sono gli attori locali che hanno implicitamente o esplicitamente imboccato
la strada dell'utopia feconda della decrescita. Se il progetto locale
comporta evidenti limiti, non si deve sottovalutare le possibilità di fare
dei passi avanti nella politica a questo livello. Si può menzionare: la Rete
del nuovo municipio, la rete delle città lenti [Slow cities], le città in
transizione [Transition towns], le Città post carbone, le numerose
esperienze di città virtuose come l'esperienza del comune di Mouans Sartoux
sotto l'impulso del suo sindaco André Aschieri19, le esperienze di Barjac20
e di Correns, tutte collegate con iniziative più piccole [i Gruppi di
acquisto solidale, Amap ecc]. `

Il movimento delle città in transizione [Transition towns] è forse la forma
di costruzione dal basso che si avvicina di più a una società della
decrescita. Queste città secondo la carta della rete ricercano l'autosufficienza
energetica nella prospettiva della fine delle energie fossili; più
generalmente ricercano la resilienza. Questo concetto, preso in prestito
dalla fisica, passendo attraverso l'ecologia scientifica, può essere
definito come la capacità di un'ecosistema di resistere ai cambiamenti della
sua ambiente21. Per esempio, come i grandi agglomerati urbani potranno
affrontare la fine del petrolio, l'aumento della temperatura, e tutte le
catastrofe prevedibili? La risposta dell'esperienza ecologica è che se la
specializzazione consente di migliorare le performanze in un'campo, rende
più fragile la resilienza dell'insieme. La diversità, al contrario, rinforza
la resistanza e le capacità di adattarsi. Reintrodurre gli ortaggi, la
policultura, l'agricultura di prossimità, piccole unità artigianali,
moltiplicare le sorgenti di energia rinovabile, tutto questo rinforza di
consequenza la resilienza.

Per concludere, si possono riprendere due citazioni di architetti

Enrico Frigerio [in Slow Architecture]: «L'architetto esteta, creatore di
forme, credo sia oggi quasi anacronistico».?Yona Friedman: «Dopo tutto,
stiamo forse riscoprendo che assicurarsi la sopravvivenza può anche essere
la Festa».

In sintesi. La città decrescente, primo passo verso una società di
abbondanza frugale, preserverà l'ambiente che è in ultima analisi la base di
tutta la vita, aprirà a ciascuno un accesso più democratico all'economia,
ridurrà la disoccupazione, rafforzerà la partecipazione [e dunque l'integrazione]
e anche la solidarietà, fortificherà la salute dei cittadini grazie alla
crescita della sobrietà e alla diminuzione dello stress. L'impatto sul
paesaggio, anche se non fosse l'oggetto di una politica specifica, sarà
necessariamente positivo.

[Questo saggio è il testo della relazione di Serge Latouche al meeting
internazionale, il 19 e 20 maggio a Roma, dal titolo «The architecture of
well tempered environment - Un'armonia di strumenti integrati», promosso
dall'Unione internazionale degli architetti e dall'Union internationale des
architectes, architecture and renewable energy sources].