[Prec. per data] [Succ. per data] [Prec. per argomento] [Succ. per argomento] [Indice per data] [Indice per argomento]
beni comuni e moderni recinti
- Subject: beni comuni e moderni recinti
- From: "ANDREA AGOSTINI" <lonanoda at tin.it>
- Date: Thu, 20 May 2010 06:42:52 +0200
dal manifesto.it
Moderni
recinti
Data di pubblicazione: 04.05.2010 Autore: Vecchi, Benedetto; Negri, Antonio Due articoli sulla rapina dei beni comuni (dall’acqua alla salute, dall’energia alla conoscenza) in una lettura che interpreta l’attualità alla luce della storia e della volontà politica. Il manifesto, 4 maggio 2010 Il regime illiberale della scarsità di Benedetto Vecchi Nel film di James Cameron Avatar nativi di Pandora si battono strenuamente per cacciare dal loro pianeta i mercenari al soldo di spregiudicate multinazionali che vogliono impossessarsi delle loro ricchezze naturali. Alla fine vinceranno la loro battaglia e i loro beni comuni saranno preservati. Un film è pur sempre un film, ma è significativo che Hollywood investa così tanti dollari in un'opera che, in un sottile gioco di allusioni, mette sul banco degli imputati i «ladri di energia» che hanno mosso la guerra per mettere sotto il loro controllo le fonti petrolifere di alcuni paesi arabi. Ma a ben vedere, l'opera di Cameron critica quel complicato processo che oltre, a legittimare l'espropriazione delle terre della foresta amazzonica, vuole ricondurre l'acqua e la salute al principio della scarsità, potente motore ideologico attraverso il quale il mercato è lo strumento ottimale per gestire risorse appunto scarse. È sicuramente segno dei tempi che gli Stati Uniti trasformino in un sofisticato prodotto della cultura di massa un ordine del discorso che interessava, solo fino a pochi anni fa, i movimenti sociali di opposizione alla globalizzazione liberista e qualche studioso, come il premio Nobel per l'economia nel 2009 Elinor Ostrom, autrice di un fortunato testo sulla gestione dei beni comuni che contesta la tesi sulla cosiddetta «tragedia dei commons», in base alla quale solo il mercato può garantire l'ottimale gestione della terra, dell'acqua, dell'energia. D'altronde alla Casa Bianca è arrivato Barack Obama, sloggiando così il portavoce della lobby petrolifera con la promessa di un'inversione di rotta a quella «privatizzazione dello stato» così attentamente documentata da giornalisti militanti come Naomi Klein nel suo Shock Economy. Ma questa rinnovato interesse per i beni comuni apre la strada a un'analisi che dall'acqua e dalla terra può spostarsi su dimensioni meno tangibili delle società contemporanee, come appunto la salute, la formazione, la conoscenza. In questo caso, i paladini del libero mercato hanno un qualche problema per legittimare le enclosures di questi beni comuni. In primo luogo, il principio di scarsità non può essere applicato. L'accesso, ad esempio, alla cura farmacologica di alcune malattie non
pregiudica il fatto che quelle medicine possano essere facilmente replicate
attingendo alla conoscenza tecnico-scientifica che è alla loro base. Anzi, più
si studiano l'anatomia umana e i principi attivi di alcune sostanze si accresce
la conoscenza, dando così vita a una sua applicazione per migliorare le
medicine, oppure per produrre nuove prodotti. Lo stesso si può dire per la
produzione culturale e informatica. La lettura di un testo filosofico o di un
trattato sulla fisica quantistica non impedisce ad altri di farlo. E una volta
compresi i concetti filosofici o scientifici può accadere che altri testi
possano essere scritti, apportando significative elaborazioni di quell'accumulo
di conoscenza presente nei libri studiati. Lo stesso si può dire per la visione
di un film o per lo sviluppo di un software. In altri termini, la formazione, la
salute, la conoscenza non sono beni scarsi, perché l'accesso ad esse non è mai
esclusivo come può accadere per un terreno: a differenza dell'acqua e delle
fonti energetiche, il loro uso da parte di qualcuno incrementa e non distrugge
l'accumulo di sapere.
Il regime di scarsità viene però artificialmente introdotto attraverso il
regime della proprietà intellettuale. I brevetti, il copyright e i marchi sono
cioè gli strumenti giuridici per rendere scarsi beni che non lo sono. Allo
stesso tempo, sono strumenti giuridici che favoriscono e poi legittimano la
formazione di rendite di posizione e di monopolio appunto sulla produzione
culturale e di manufatti «immateriali». La difesa dei beni comuni non riguarda
solo l'acqua, la terra o la saluta, ma coinvolge altri ambiti della vita sociale
è passa attraverso la critica e il superamento delle norme dominanti sulla
proprietà intellettuale.
Quel diritto privato di saccheggiare i beni comuni di Antonio Negri La legge è stato lo strumento per difendere la proprietà privata. E se agli inizi della rivoluzione industriale era usata nei paesi europei e negli Stati Uniti, in seguito è intervenuta per legalizzare il saccheggio delle materie prime nel Sud del pianeta. Ora quello stesso dispositivo consente la privatizzazione dell'acqua, dei servizi sociali e della conoscenza Finalmente un «libro arrabbiato» e «coraggioso» da parte d'un ottimo giurista e di un'antropologa di buona caratura (Ugo Mattei e Laura Nader, Il saccheggio. Regime di legalità e trasformazioni globali,Bruno Mondadori). La relazione fra pensiero giuridico ed apologia delle istituzioni dell'ordine, della proprietà e dello sfruttamento di rado viene messa in questione e quando avviene lo è dall'esterno del mondo giuridico e in nome di ideologie moralizzanti o politicamente desuete. Questo è invece un libro di critica del diritto dall'interno del diritto. «Con tutto quello che è stato scritto sulla dominazione imperialista e coloniale e sulla globalizzazione come manifestazione contemporanea di simili rapporti di potere fra l'Occidente opulento e il resto del mondo, colpisce la limitata attenzione dedicata al ruolo del diritto in questi processi. (...) Difficile non accorgersi che il diritto è stato ed è tuttora utilizzato per amministrare, sanzionare e soprattutto giustificare la conquista ed il saccheggio occidentale. Ed è proprio questo continuo e mai interrotto saccheggio che provoca - ben più delle ragioni legate a dinamiche corruttive interne ai paesi poveri con cui si tenta di colpevolizzare le vittime - la massiccia diseguaglianza globale. L'idea portante dell'autocelebrazione occidentale è legata a filo doppio a
una certa concezione del diritto, quella che abbiamo reso in italiano, per
sottolineare l'ambiguità, come regime di legalità (rule of law)». Il progetto
del libro non sarà allora solo quello di demistificare la funzione del diritto
nella sua figura neo-liberale (cioè di indicarne la potenza di copertura,
falsificazione e neutralizzazione dei rapporti di dominio in generale) - bensì
sarà soprattutto quello di destrutturarne le figure, criticandolo e
dissolvendone la funzione dall'interno dei suoi movimenti. In che modo?
Fornitori di legittimità
In primo luogo mostrando che il regime di legalità non è una sovrastruttura dell'economia liberista ma una macchina che funziona all'interno di questa, che per il liberalismo organizza direttamente la produzione e i mercati. Ne consegue che, nel colonialismo e nell'imperialismo, il diritto non ha fatto altro che svolgere ed applicare la rule of law, non solo estendendo i campi di efficacia del diritto borghese nei paesi fuori dal centro di sviluppo, ma costituendo, su queste figure, la vita dei popoli allo scopo di dominarli. Vi è probabilmente un certo luxemburghismo in questo approccio - fosse non tutto corretto dal punto di vista della critica dell'economica politica ma sacrosanto da quello etico-politico. In secondo luogo, una volta riconosciuta la genesi, i processi di destrutturazione critica devono saper riconoscere chi fa funzionare la macchina, chi ne sono i «fornitori di legittimità». Ecco dunque che ci troviamo di fronte a soggetti dominanti che utilizzano idealità supposte filosofiche e modernizzatrici, ipocrite costituzioni politiche ed in fine apparecchiature giuridiche funzionali che costituiscono i dispositivi di un materialissimo saccheggio delle ricchezze e dell'autonomia delle popolazioni dominate. Il diritto imperiale espande le figure del diritto coloniale, pretendendo nuova legittimazione in nome delle funzioni di globalizzazione. Che imbroglio! A questo punto, in terzo luogo, il progetto di destrutturazione del diritto imperiale può rivolgersi verso l'interno dei paesi dai quali quel diritto è prodotto: per verificare un primo paradosso, e cioè che quel saccheggio del mondo intero, attuato attraverso figure giuridico-liberali, ora ritorna e deborda, all'interno dei paesi imperiali, imponendo lo smantellamento di quella legalità tradizionale che aveva permesso l'espansione e l'interno godimento dei sovrappiù imperialisti. Dopo aver tutto distrutto, il drago si mangia la coda. Gli orti della resistenza
Come resistere a questi processi? Mattei e Nader sono, sul terreno politico, molto pessimisti. Il quadro che la globalizzazione ha fissato è, secondo loro, tragico. Anche le politiche della presidenza Obama - e la promessa di bloccare gli eccessi imperialisti bushani - sembrano loro perfettamente coerenti, nel bene o nel male, con il quadro fin qui delineato. Obama non può interrompere la macchina dell'imperialismo americano. A me sembra che i nostri autori vadano tuttavia, sul terreno giuridico, più a fondo di quanto facciano sul terreno politico; e che la loro analisi ripercorra quella medesima via che percorse la critica, da Evgeny Pashukanis, grande critico russo del diritto privato e pubblico in generale, su fino a Jacques Derrida, critico contemporaneo della sovranità. Quando Derrida destruttura le determinazioni di potere del regime capitalistico e ne conduce la critica fino ad estreme conclusioni, verifica l'affermazione di Pashukanis che, globalizzazione o meno, il diritto pubblico ed il diritto borghese in generale sono sempre e solamente figure dell'appropriazione privata e che il diritto è in realtà sempre l'autoriconoscimento e la potenza armata della società borghese. Come avanzare, una volta stabiliti questi presupposti, sul terreno della
proposta politica? Nella modernità si è sognato che, contro Hobbes e Locke,
fosse possibile trovare nel pubblico, nello Stato, nel potere democratico
un'alternativa allo «stato di natura» ed alle sue più violenti espressioni. Da
un lato una frazione di gesuiti spagnoli, polemici contro la modernità,
dall'altro, sul fronte del materialismo, Spinoza, lo pensarono nel Seicento: la
passione del «bene comune» avrebbe dovuto costruire un terreno, un riparo, che
ci salvasse dalla violenza dalla prima accumulazione originaria del capitalismo.
Non ci riuscirono, quei bravi, poiché il capitalismo si affermò comunque,
svilendo la religione a suo strumento di potere e chiudendo l'utopia
materialista negli orti della resistenza. Così la costruzione di un nuovo
diritto pubblico integrò la continuità del diritto privato. Ma oggi siamo
arrivati ad un punto di rottura.
Lungi dal costituirsi in luoghi di assenza di diritto, il comune comincia a
mostrarsi e può esser definito come una potenza costruita oltre il privato ed il
pubblico, oltre il contratto e la sanzione statuale. Per non averlo compreso la
sinistra socialista e quella comunista, in Europa e in tutto l'Occidente, sono
fallite. Inoltre, da quando abbiamo cominciato a ragionare di e dentro il
«postmoderno», non possiamo più semplicemente rimembrare e dar sfogo alle
eroiche alternative costruite nel «moderno» attorno all'idea del «bene comune».
Dobbiamo invece arrivare a porre questo problema in termini di totale
discontinuità con l'idea di un'appropriazione individuale, privata o pubblica,
di qualsiasi bene.
Il potere dei ricchi
Il comune diviene ora un progetto di gestione democratica, impiantata dell'espressione delle singolarità e della loro necessità di vivere e di produrre in maniera cooperativa. Il comune è una realtà già in parte costituita dall'attività umana nel postmoderno e, dall'altra parte, un progetto per costruire e ripartire tutto quello che l'attività produttiva costruisce. Perché tutto, essendo prodotto da tutti, appartiene a tutti. A questo punto l'ordine giuridico (e le sue istituzioni) dovrebbero essere predeterminate a questa finalità. Ma che fare per impedire che anche quest'ipotesi si riveli utopica?
«È necessario riconoscere che è impossibile trasformare in maniera significativa il regime di legalità imperiale in un regime di legalità popolare senza una profonda ristrutturazione dell'ambito politico. Per poter procedere in questo senso è tuttavia necessario demistificare alcuni tabù, tra cui quello della desiderabilià per se dell'esperienza storica fin qui conosciuta come regime di legalità». Così concludono Mattei e Nader: questo regime difende i ricchi, la loro appropriazione di gran parte delle ricchezze prodotte in questo mondo. I ricchi saccheggiano i poveri. Io credo che, ciò detto, la parola passi più che dal giurista al politico, dal giurista all'antropologo. L'esperienza di legalità: come farla oscillare verso una radicale trasformazione? Quali sono le condizioni materiali che possono permetterlo e dentro le quali il processo è in atto? Quali regimi dell'immaginazione e quali gli apparati di resistenza che romperanno, nell'animo delle moltitudini, l'idea della legalità ed imporranno il dovere della disobbedienza? Qual è il grado attuale di maturazione della demistificazione della legalità, nonché di generalizzazione della volontà di destrutturare questa ignobile realtà? I politici sembrano del tutto ignari di queste questioni. Quando
l'antropologia era una scienza della trasformazione e, nello stesso momento, un
insieme di dispositivi atti a tirar le conseguenze dei suoi presupposti, la
politica non serviva, bastavano i grandi movimenti delle moltitudini.
L'Illuminismo fu questo. |
- Prev by Date: se chi inquina paga, chi paga puo' inquinare?
- Next by Date: pasta per piccoli con muffe da grandi
- Previous by thread: se chi inquina paga, chi paga puo' inquinare?
- Next by thread: pasta per piccoli con muffe da grandi
- Indice: