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le citta', luoghi dell'alternativa
- Subject: le citta', luoghi dell'alternativa
- From: "ANDREA AGOSTINI" <lonanoda at tin.it>
- Date: Wed, 19 Mar 2008 06:38:11 +0100
da edyburg marzo 2008
Dialoghi sulla politica/1 La sinistra e la
«questione urbana». Parla l'urbanista Edoardo
Salzano
«Le città, luoghi dell'alternativa» Oggi anche le istituzioni, come la politica, sono appiattite sul breve periodo: quello spendibile alla scadenza del mandato amministrativo. Se non c'è più un progetto di società come può essercene uno di città? Francesco Indovina Edoardo Salzano, pianificatore, già preside della facoltà di Pianificazione, è autore di molti saggi. L'ultimo è Ma dove vivi? La città raccontata. Continua l'indifferenza della «politica» per la
città. Nessun programma si occupa della questione, neanche quello della
Sinistra. Non ti pare che questa indifferenza sia molto grave, non solo per la
città ma per la stessa qualità della politica, essendo la città il luogo della
«condensazione», delle contraddizioni e ineguaglianze della nostra
società?
È grave e incomprensibile. Non solo per le ragioni
che dici tu, ma anche perché la città è il luogo della possibile speranza. Le
contraddizioni e le ineguaglianze possono essere risolti in tanti modi:
emarginandone i portatori, cioè espellendo e ghettizzando i soggetti più deboli
oppure trasformando la protesta che nasce dal disagio e dalla sofferenza in una
carica di rinnovamento. La prima strada è quella seguita dalle destre italiane
(quella di Berlusconi e quella di Veltroni), che la persegue abbandonando la
città al mercato, al potere degli immobiliaristi, alla deregolamentazione e alla
rinuncia del potere pubblico. Non afferrare il nodo della questione urbana
significa perciò per la sinistra abdicare a una delle poche possibilità di
rappresentare un'alternativa.
D'accordo, anche perché nella città si costruisce il senso collettivo, senza il quale non c'è politica, non c'è rappresentanza, ma solo rappresentazione. Si dice che l'intervento pianificato nella città sia di ostacolo allo sviluppo, alla crescita, fa fuggire investitori, mentre noi insegniamo che un intervento ordinatore crea opportunità non di speculazione ma di crescita ordinata, quindi socialmente più produttiva. Come mai questo semplice concetto non riesce a fare breccia nell'opinione pubblica? Se andiamo al fondo delle cose troviamo che
esistono concetti e connessioni che non sono veri, ma sono diventati,
nell'ideologia corrente, verità assolute. Tra queste due pesano particolarmente
nell'annebbiare e distorcere la consapevolezza della condizione urbana. La prima
è la convinzione (il dogma) che ci sia una connessione ineliminabile tra
sviluppo economico dell'economia data (ritenuta l'unica ipotizzabile), crescita
di determinate grandezze (quelle misurate con il termometro del Pil), e il
mercato (cioè la libertà per qualsiasi proprietario di qualsiasi cosa di farne
ciò che vuole). È solo il mercato che consente, attraverso la crescita, di
conseguire uno sviluppo (quello sviluppo). Quindi, viva il mercato. Questo dogma
è anche molto comodo perché rinunciare, nel campo dell'organizzazione urbana,
alla pianificazione e abbandonarsi alla spontaneità del mercato riduce la
responsabilità del politico, e gli consente di giocare a tutto campo sulla
«scena urbana» per svolgere il suo ruolo di «rappresentazione». La seconda
verità è l'annebbiamento di una delle due componenti ineliminabili della natura
dell'uomo moderno, cioè della sua dimensione pubblica. La bilancia si è
nettamente spostata sulla dimensione individuale (vedi Richard Sennett, Il
declino dell'uomo pubblico). Questo è nefasto per la città, la quale può
esistere, può essere trasformata secondo una logica olistica (quale è quella che
la città necessariamente richiede) solo se l'uomo si sente ed è cittadino. Ove
si riduca a cliente, tutto è perduto.
Ma c'è una realtà non eliminabile: nella città ci si rende conto che non tutto può essere risolto individualmente, la dimensione non solo della collettività ma anche della soluzione collettiva di molte nostre necessità si tocca con mano. Non ti pare che mettere in evidenza, politicamente, questa dimensione sia anche un modo per combattere il declino dell'«uomo pubblico»? Non c'è dubbio. Ma quella che tu chiami «realtà non
eliminabile» è stata eliminata dalla maggioranza delle coscienze. Perciò credo
che ci sia da compiere in primo luogo un duro lavoro culturale, non più solo
sulle élites universitarie; perciò ho scritto quel libro che hai citato
all'inizio, che è rivolto a tutti. Perciò credo che uno dei pochi segni di
speranza siano in quei comitati, gruppi, associazioni che nascono per affrontare
insieme un, sia pur piccolo, problema comune nell'assetto della città. Si tratta
di lavorare perché imparino a passare dal particolare al generale e poi dal
sociale al politico, perché solo in una politica rinnovata c'è un futuro
accettabile.
Com'è oggi la situazione delle diverse città? Un tempo alcune erano esaltate per il loro livello di pianificazione e di crescita ordinata. Oggi la situazione è ancora articolata e differenziata? Molto, molto meno che nel passato. C'è una forte
tendenza all'omogeneizzazione. La politica come spettacolo, l'amministrazione
come rappresentazione, la ricerca di uno «sviluppo» a qualsiasi costo, perfino
l'introduzione della concorrenza contro le altre città come impegno decisivo
(ecco un'altra applicazione ideologica del mercato a realtà che col mercato non
c'entrano), tutto questo mi sembra caratterizzare le città italiane in modo
generalizzato. Ricordo sindaci che legavano il loro ruolo e il loro orgoglio al
fatto di aver dato alla loro città un buon piano regolatore, pur sapendo che gli
effetti di quel progetto di città si sarebbe visto a lunga scadenza. Oggi anche
le istituzioni, come la politica, sono appiattite sul breve periodo: quello
spendibile alla scadenza del mandato amministrativo. Del resto, se non c'è più
un progetto di società come può esserci un progetto di città?
Oggi la città si estende nel territorio, dando luogo a nuove conformazioni urbane. La comprensione del fenomeno è ancora non piena, la discussione sugli strumenti vaga. Ci si riferisce con insistenza al «piano di area vasta», ma senza un'autorità in grado di governarlo rischia di essere solo una speranza. Lo sviluppo urbano nel territorio quali problemi pone al pianificatore? Invece di città e territorio, da vedere come due
entità separate, preferisco parlare dell'ambiente della nostra vita sociale come
territorio urbanizzato. I principi da seguire, e anche le regole, secondo me
sono le stesse nell'affrontare le trasformazioni della città e quelle del
territorio. Non pone quindi problemi nuovi dal punto di vista metodologico, ma
semplicemente problemi diversi dal punto di vista dei fenomeni. Direi che gli
urbanisti avevano compreso che i fenomeni urbani richiedevano una capacità di
controllo e di governo a livello di area vasta. La politica non li ha seguiti.
Pensa allo stesso tentativo di riforma della legge 142 del 1990, che prevedeva
un riordinamento dell'assetto territoriale in funzione del diverso assetto delle
urbanizzazioni. Una riforma modesta, che comunque poteva permettere (attraverso
le città metropolitane in alcune aree, un nuovo ruolo delle province altrove) di
governare i fenomeni di diffusione. Ma si è ritenuto che fosse complicato
modificare i cristallizzati equilibri politici tra comuni maggiori e minori,
comuni grandi e province e così via. Si è preferito non applicare la legge. Si è
lasciato che l'espansione delle città, abbandonata agli interessi fondiari e
allo spontaneismo, provocasse quelle nuove estese periferie a bassissima densità
(e altissima domanda di energia) che
conosciamo. |
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