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da ilsalvagente.it
18 gennaio 2010
 

Il governo attacca Internet, ma Google e Facebook reagiranno
Luca Neri, autore de "La Baia dei Pirati", spiega perché il decreto Romani fallirà.
Michela Rossetti

“L’Italia non è un Paese per Internet, forse perché la sua classe politica, semplicemente, non la capisce”: quando chiediamo a Luca Neri (foto), giornalista fiorentino e consulente informatico, di commentare il recente decreto Romani su Internet e tv, è un fiume in piena.
“Mi sembra un’allucinazione barbarica: l’idea di dotare Internet delle stesse regole della televisione è un’idea assurda, oltre che impraticabile”.
L’autore de “La baia dei pirati”, edito da Cooper - da cui in seguito è nato il sito no-copyright.net - da tempo si dedica all’analisi del mondo dei pirati informatici, della libertà in rete, e dell’inutilità del copyright, forse non poteva esprimersi diversamente.
Ma le sue argomentazioni non sono scontate. Anzi…

In questi giorni abbiamo letto sui giornali titoli che esprimevano un unico concetto. “Il governo vuole trasformare la rete in una grande televisione”.
In pratica si applicheranno le stesse regole della tv anche a quei prodotti web che rientrano nella definizione. Quindi autorizzazione ministeriale per trasmettere, e ai  telegiornali e gli altri prodotti informativi gli stessi principi del Tg3 o il Tg5: direttore responsabile, dovere di rettifica…
Perché per un “TgPincopallo.it”, mettiamo universitario, dovrebbe essere diverso?
Perché i prodotti del web sono, di fatto, diversi dai media tradizionali.
E su Internet ognuno ha il diritto, e la possibilità, di dire la sua.
Il diritto di replica - mettiamo - parte da un presupposto corretto: tutelare il piccolo, il privato, dai grandi mezzi d’informazione.
Ma su Internet che senso ha? Penso che il tgpincopallo.it abbia detto una sciocchezza su di me? Bene, scrivo su Facebook di stare alla larga da quel tg, scrivo un post sul loro sito, replico sul mio blog.
Sulla rete c’è un “passaparola” praticamente illimitato, e chiunque può esprimere la sua idea.

Passiamo a chi rientra o meno nelle nuove regole. Il decreto Romani esclude le attività non economiche e quelle che non sono in concorrenza con la tv; poi precisa che non devono avere carattere “incidentale”, quindi una diffusione di contenuti  audiovideo costante.
Prendiamo il blog di Pippo.it, con il pallino dei video, che tutti i giorni pubblica i filmati degli amici e quelli di YouTube: sicuramente non ha fini economici, ma potrebbe far concorrenza alla tv - con gli spezzoni di programmi già trasmessi sul piccolo schermo - e magari rientra nel carattere “non incidentale”, perché manda filmati tutti i giorni. Per chi vedi pericoli?
A me sembra un tentativo di regolamentazione da “azzeccarbugli”, confuso e poco chiaro.
Torno da poco da New York e ti assicuro che lì, dove non solo la  rete è stata inventata, ma è da sempre considerata circolazione del sapere, simili concetti sono impensabili.
È facile ricondurli a una battaglia tra sistemi “vecchi” e “nuovi”. Tra colossi industriali dove le “vecchie tv” si sentono minacciate.
Sarebbe perfino scontato dire che qui il presidente del Consiglio è a capo di alcune delle reti principali…ma se vuoi scriverlo…

In effetti in molti hanno ricordato la causa di Mediaset contro YouTube… e nel decreto - articolo 6 - si parla chiaramente di “protezione del diritto d’autore”, in cui si diffidano tutti i fornitori di servizi media audiovisivi “dal trasmettere o ritrasmettere, o mettere comunque a disposizione degli utenti, programmi oggetto di diritti di proprietà intellettuale di terzi o parti di tali programmi”.
Appunto.
Sai come andrà a finire? Che Google se ne andrà dall’Italia, proprio come sta lasciando la Cina.
Per chi gestisce piattaforme di milioni di utenti, controllarle è realmente impossibile. La Cina ci prova con 30.000 persone che ci lavorano dalla mattina alla sera, e neanche ci riesce.

Google, infatti, si è detta “preoccupata”. Però YouTube “prende in prestito” parecchi spezzoni dalle trasmissioni.
Perché, se posso vederle lì, dovrei accendere la televisione?
Non è così semplice. Prima di tutto YouTube non trasmette intere trasmissioni, ma, come hai precisato, spezzoni.
Perché non considerarlo un modo per farsi pubblicità? Perché non accordarsi e inserire degli spot? Ancora: perché non offrire piattaforme dove scaricare direttamente, dal sito della rete televisiva, quello che si vuole?
Mettiamo che si elimini YouTube. Gli utenti del web sono “attivi” e non “passivi” come quelli dei mezzi tradizionali. Troveranno il modo di scaricare illegalmente il materiale.
E chi ci guadagnerà allora? Chi frequenta certi siti e programmi lo sa: sono pieni di spam, materiale porno. Per queste aziende, sì, è un guadagno assicurato. Ma non per le “vecchie” tv.
Negli Stati Uniti, a partire dal 2003, si è iniziata una battaglia simile. E i media tradizionali  hanno perso, su tutta la linea.

Racconta...
In nome della violazione al copyright si è cominciato a denunciare migliaia di utenti, circa 40.000 cause civili. Con un costo sociale - peraltro - non indifferente, visti i costi delle spese legali.
Cosa hanno ottenuto? Che alla fine le grandi major audiovisive sono state viste come il “nemico”, come dei soggetti che danneggiavano i consumatori.
Hanno ricevuto un enorme danno di immagine, e le persone acquistavano meno.
In più, nessun beneficio a livello pratico, perché la pirateria è aumentata.
Dopo 3 anni la strategia è stata, naturalmente, abbandonata.

Qual è, allora, la soluzione per i vecchi media?
Cambiare. L’istituzione del copyright non è “sacra”, ha solo due secoli di vita. E sul web non ha senso.
I “vecchi” media devono capire i vantaggi della rete, e non solo pensare ai pericoli. Devono comprendere che la pirateria non è incompatibile con il profitto.
Prendiamo Avatar: è il film più piratato della storia, ma allo stesso tempo quello che sta incassando di più.

Sembra un paradosso.
Non lo è. Perché il cinema e il web sono due mezzi diversi.
Avatar in sala offre qualcosa di più: il 3D, gli effetti speciali sul grande schermo, lo rendono un “evento” irripetibile.
Quello che sta succedendo in questi giorni in Italia è, davvero, assurdo. E soprattutto non otterrà le conseguenze sperate.
Prima di tutto perché limita la libertà degli utenti. Che, semplicemente, la aggireranno.
Non posso “ritrasmettere” sul mio blog, su Facebook, su Twitter, spezzoni coperti da copyright? Devo chiedere l’autorizzazione ministeriale per la mia web-tv? Bene, si inizieranno a registrare sui server statunitensi, o svedesi. E si scaricherà più materiale pirata.
Si impone ai provider la stessa responsabilità delle tv?
Di nuovo: Google e Facebook lasceranno l’Italia. E il Paese subirà un costo enorme: a livello economico e culturale.
Si sta arrivando alla morte dell’innovazione attraverso mille taglietti. Non solo con questo decreto.

A cosa ti riferisci?
Potrei parlarne per ore.
Partendo dall’ultima, penso al decreto di Bondi.

La tassa su tutti i supporti tecnologici dotati di memoria per contrastare la pirateria non piace a molti. Anche perché con il nuovo decreto si teme che le chiavette per lo scambio di dati, i decoder che permettono di registrare i programmi, ma anche pc e telefonini multimediali, costeranno di più.
Mi sembra di essere tornato nel Medioevo. Non conosco provvedimenti simili all’estero, sicuramente non negli Stati Uniti.
L’idea di tassare i supporti vergini per salvare un’industria ormai "decotta" mi lascia sbigottito. Nonostante sia innegabile che da Napster in poi il fatturato mondiale dell’industria discografica sia dimezzato, non si riesce a vedere il fenomeno nel suo complesso, e a capire che la spesa dei consumatori, in assoluto, non è diminuita, ma si è semplicemente diversificata.
Si comprano meno cd – è vero – ma si spende di più per i concerti dal vivo. A rimetterci sono le industrie che fanno da intermediari, ma per gli artisti il discorso è diverso. Un musicista guadagna circa il 50% da un concerto; mentre tra il 5 e il 10% per un cd.
Aggiungiamo poi a tutto questo i mancati investimenti per la banda larga, la recente sentenza della Corte di Cassazione, che ha dichiarato sequestrabile il celebre sito "Pirate Bay", e il quadro è quasi completo: l’Italia – oggi – non è un Paese per internet.