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sapere e crisi globale lo spettro del capitale
- Subject: sapere e crisi globale lo spettro del capitale
- From: "ANDREA AGOSTINI" <lonanoda at tin.it>
- Date: Mon, 14 Dec 2009 09:13:08 +0100
sapere e crisi globale
lo spettro del capitale di materialiresistenti (19/11/2009 - 17:23) Sergio Bellucci, Marcello Cini Lo spettro del capitale Per una critica dell'economia della conoscenza Durante gli ultimi vent’anni il capitalismo ha conosciuto un cambiamento epocale: da un’economia prevalentemente materiale, veicolata dalla legge della domanda e dell’offerta e dalla produzione di merci fisiche, si è passati a un’economia dell’immateriale e alla produzione di un bene intangibile e non “mercificabile”: la conoscenza. In questo passaggio si sta verificando però un pericoloso attrito: il capitalismo tende infatti ad assorbire nelle proprie logiche di privatizzazione e mercificazione il processo produttivo della conoscenza, che per sua stessa natura è un bene comune e collettivo, soffocandone così lo sviluppo. Sergio Bellucci e Marcello Cini studiano questo fenomeno da molto tempo; ne Lo spettro del capitale la loro analisi si concretizza in una denuncia e allo stesso tempo in una proposta. La denuncia è rivolta alla politica, soprattutto alla sinistra, incapace oggi di cogliere i segni di quanto sta avvenendo, e per questo di interpretare e farsi carico dei bisogni dei lavoratori. La proposta è quella di promuovere a sistema una nuova logica produttiva, che oggi sta già emergendo autonomamente dal corpo sociale, basata sugli stessi principi su cui si fonda la diffusione della conoscenza: condivisione, cooperazione e democraticità. Una sinistra senza Rete di Benedetto Vecchi «Lo spettro del capitale», un saggio di Marcello Cini e Sergio Bellucci sull'economia della conoscenza politica: perché il movimento operaio è incapace di proporre una visione alternativa a quella dominante? È attorno a questa domanda che il saggio di Marcello Cini e Sergio Bellucci Lo spettro del capitale (Codice edizione) si sviluppa, evidenziando come, anche chi esercita il potere, non dorme sonni molto tranquilli. Lo testimonia la crisi economica, che da un biennio sta ridisegnando i rapporti sociali e le relazioni tra Stati a livello mondiale in una direzione che, più che costituire una soluzione, rappresenta un problema aggiuntivo rispetto la possibilità di uscire dalla crisi, perché le dinamiche e i conflitti sociali e geopolitici del capitalismo contemporaneo non contemplano un esito riformista, come è stato il New Deal e il welfare state dopo la crisi del '29 e la seconda guerra mondiale. Dunque, un saggio ambizioso che concede ben poco allo stile espositivo e molto, invece, alla radicalità dei problemi che la sinistra, meglio quello che ne rimane, si trova di fronte. La tesi dei due autori è presto riassunta. Negli ultimi lustri, il capitalismo ha conosciuto un mutamento radicale che ha portato al centro della scena la conoscenza, divenuta fonte primaria nei processi lavorativi nonché settore trainante della produzione della ricchezza. Una conoscenza intesa nella sua forma generica, ma tuttavia pervasiva dell'attività economica. Non solo dunque il sapere tecnico-scientifico, ma anche l'informazione, l'intrattenimento, l'immaginario collettivo sono diventati il cuore del capitalismo. Questo non significa ovviamente che le merci «tangibili» perdano importanza, ma ciò che produce «valore aggiunto» nella loro vendita è il brand che le accompagna. Un marchio che significa non solo griffe di successo, ma anche simulacro di uno stile di vita appettibile. Vendere un'automobile o un paio di sneakers significa dunque proporre una weltanshauung, nella cui elaborazione è delegata una forza-lavoro altrettanto significativa di quella che contribuisce alla produzione «fisica» dell'automobile o delle scarpe da ginnastica. Altro elemento importante di questa «economia della conoscenza» è la spasmodica ricerca di innovare tanto i prodotti che i processi lavorativi. Cini e Bellucci sono consapevoli dei limiti delle teorie dominanti sulla «economia della conoscenza» nello spiegare la grande trasformazione che è alle nostre spalle. Ed è per questo che invitano a fare i conti con l'analisi marxiana del capitalismo per capire cosa occorra salvare dell'opera di Karl Marx e cosa invece consegnare alla storia. In un breve capitolo, ricordano tanto la teoria del valore che le pagine dei Grundrisse dedicate all'intelletto generale, ma lo fanno per sottolineare il fatto che non siamo all'anno zero della teoria critica, ma neppure siamo giunti al termine del necessario lavoro analitico da compiere. Dunque la loro è un'analisi critica dellla realtà che si sofferma, ad esempio, sui processi di appropriazione privata della conoscenza. Significativa è così la messa a tema della proprietà intellettuale come terreno di conflitto tra chi ritiene che la conoscenza è un bene comune e chi la vuole recintare e sfruttarla per fare profitti. È noto che, nel passato, il possesso di un terreno, di un computer, di un'automobile, un capo di abbigliamento era esclusivo, ma con la conoscenza questo non accade: conoscere una formula matematica, leggere un libro, un giornale non impedisce che altri possano conoscere quella stessa equazione, che l'informazione possa essere acquisita da molte persone. L'accesso alla conoscenza e all'informazione non impedisce che altri possano usare quella stessa conoscenza. Al medesimo tempo, ognuno può arricchirla in una dimensione accumulativa che non prevede appunto una proprietà esclusiva. Con le leggi e le norme sulla proprietà intellettuale la conoscenza viene però ricondotta a un regime di scarsità. Le leggi sui brevetti, sul copyright, sui marchi altro non sono che gli strumenti per quel movimento di privatizzazione della conoscenza che gli autori giustamente paragonano alle enclosures delle terre comuni agli inizi della rivoluzione industriale. È però sul crinale delle enclosures della conoscenza che assumono centralità politica i comportamenti, le esperienze della produzione open o free dei programmi informatici o dei movimenti sociali contro l'uso di sementi geneticamente modificati o sottoposti al regime dei brevetti. Esperienze di cooperazione sociale basate sul riconoscimento della conoscenza come bene comune non privatizzabile. Ed è proprio facendo riferimento alla reciprocità, alla condivisione, all'eguaglianza insita nella cooperazione sociale che, nella parte conclusiva del volume, è abbozzata la proposta di un «welfare delle relazioni» che preveda, anche il diritto alla formazione permanente, alla mobilità, a un ambiente non inquinato e degradato. Un saggio dunque che prende le distanze da quanto la sinistra politica, tanto quella cosiddetta di governo che quella «radicale», va declamando sulla realtà contemporanea. Ed è quindi un libro che ha l'indubbio merito di presentare una prospettiva «altra» da ciò che un'asfittica discussione nelle segreterie di partito e del sindacato ci offre da oltre un decennio sul capitalismo contemporaneo. E altrettanto positiva è la proposta sul «welfare delle relazioni» avanzata dai due autori, perché suona come un antidoto alle tesi di chi invoca una riforma dello stato come riduzione dei diritti sociali di cittadinanza in nome dei giovani precari. Per Cini e Bellucci, il welfare delle relazioni aggiunge diritti senza toglierne a nessuno. Ci sarebbe da discutere se l'«economia della conoscenza» coincida con l'emergere di un settore e il declino di altri; o se piuttosto la centralità della conoscenza abbia cambiato il capitalismo en general e, dunque, anche i processi lavorativi preposti alla produzione delle merci «tangibili». Oppure, se la produzione artificiale della scarsità della conoscenza non renda il conflitto sui beni comuni un aspetto dirimente del conflitto di classe nel capitalismo contemporaneo. Temi e argomenti da mettere nell'agenda politica. Operazione che trova sicuramente il consenso dei due autori. |
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