il diritto a essere felici



DA REPUBBLICA.IT
SABATO, 03 APRILE 2010

Gli economisti la usano al posto del pil per misurare il benessere delle nazioni I filosofi si interrogano su come raggiungerla in un´epoca senza più grandi utopie. I politologi la considerano il compito principale delle democrazie contemporanee Perché oggi essere felici non è più solo un´aspirazione individuale Ma un dovere collettivo
 
MICHELA MARZANO

Che cos´è oggi la felicità? A giudicare dal numero di libri pubblicati in questi ultimi anni e dal successo dei dibattiti organizzati sul tema, sono in molti a chiederselo. È anzi uno degli argomenti che appassiona di più. Forse perché nessuno sa esattamente cosa sia la felicità, ma, al tempo stesso, non ha alcuna intenzione di rinunciarci. Tutti desiderano essere felici.
L´oggetto del desiderio, però, è più che mai oscuro. Non siamo più all´epoca di Platone, quando la felicità non aveva misteri: era la conseguenza necessaria di una vita buona, una vita, cioè, passata a cercare la saggezza e la virtù. Come essere felici, infatti, quando il significato stesso del termine "virtù" è poco chiaro? Quando anche la soluzione epicurea - un uomo è felice quando riesce a soddisfare i propri bisogni naturali e necessari - non sembra più convincere nessuno? Le nozioni di virtù e di natura sono ormai divenute problematiche. Da un lato, ognuno ha una propria concezione del bene, che non coincide quasi mai con quella del proprio vicino di casa. Dall´altro, i progressi della medicina e della tecnica hanno frantumato la nozione classica di natura: il mondo contemporaneo è il regno della natura "artificiale". E non è tutto. Il vuoto lasciato dal crollo delle grandi utopie politiche del secolo scorso, infatti, è stato progressivamente riempito da un nuovo imperativo categorico: sii felici e approfitta dei piaceri della vita! 
Ma che vuol dire "essere felici" quando la felicità non è più solo un´aspirazione individuale, ma un dovere collettivo?
In Francia, il 26 e il 27 marzo scorsi, una sessantina di filosofi, economisti, psicologi e uomini politici si sono incontrati a Rennes per discuterne. Invitati dal giornale Libération al Forum Le bonheur: une idée neuve, hanno cercato una soluzione al problema della felicità individuale e collettiva. Prendendo come spunto la famosa frase di Saint-Just – che in piena Rivoluzione francese dichiarava trionfante che "la felicità è un´idea nuova in Europa" – il forum ha avuto un grande successo: 19 mila spettatori hanno assistito ai dibattiti, curiosi e speranzosi di trovare finalmente la "formula magica" della felicità.
Il dialogo e "l´intelligenza collettiva" ha peraltro soddisfatto le attese: tutti sono tornati a casa pieni di idee. Sono emerse nuove utopie democratiche, responsabili e durabili. Si è parlato dell´importanza del "fare rete" per evitare che i cittadini non siano altro che semplici pedine sulla scacchiera del potere. Si è anche insistito sul fatto che la felicità non sia solo un diritto, ma anche un dovere: di fronte alla tragicità della vita, ci si deve impegnare per vivere pienamente ogni istante di serenità. Ma si può veramente pensare la felicità in termini sillogistici secondo lo schema: ogni uomo deve lottare per essere felice; anche io sono un uomo; anche io, quindi, devo lottare per essere felice? Le buone intenzioni a Rennes c´erano tutte. Ma le buone intenzioni non bastano. E nonostante tutti i libri di ricette per insegnare ad essere felici in dieci lezioni o poco più, la felicità non la si può "meritare", come i bambini si meritano un "bravo" a scuola quando fanno bene i compiti.
Il rischio di una società che si nutre di discorsi troppo volontaristici, e che celebra ogni giorno il trionfo delle terapie brevi capaci di educare alla fiducia in se stessi e al "pensare positivo", è di far credere alle persone che se non sono felici, in fondo, è colpa loro. Con questo non voglio dire che non si possa fare nulla per essere felici. Come spiega il filosofo Yves Michaud, siamo tutti responsabili delle nostre scelte e, sebbene la felicità non dipenda esclusivamente da noi, spetta a ognuno di noi scegliere come affrontare le gioie e i dolori che la vita ci riserva. La felicità non è più solo un problema personale. Ormai si tratta di una questione sociale. Perché meravigliarsi allora se ad occuparsene non ci sono più solo i filosofi, ma anche gli economisti? Perché non cercare un modo per "misurarne" qualità e quantità?
Sono sempre più numerosi coloro che pensano di risolvere il dilemma della felicità utilizzando la categoria di benessere. Un benessere non solo psicofisico, ma anche economico e sociale. Certo, quando si soffre di una malattia fisica o psichica, o quando non si hanno i mezzi materiali per il proprio sostentamento, è molto difficile essere felici. Ma gli essere umani sono anche, e forse soprattutto, caratterizzati dal desiderio. E il desiderio, nonostante tutto, è fatto di insoddisfazione. È grazie ai desideri e al tentativo di soddisfarli che si esprime la propria energia e la propria potenza, e che si attraversano momenti, se non di felicità, almeno di gioia. Spinoza, in questo, docet.
Nonostante tutti gli sforzi degli economisti, tuttavia, questa gioia è difficilmente quantificabile. Alcuni di loro hanno proposto addirittura di passare dal calcolo del prodotto interno lordo (PIL) alla misura del benessere globale di una società. Il famoso rapporto Stiglitz-Sen-Fitoussi, commissionato da Nicolas Sarkozy e reso pubblico nel settembre del 2009, sottolineava giustamente come il benessere collettivo non fosse solo materiale: oltre al consumo, sostenevano i tre economisti, si devono prendere in considerazione il tempo libero, le relazioni sociali, il sentimento di sicurezza… Ma la felicità può essere fatta solo di benessere?
Il saggio di Derek Bok, The Politics of Happiness, appena pubblicato negli Stati Uniti, lo pretende. Derek Bok sostiene addirittura che il compito principale delle democrazie contemporanee sia proprio quello di massimizzare la felicità collettiva, promuovendo l´uguaglianza, permettendo alle coppie e alle famiglie di stabilizzarsi, migliorando la salute pubblica. Su alcuni punti non si può non essere d´accordo con Bok. Ogni democrazia degna di questo nome deve non solo promuovere l´uguaglianza, ma anche creare le condizioni adeguate perché i singoli individui possano poi portare avanti i propri progetti e perseguire la propria felicità. La felicità, però, è individuale. E nessun governo, per quanto perfetto, potrà mai risolvere, al posto dei singoli, quello che resta un problema esistenziale centrale: capire, in modo autonomo, che cosa si desideri e che cosa si voglia. La felicità non è un assoluto. Non esiste una strada unica che ci porta verso la felicità. La felicità, come diceva Lao Tseu, consiste piuttosto nel cercare la propria strada, abbandonandosi, talvolta, anche al caso. Non è forse questo il motivo per cui molte persone – in Francia tantissime – cercano oggi nel confucianesimo e nel buddismo le indicazioni per imboccare questa famosa strada, senza cercare a tutti i costi di "meritare" la felicità?
 

Come è cambiata l´idea di felicità 
 
STEFANO BARTEZZAGHI

Che cos´è oggi la felicità? A giudicare dal numero di libri pubblicati in questi ultimi anni e dal successo dei dibattiti organizzati sul tema, sono in molti a chiederselo. È anzi uno degli argomenti che appassiona di più. Forse perché nessuno sa esattamente cosa sia la felicità, ma, al tempo stesso, non ha alcuna intenzione di rinunciarci. Tutti desiderano essere felici.
L´oggetto del desiderio, però, è più che mai oscuro. Non siamo più all´epoca di Platone, quando la felicità non aveva misteri: era la conseguenza necessaria di una vita buona, una vita, cioè, passata a cercare la saggezza e la virtù. Come essere felici, infatti, quando il significato stesso del termine "virtù" è poco chiaro? Quando anche la soluzione epicurea – un uomo è felice quando riesce a soddisfare i propri bisogni naturali e necessari – non sembra più convincere nessuno? Le nozioni di virtù e di natura sono ormai divenute problematiche. Da un lato, ognuno ha una propria concezione del bene, che non coincide quasi mai con quella del proprio vicino di casa. Dall´altro, i progressi della medicina e della tecnica hanno frantumato la nozione classica di natura.
 
Definizione
 
Una ricerca eterna che riguarda tutti e che ognuno declina a modo suo Chi vuole il piacere momentaneo e chi preferisce la serenità duratura
 
Letizia, gioia, brio, gaudio, allegria parole che stanno a indicare tutte le possibili accezioni, varianti, declinazioni di qualcosa molto difficile da definire C´è la versione a basso dispendio energetico (pace, appagamento) e quella opposta che arriva al tripudio orgiastico
 
Estasi, ebbrezza o Nirvana il catalogo è questo 
 
STEFANO BARTEZZAGHI

Nella ricerca della felicità non si cerca qualcosa per sapere dove si nasconda, ma per sapere cosa sia. O, meglio, quale sia, in quella gamma che va dalla beatitudine al sollucchero, passando per serenità, letizia e ridarella. Se la parola è una sola, le merci che vorremmo acquistare al grande magazzino della felicità sono diversissime: per fare un solo esempio, c´è da sospettare che Lev Tolstoj («Tutte le famiglie felici si assomigliano; ogni famiglia infelice lo è a modo suo») e Vladimir Nabokov («Tutte le famiglie infelici si somigliano»...) non si fermerebbero di fronte allo stesso scaffale a cui indugerebbe - per dire - Maria Vittoria Brambilla.
Felicità, letizia, gioia (molto impiegata dall´attuale Pontefice, che però la pronuncia con una C iniziale), gaiezza (parola le cui recenti traversie hanno reso meno frequente nel suo senso proprio), brio, gaudio, giocondità, ilarità, allegria, esultanza, giubilo, tripudio, delizia, estasi, godimento... Convivono in tutta promiscuità e sconfinano nelle reciproche pertinenze parole poco distinte, accomunate da quel tipico sorriso che tradisce la parentela anagrammatica tra il beato e il beota.
Molte le accezioni, le differenze, le varianti, le declinazioni: dal nucleo a basso dispendio energetico costituito da pace, serenità, soddisfazione, appagamento - confinanti un po´ pericolosamente con quiete e requie - («e vissero felici e contenti»: fine della storia, o della Storia), alla costellazione dei tripudi orgiastici e delle esultanze parossistiche, che fanno dire: «e vai!» e fanno fare smorfie e misteriosi gesti con gli avambracci mentre la regia manda «We are the champions».
Le offerte di marketing si attestano, saviamente, a un livello intermedio: promettere la felicità è una debolezza da Costituzioni entusiaste; promettere il «benessere» invece è compito della Realpolitik e anche di appositi Centri con saune e massaggi (nel logo di un albergo recente: «Convegni Cerimonie Benessere»).
Un criterio per orientarsi potrebbe essere quello della posizione della felicità rispetto a un dato evento: la felicità preventiva, che è quella di chi attende serenamente il passaggio a una vita migliore (beatitudine); la felicità consuntiva, di chi gode l´appagamento di un desiderio (soddisfazione); la felicità di chi si estrania dalla realtà mondana (l´atarassia filosofica, l´estasi mistica, il nirvana meditativo).
Ma tra le felicità si possono anche distinguere uno stato mediamente durevole e un climax (o un clima) passeggero, momento glorioso e raggio di sole. A questo criterio allude un recente schemino francese. Intensità massima, minima durata: è l´attimo fuggente, «quant´è bella giovinezza / che si fugge tuttavia»; ma è anche e soprattutto l´orgasmo, detto anche, et pour cause, «apice». Intensità minima, massima durata: il nirvana, l´atarassia, la contemplazione.
I Don Giovanni (da una parte) e i meditatori (dall´altra) sanno quel che vogliono. Sono però casi estremi, così come quello, pur rispettabilissimo, di chi ritiene che la felicità non sia cosa di questo mondo. Tutti gli altri si arrabattano, inseguendo gioie spesso idiosincratiche, dalla prima sorsata di birra al farsi una pera. «Felicità è un cucciolo caldo», disse Charlie Brown, e forse ispirò sia una martellante canzone di Al Bano e Romina Power sia la fioritura delle relative cover apocrife (spesso francamente pecorecce). Un autore come Primo Levi, invece, scriveva che amare il proprio lavoro «costituisce la migliore approssimazione concreta alla felicità in terra»: un´opinione che, essendo espressa in piena epoca di rifiuto del lavoro (fine anni Settanta), suonò assai provocatoria.
Avere le idee chiare è più facile nel campo avverso. Sarà perché gli stati di umore nero inclinano maggiormente all´autoanalisi e al rovello, ma l´irritato, l´arrabbiato, il furente non si confondono fra loro, né, a maggior ragione, con il malinconico, il depresso, il triste, l´ipocondriaco, l´afflitto, il cupo, il mesto, il tetro e il teterrimo. Solo un dilettante dell´atrabile farebbe confusione fra l´iroso e l´irato, l´iracondo e l´irascibile; un vero professionista conosce con esattezza persino la sfumatura che divide l´essere scontento dall´essere malcontento. Del resto Raymond Queneau sosteneva che il linguaggio si sia evoluto a partire dai lamenti degli uomini e che la Storia sia la scienza della loro infelicità.
Perché poi parlare di felicità, quando - se solo ci fosse - dovrebbe bastare a sé stessa? Perché poi, ed eternamente, le mancherà sempre quel «certo non so che» mutevole, come un buco che ne guasta la perfezione sferica. Venire a patti con quell´ineffabile particella che sfugge è un duro lavoro: ma forse è proprio questo il semplice, inaggirabile segreto della felicità.