ragioni e speranze oltre la crescita



da greenport.it
 
La Recensione. Sostenere lo sviluppo di Carlo Donolo
Ragioni e speranze oltre la crescita
Mondadori 2007

Crescita e sviluppo non sono la stessa cosa e questo saggio pubblicato dal sociologo Carlo Donolo voleva essere prima di tutto una critica (costruttiva) all’albero del programma presentato a inizio 2007 dall’Unione che pochi mesi prima era andata al governo. Critica costruttiva perché dopo aver segnalato una pressoché totale mancanza di sviluppo sostenibile nel programma della coalizione guidata da Romano Prodi (lettura che non condividiamo se non in parte) tentava in qualche modo di suggerire come riportarsi sulla giusta via. Ma letto oggi, a distanza di due anni dall’inizio di quell’avventura e a pochi giorni dalla nascita del nuovo esecutivo di centrodestra questo pamphlet che mette sotto accusa la politica italiana tutta, sembra il canto di una cassandra. E’ vero che la politica, più o meno in tutto il mondo, senza distinzioni di parte, parla di crescita, intendendo la crescita del Pil, ed eventualmente dell´occupazione o magari anche delle entrate fiscali che ne conseguono.

Ma è pur vero che solo alla sinistra Donolo si rivolge fin dalle prime pagine, affermando esplicitamente “che solo una coalizione di sinistra potrebbe tentare la prova”, perché “se non si procedesse a un cambio di paradigma dello sviluppo in tempi brevi, la sinistra perderebbe anche ogni legittima residua legittimazione storico sociale, dato che il semplice “governare bene” può essere garantito a sufficienza anche da un blocco moderato”.

Se aggiungessimo questa analisi alle tante che in questi giorni hanno scarnificato la disfatta elettorale della sinistra, nessuno si accorgerebbe che in realtà questa non è una lettura del voto ex post ma è la tesi che l’autore aveva scritto per orientare alla sostenibilità le politiche di un governo ormai caduto.

Quindi la situazione in Italia (ma aggiungiamo noi non solo dell’Italia) è riassumibile in questa “contraddizione”: da un lato l’imperativo di qualità (come nesso tra qualità sociale e qualità della dall’altro: minaccia sistematica e ormai stabilizzata produzione competitiva), alla qualità socioambientale e quindi alla razionalità stessa del sistema-paese. Tutto ciò implica che vada ripensato, per Carlo Donolo, lo sviluppo in termini di strategie della qualità, e quindi di: processi sostenibili, produttivi di coesione, capacitanti, equi e solidali. Solo imprese e sistemi di imprese capaci di portarsi a questo livello di innovazione (i nuovi caratteri qualificanti dello sviluppo sono l’innovazione) potranno competere e non meramente sopravvivere come sta ora succedendo.

La tesi sostenuta da Donolo lega fortemente il concetto di sviluppo sostenibile e di ‘società della conoscenza’ (l’intelligenza e le forme della conoscenza sono uno dei beni comuni da preservare e valorizzare) concludendo che è necessario “ripartire dagli istituti del sociale per ancorarvi un processo di sviluppo che sia coerente, convergente e intrecciato con la crescita economica orientata strategicamente ai parametri della qualità (…). Senza politiche che mirino alla ricostruzione di legami sociali e alla cura del patrimonio di beni comuni non è più possibile neppure la semplice crescita economica”.

Tutto viene sintetizzato nelle prima parte del libro, che poi affronta didatticamente i rispettivi significati di crescita e di sviluppo (“la crescita non è una soluzione ma un problema, che ammette ancor soluzioni, ma al di fuori di sé, all’interno di un altro paradigma, quello dello sviluppo”) soffermandosi anche su quello che per Donolo resta poco più di uno slogan, la decrescita,

L’autore dedica quindi ben 3 capitoli al ruolo che i territori possono assolvere in questo cambio di paradigma, a patto di saper governare, da parte della politica, i processi di sviluppo. Per farlo secondo Donolo occorre quindi il concorso di due livelli. Il primo è quello centrale per gli aspetti macroeconomici e di indirizzo, per politiche settoriali mirate, per l’impostazione strategica ed integrata di tutte le policies, per la garanzia di copertura (e garanzia di ultima istanza) del fabbisogno di tutti i beni pubblici non locali: specialmente l’innovazione tecnoscientifica, la costruzione di reti lunghe, il controllo di parametri e standard, le garanzie di liberalizzazione (contro le rendite), competizione (per l’efficienza) e cooperazione interistituzionale (per la coerenza e coesione transettoriale e transterritoriale).

Il livello locale (variabile secondo strategie, obiettivi, materie, connettività) è fondamentale secondo il sociologo come luogo della mixité di tutte le risorse, e specificamente “tra la valorizzazione sostenibile del patrimonio e dei beni immateriali e il governo dei processi in termini di esternalità positivo negative”.

Ma nella situazione italiana è particolarmente evidente che vi è carenza di beni pubblici essenziali e che sono a rischio ugualmente molti beni comuni indispensabili. Essi possono solo essere oggetto di una cura sistematica, non-locale, o translocale, come produzione di beni presupposto e come governo sistemico delle esternalità negative. Da ciò la necessità del ruolo del “centro”, e quindi di un’accurata valutazione delle forme che deve assumere la federalità e la sussidiarietà.
Quindi necessità di un progetto centrato sull’idea di sviluppo: centrato sui beni pubblici e comuni, sul sociale e sul locale, in quanto diverso da e superamento della crescita locale (che per Donolo in tutti questi anni ci è stata spacciata per sviluppo, fino ai Pit).

Lo sviluppo sostenibile indicato da Donolo è quindi quello legato a un’idea di governo dei beni comuni, materiali e virtuali, di cui siamo ampiamente dotati come paese, ma di cui fino ad oggi abbiamo fatto solo un uso perverso e distruttivo. Si tratta anzi di andare molto oltre la normale conservazione di tali beni e soprattutto “oltre il discorso superficiale e spesso ipocrita di una valorizzazione che implica consumo, distruzione, usura, non riproduzione, appropriazione”.

L’ottimismo verso una nuova fase e un nuovo paradigma di sviluppo accompagna l’autore fino alla fine del libro, dove l’ultima frase risuona ancora più amara: “Se abbiamo attraversato rivoluzioni industriali e politiche in una sorta di annebbiamento e con enorme opacità sulle prospettive, oggi abbiamo tanti saperi illuminanti: viviamo l’incertezza con la capacità di farne buon uso, ce la possiamo fare”.




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21/04/2008Recensioni

 La Recensione. Sostenere lo sviluppo di Carlo Donolo
Ragioni e speranze oltre la crescita
Mondadori 2007

 
Crescita e sviluppo non sono la stessa cosa e questo saggio pubblicato dal sociologo Carlo Donolo voleva essere prima di tutto una critica (costruttiva) all’albero del programma presentato a inizio 2007 dall’Unione che pochi mesi prima era andata al governo. Critica costruttiva perché dopo aver segnalato una pressoché totale mancanza di sviluppo sostenibile nel programma della coalizione guidata da Romano Prodi (lettura che non condividiamo se non in parte) tentava in qualche modo di suggerire come riportarsi sulla giusta via. Ma letto oggi, a distanza di due anni dall’inizio di quell’avventura e a pochi giorni dalla nascita del nuovo esecutivo di centrodestra questo pamphlet che mette sotto accusa la politica italiana tutta, sembra il canto di una cassandra. E’ vero che la politica, più o meno in tutto il mondo, senza distinzioni di parte, parla di crescita, intendendo la crescita del Pil, ed eventualmente dell´occupazione o magari anche delle entrate fiscali che ne conseguono.

Ma è pur vero che solo alla sinistra Donolo si rivolge fin dalle prime pagine, affermando esplicitamente “che solo una coalizione di sinistra potrebbe tentare la prova”, perché “se non si procedesse a un cambio di paradigma dello sviluppo in tempi brevi, la sinistra perderebbe anche ogni legittima residua legittimazione storico sociale, dato che il semplice “governare bene” può essere garantito a sufficienza anche da un blocco moderato”.

Se aggiungessimo questa analisi alle tante che in questi giorni hanno scarnificato la disfatta elettorale della sinistra, nessuno si accorgerebbe che in realtà questa non è una lettura del voto ex post ma è la tesi che l’autore aveva scritto per orientare alla sostenibilità le politiche di un governo ormai caduto.

Quindi la situazione in Italia (ma aggiungiamo noi non solo dell’Italia) è riassumibile in questa “contraddizione”: da un lato l’imperativo di qualità (come nesso tra qualità sociale e qualità della dall’altro: minaccia sistematica e ormai stabilizzata produzione competitiva), alla qualità socioambientale e quindi alla razionalità stessa del sistema-paese. Tutto ciò implica che vada ripensato, per Carlo Donolo, lo sviluppo in termini di strategie della qualità, e quindi di: processi sostenibili, produttivi di coesione, capacitanti, equi e solidali. Solo imprese e sistemi di imprese capaci di portarsi a questo livello di innovazione (i nuovi caratteri qualificanti dello sviluppo sono l’innovazione) potranno competere e non meramente sopravvivere come sta ora succedendo.

La tesi sostenuta da Donolo lega fortemente il concetto di sviluppo sostenibile e di ‘società della conoscenza’ (l’intelligenza e le forme della conoscenza sono uno dei beni comuni da preservare e valorizzare) concludendo che è necessario “ripartire dagli istituti del sociale per ancorarvi un processo di sviluppo che sia coerente, convergente e intrecciato con la crescita economica orientata strategicamente ai parametri della qualità (…). Senza politiche che mirino alla ricostruzione di legami sociali e alla cura del patrimonio di beni comuni non è più possibile neppure la semplice crescita economica”.

Tutto viene sintetizzato nelle prima parte del libro, che poi affronta didatticamente i rispettivi significati di crescita e di sviluppo (“la crescita non è una soluzione ma un problema, che ammette ancor soluzioni, ma al di fuori di sé, all’interno di un altro paradigma, quello dello sviluppo”) soffermandosi anche su quello che per Donolo resta poco più di uno slogan, la decrescita,

L’autore dedica quindi ben 3 capitoli al ruolo che i territori possono assolvere in questo cambio di paradigma, a patto di saper governare, da parte della politica, i processi di sviluppo. Per farlo secondo Donolo occorre quindi il concorso di due livelli. Il primo è quello centrale per gli aspetti macroeconomici e di indirizzo, per politiche settoriali mirate, per l’impostazione strategica ed integrata di tutte le policies, per la garanzia di copertura (e garanzia di ultima istanza) del fabbisogno di tutti i beni pubblici non locali: specialmente l’innovazione tecnoscientifica, la costruzione di reti lunghe, il controllo di parametri e standard, le garanzie di liberalizzazione (contro le rendite), competizione (per l’efficienza) e cooperazione interistituzionale (per la coerenza e coesione transettoriale e transterritoriale).

Il livello locale (variabile secondo strategie, obiettivi, materie, connettività) è fondamentale secondo il sociologo come luogo della mixité di tutte le risorse, e specificamente “tra la valorizzazione sostenibile del patrimonio e dei beni immateriali e il governo dei processi in termini di esternalità positivo negative”.

Ma nella situazione italiana è particolarmente evidente che vi è carenza di beni pubblici essenziali e che sono a rischio ugualmente molti beni comuni indispensabili. Essi possono solo essere oggetto di una cura sistematica, non-locale, o translocale, come produzione di beni presupposto e come governo sistemico delle esternalità negative. Da ciò la necessità del ruolo del “centro”, e quindi di un’accurata valutazione delle forme che deve assumere la federalità e la sussidiarietà.
Quindi necessità di un progetto centrato sull’idea di sviluppo: centrato sui beni pubblici e comuni, sul sociale e sul locale, in quanto diverso da e superamento della crescita locale (che per Donolo in tutti questi anni ci è stata spacciata per sviluppo, fino ai Pit).

Lo sviluppo sostenibile indicato da Donolo è quindi quello legato a un’idea di governo dei beni comuni, materiali e virtuali, di cui siamo ampiamente dotati come paese, ma di cui fino ad oggi abbiamo fatto solo un uso perverso e distruttivo. Si tratta anzi di andare molto oltre la normale conservazione di tali beni e soprattutto “oltre il discorso superficiale e spesso ipocrita di una valorizzazione che implica consumo, distruzione, usura, non riproduzione, appropriazione”.

L’ottimismo verso una nuova fase e un nuovo paradigma di sviluppo accompagna l’autore fino alla fine del libro, dove l’ultima frase risuona ancora più amara: “Se abbiamo attraversato rivoluzioni industriali e politiche in una sorta di annebbiamento e con enorme opacità sulle prospettive, oggi abbiamo tanti saperi illuminanti: viviamo l’incertezza con la capacità di farne buon uso, ce la possiamo fare”.