Città pubblica e città privata: equilibrio o sopraffazione?



da Eddyburg
 
Città pubblica e città privata: equilibrio o sopraffazione?
Data di pubblicazione: 18.04.2010

Autore: Salzano, Edoardo

Intervento al convegno “Paesaggio bene comune” organizzato dal movimento “Stop al consumo di territorio” e dal comitato “Non grattiamo il cielo di Torino”, Torino, 17 aprile 2010

I due fenomeni su cui ragioniamo oggi sembrano agli antipodi. Da una parte, la città che si sparpaglia sul territorio, l'edilizia che dilaga come un blob. Dall'altro lato la città che s'intensifica sul suo stesso suolo, l'edilizia che si erge con i suoi grattacieli. In realtà due facce della stessa medaglia. Non esprimono ciò che la città a sempre tentato di essere: un equilibrio tra momento pubblico e momento privato della vita sociale. Sono entrambi testimonianze della sopraffazione del privato sul pubblico, del particolare sul generale, dell’individuale sul collettivo.

Consumo insensato di suolo e accrescimento irragionevole delle altezze degli edifici sono entrambi il prodotto della stessa regola perversa, e sono entrambi in contraddizione con il più corretto e consolidato (fino a ieri) pensiero urbanistico.

Nella prima parte del mio intervento dirò alcune cose sul primo aspetto (la regola perversa), nella seconda parte vi darò qualche spunto sul secondo (il corretto pensiero urbanistico).

La regola perversa

Ci sono vari modi di leggere la formazione e trasformazione della città nella storia. La lettura che a me sembra più convincente è quella che racconta la città come la progressiva invenzione, e il costante arricchimento, di luoghi e funzioni che integrassero la vita privata con elementi di vita collettiva.

Dallo stesso processo di formazione della polis e dell’urbs attorno ai luoghi dello scambio, del dibattito e della politica, via via fino alla città del capitalismo maturo e del welfare state, la città ha visto costantemente il suo successo – come habitat dell’uomo – nella stretta integrazione tra il privato e il pubblico. Via via che crescevano le esigenze dell’homosocialis, e che queste potevano essere soddisfatte più efficacemente e compiutamente con momenti di vita pubblica, l’equilibrio vedeva una più stretta integrazione tra le une e le altre. Le nostre piazze sono solo il germe degli spazi pubblici, che via via si sono arricchiti.

Ciò ha sempre richiesto una forte presenza degli interessi pubblici nel governo e nella costruzione della città. Presenza pubblica come regolamentazione dei modi di crescita e di trasformazione della città (la pianificazione urbanistica),
presenza pubblica come realizzazione delle crescenti categorie di spazi per la vita comune.

Ad un certo punto questa storia si è interrotta e rovesciata. La cultura e la politica hanno compiuto due errori giganteschi. Per meglio dire, hanno deciso di fare due scelte perverse.Da una parte, si è deciso di lasciare il mercato come il solo arbitro del soddisfacimento dei bisogni individuali che storicamente hanno cercato e trovato risposte collettive. Se guardiamo alla storia italiana degli ultimi trent’anni vediamo segni crescenti di questa perversione, che ha invaso via via tutti i campi della vita dei nostri tempi.Dall’altra parte, e in coerenza con questa prima scelta, si è assunta la formazione, la crescita e l'appropriazione privata della rendita immobiliare urbana (e di tutte le rendite monopolistiche) come un fattore di sviluppo. Si è contraddetto così l’insegnamento del liberalismo classico, che vedeva nella rendita fondiaria (e in generale nelle rendite di posizione) come la componente parassitaria del reddito, che doveva essere contrastata per evitare che attraverso la sua crescita incontrollata venissero depressi il salario e il profitto, e peggiorata la condizione della città.

Lo sprawl urbano e l’erezione dei grattacieli sono entrambi i prodotti di queste scelte.

Affidare al mercato la soluzione di problemi come quello della casa, incoraggiare il “libero gioco” della rendita immobiliare, e abbandonare la regolamentazione urbanistica, ha costretto chi cercava un alloggio ad un prezzo rapportato alla propria capacità di spesa a raggiungere le zone più marginali (e i margini della città si dilatano sempre più), ha costretto ad alimentare lo sprawl, lo “sguaiato sbragarsi della città sulla campagna”. E quando l’offerta di alloggi si rivela eccessiva rispetto alla domanda solvibile, aver ottenuto l’edificabilità di un terreno agricolo consente comunque di accrescere in modo consistente il valore del patrimonio. In questa stessa logica lavora la disseminazione delle attività produttive, di quelle legate alla crescente viabilità, all’espulsione di funzioni dalla città: la logica della “valorizzazione immobiliare”, che trasforma un terreno naturale in un terreno fabbricabile.

Identica è la logica che provoca la “grattacielizzazione” della città consolidata. Riempire le aree centrali (dove i valori della rendita sono già i più alti) significa moltiplicare il valore di mercato di quell’immobile. Non importa domandarsi se per quell’area esistono funzioni più necessarie agli abitanti, alla salute, alla vita sociale. Non importa calcolare se quelle eventuali funzioni, che dovrebbero insediarsi là, potrebbero più convenientemente per il funzionamento del territorio essere localizzate altrove. Quello che conta, è rendere massima – senza fatica, senza lavoro nè spirito imprenditivo, né tampoco rischio – l’investimento finanziario e l’investimento di autorità.

Il corretto pensiero urbanistico

Brevemente sul secondo punto del mio intervento: che cosa ci dice il corretto pensiero urbanistico.

Voglio precisare innanzitutto che quando parlo di “Pensiero” non parlo solo di solo di teoria, ma anche di pensiero tradotto in atto, di pratiche che sono state effettuate e hanno cambiato il territorio e la vita degli uomini. Magari più in Europa che in Italia, ma anche in Italia. E quando parlo di “Urbanistico” non parlo solo degli urbanisti patentati e della cultura urbanistica, ma della società e della politica.

Ho accennato alla lunga storia della formazione della città come “casa della società”, fondata sugli elementi della vita collettiva (gli spazi pubblici, i consumi pubblici), sempre più ricca di elementi della vita collettiva via via che la “modernità” (lo sviluppo capitalistico) rende più complessa la vita, più ampia la gamma delle esigenze, più larga la platea dei cittadini con diritti.

Nel Novecento si è consolidato un modo di pensare e organizzare la città che in Italia ha avuto la sua affermazione soprattutto negli anni Sessanta e Settanta. Un modo basato sullo stretto intreccio tra elementi della vita individuale ed elementi della vita collettiva.La città è stata considerata e progettata (e in parte costruita) in modo alternativo a quello praticato dalla speculazione. Questa vede la città, e ha costruito ampie e soffocanti periferie, come un insieme di edifici d'abitazione collegati da una serie di strade. La corretta cultura urbanistica ha concepito, progettato e a volte anche costruito la città come un insieme di abitazioni, servizi, verde, spazi privati e spazi pubblici, organizzati in unità di dimensioni discrete, associate tra loro in insiemi di dimensioni scalarmente crescenti.

E quando parlo di “corretta cultura urbanistica” mi riferisco a momenti, episodi e istituzioni come la Consulta urbanistica dell’Emilia Romagna, come la rivista Urbanistica di Giovanni Astengo, come l’Istituto nazionale di urbanistica dei tempi di Adriano Olivetti e di Camillo Ripamonti, come i sindaci Rubes Triva a Modena e Renato Pollini a Grosseto e molti altri, mi riferisco ad eventi come quelli della campagna dell’Udi per la programmazione dei servizi sociali nei piani regolatori dei primi anni Sessanta, e quello memorabile dello sciopero generale nazionale del 19 novembre 1969.

E mi riferisco a leggi come la 167 del 1962, capofila di una serie di eventi legislativi oggi dimenticati e contraddetti, che avviò alla realizzazione di quartieri nei quali si soddisfacevano insieme i principi dalla “casa come servizio sociale” e come “diritto alla città”. Quartieri concepiti perciò come luoghi nei quali tutti gli abitanti hanno diritto a vivere in alloggi dal prezzo commisurato alla loro capacità di spesa, senza recinti tra proprietari e non proprietari, tra ricchi e poveri e così via; con una stretta integrazione tra le ragioni della vita private e quelle della vita collettiva: le scuole e il verde, la ricreazione e l’incontro, lo sport e la cultura, la possibilità di muoversi e quella di godere di una natura non contaminata.

Tra gli strumenti per ottenere una città siffatta essenziale sembrò allora, e lo rimane ancora oggi, quello degli “standard urbanistici”. Cioè la presenza, in stretta relazione fisica e funzionale con le unità abitative (le case, gli alloggi), di spazi liberi e costruiti in misura e localizzazione adeguata per tutte le funzioni comuni, collettive, pubbliche: quelle che ho appena elencato.

Gli standard urbanistici furono conquistati con una dura battaglia, che fu il coronamento, e il frutto, di tutti gli eventi, le persone, le istituzioni che ho sopra ricordato. Quello che allora si rivendicò e, almeno in parte, si raggiunse si chiamava “diritto alla città”. Che è il diritto a concorrere alle decisioni mediante le quali si formula il progetto della città di domani, ed è insieme il diritto, per tutti gli abitanti, di fruire di aree e attrezzature per il verde e la scuola, l’incontro e lo scambio, la cultura e lo sport, in prossimità del luogo dove abitano e in modo facilmente raggiungibile anche per i deboli. Non è quello di vivere all’ombra dei grattacieli o nelle lande di un insediamento sguaiatamente sbracato sul territorio, né quello di subire le scelte di poteri interessati unicamente all’incremento di patrimoni privati, o di istituzioni troppo sensibili a questi poteri.