fiat: il totem rotto della globalizzazione



da Eguaglianza & Libertà  

Marchionne e il totem rotto della globalizzazione
 
di antonio lettieri

La crisi si inizio secolo scompagina il paradigma al quale si era convertita anche una parte della sinistra. Salta la divisione internazionale del lavoro concepita dall’America, l’industria dell’auto torna ad essere un settore di punta nei paesi che hanno fatto una politica industriale. La vicenda Fiat offre l’occasione per un ripensamento generale

Ora sembra che siano rimasti tutti sorpresi scoprendo che Marchionne progetta la fusione di Chrysler con Fiat e il trasferimento del quartier generale negli Stati Uniti. Eppure era tutto chiaro sin dall’inizio e l’avevamo scritto su queste colonne. Il destino di Marchionne è legato alla Chrysler che il governo americano gli ha consegnato dopo averla salvata dalla bancarotta. Quanto alla componente Fiat del gruppo, la maggiore produzione è in Brasile, dove Fiat è il numero uno nel mercato dell’auto. In questa nuova mappa l’Europa occupa un posto secondario (oggi la Polonia e domani, forse, la Serbia), mentre l’Italia ha un ruolo opzionale e sostanzialmente residuale.
Ma l’aspetto più straordinario della vicenda Fiat-Marchionne non sta tanto (o soltanto) nell’arroganza ricattatoria nei rapporti sindacali. La cosa più sorprendente è stato l’entusiastico consenso raccolto in tanta parte della cultura economica e politica italiana (senza, per decenza, parlare del governo). La chiave di volta di questo consenso bipartisan sta nell’appello al paradigma della globalizzazione. E, secondo lo schema convenzionale, le regole sindacali, i diritti dei lavoratori, le condizioni di lavoro non possono che essere variabili secondarie di fronte agli imperativi del mercato globale.
Eppure proprio un discorso meno provinciale sulla globalizzazione avrebbe dimostrato il cambiamento in corso nel mondo della produzione e il diverso ruolo che vi gioca proprio l’industria dell’auto. Marchionne ci ha presentato un totem rotto, sia pure intrigante. Il modello di globalizzazione, così come l’avevamo conosciuto nella sua fase ascendente e trionfale di fine secolo, è stato travolto dalla crisi. Conviene fermarci brevemente su questo punto, all’apparenza scontato.
La globalizzazione era percepita fondamentalmente come la cancellazione delle frontiere nazionali e l’unificazione del pianeta sotto lo scettro della finanza internazionale, in primo luogo, delle grandi banche d’affari americane. Ma il nuovo decennio ci ha consegnato il fallimento di questo aspetto considerato irreversibile. Gli stati Uniti hanno subito due crisi finanziarie nel corso dell’ultimo decennio. La prima nel 2001-2003 mise in luce la fragilità del sistema finanziario americano. La seconda del 2008-09 nella quale siamo ancora immersi ha assunto dimensioni globali e devastanti. Così quello che era stato considerato l’asse fondamentale della globalizzazione di fine secolo è andato in crisi insieme con l’ideologia dell’autoregolazione dei mercati.
Ma non si tratta solo di questo. Il cambiamento più radicale è probabilmente un altro. L’ascesa della globalizzazione sotto l’egida americana prevedeva una divisione del processo produttivo all’interno delle stesse imprese, basata sulla delocalizzazione della produzione ad alta intensità di lavoro nei paesi periferici - dove il lavoro non solo costa poco, ma soprattutto è immune da regole, legislazioni protettive e controllo sindacale - mentre i paesi ricchi si riservavano le produzioni tecnologicamente avanzate. In questo scenario la deindustrializzazione degli Stati Uniti, già iniziata sotto Reagan, trovava una giustificazione pratica nel principio classico della divisione internazionale del lavoro fra paesi a diversi livelli di sviluppo.
Cosa è andato storto per ritrovarci oggi immersi nella Grande Recessione dei vecchi paesi industriali? Per dirla in breve, è successo che i paesi emergenti, i Bric, si sono affrancati dalla regola di una rigida divisione del lavoro. La Cina ce ne  fornisce l’esempio più clamoroso. La globalizzazione le imponeva di produrre beni ad alta intensità di  lavoro: jeans, scarpe, giocattoli e gadget elettronici. La Cina continua ovviamente a produrli. Ma non solo. Disponendo di vasti capitali, sia propri sia dall’estero, e di un immenso mercato interno ha differenziato la propria produzione verso prodotti tecnologicamente avanzati, rompendo lo schema classico della divisione della produzione tra paesi poveri e paesi ricchi.

Ha, non a caso, imposto alle multinazionali americane, europee e giapponesi che via via s’installavano sul suo territorio la compartecipazione con le grandi imprese locali, private o pubbliche, impossessandosi del  know-how tecnologico. E oggi è in grado di produrre quasi tutto ciò che si produce nei vecchi paesi industriali e a costi inferiori. Ha sviluppato, in altri termini, una politica industriale, che una buona parte delle culture occidentali, in nome della globalizzazione e dell’economia post-industriale, aveva ripudiato. Ma oggi la politica industriale riappare nei grandi paesi occidentali, anche senza pronunciarne  apertamente il nome.
Il caso dell’auto è indicativo di questa nuova tendenza. Quando Barack Obama decide di investire 60 miliardi di dollari per salvare General Motors e Chrysler deve difendersi dall’attacco dei conservatori, ma sa che gli Stati Uniti non possono fare a meno di Detroit. E quando Obama impegna grandi risorse per lo sviluppo dell’economia verde, allude concretamente a una nuova fase dell’industrializzazione, a nuovi campi dell’innovazione tecnologica nella quale il pubblico gioca un ruolo essenziale e al rilancio dell’occupazione.
Così l’auto torna è tornata sorprendentemente a proporsi come un simbolo rinnovato dell’industria manifatturiera a livello globale. La Cina, che ha già sorpassato il numero di auto prodotte negli Stati Uniti, punta a raddoppiare la produzione nei prossimi cinque anni, arrivando a 30 milioni di unità, la metà delle auto prodotte nel mondo nel 2010. La concorrenza sarà sempre più aspra e globale, ma questo non significa che i vecchi paesi industriali si debbano ritirare. E’ vero il contrario. I governi sono sempre più presenti. Sarkozy difende l’industria francese, immettendovi risorse e imponendo al tempo stesso di mantenere in Francia la produzione e i livelli di occupazione.
In Germania l’industria dell’auto rimane al centro di un intervento convergente fra governo, impresa e sindacati. La Volkswagen, che quindici anni or sono era sull’orlo della bancarotta, è l’impresa automobilistica più competitiva al mondo e punta a diventare la prima superando le case giapponesi e americane.
Ma in Germania l’auto è soprattutto il simbolo di una politica industriale complessiva. Durante la crisi, è stato deciso il mantenimento integrale dell’occupazione adottando la riduzione dell’orario per tutti col sostegno del governo. I risultati sono impressionanti. La ripresa economica è la più alta in Europa. La disoccupazione è addirittura diminuita rispetto agli anni pre-crisi. Le esportazioni sono riprese alla grande.
Ci troviamo di fronte a un insegnamento che solo la miopia e il provincialismo ideologico italiani possono oscurare. La nuova mappa della  globalizzazione non elimina la necessità di una politica statale, ma la esalta. Il sindacato non è considerato un ostacolo, ma una risorsa. Gli investimenti in Germania sono decisi passando attraverso i Consigli di sorveglianza per metà composti da rappresentanti dei lavoratori. L’organizzazione del lavoro, la sua flessibilità e efficienza passano attraverso il filtro dei consigli di fabbrica, strumenti di conoscenza, controllo e consenso dei lavoratori. Le grandi imprese si impegnano a mantenere intatta l’occupazione per gli anni a venire.

Il governo italiano è l’unico al mondo a essersi disinteressato della sorte dell’auto, salvo schierarsi a favore di Marchionne quando ha minacciato di chiudere Mirafiori, alzando la posta del ricatto. Ma non basta prendersela col governo. La vicenda Fiat ha anche riportato in primo piano la crisi intellettuale e politica del “riformismo” di sinistra. Il caso Marchionne dovrebbe aprire la strada a un ripensamento più generale sulle origini non solo finanziarie ma anche sociali e ideologiche della crisi globale, che è anche crisi della globalizzazione nei termini in cui l’abbiamo conosciuta alla fine del secolo scorso. Se così fosse, Marchionne avrebbe portato un involontario contributo alla riapertura di un effettivo dibattito politico nella sinistra italiana. Come dice la vecchia massima, la speranza è l’ultima a morire.
(07/02/2011)