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calamità innaturali e scenari futuri
- Subject: calamità innaturali e scenari futuri
- From: "ANDREA AGOSTINI" <lonanoda at tin.it>
- Date: Tue, 8 Jan 2008 06:38:34 +0100
dal manifesto dicembre
2007
Calamità innaturali Massimo Serafini, di Lega Ambiente Credo che un futuro di giustizia, di pace, di diritti quali quelli prima evocati, o al contrario un futuro fatto delle cose terribili che avete appena sentito, cioè di guerra, di discriminazione e di miseria, per gran parte dell’umanità dipenda strettamente dal tipo di risposte che le classi dirigenti daranno a due eventi con cui necessariamente ci dobbiamo misurare. Il primo evento dal quale io credo discendano molte delle motivazioni che spingono alla guerra i paesi più potenti, in primis il paese più potente, quello più egemone, e che producono anche risposte che vanno sotto la voce ‘terrorismo’, è la relativa scarsità delle risorse energetiche non rinnovabili. Scarsità a cui si risponde esibendo la forza militare, cercando di controllare i pozzi di petrolio che sappiamo essere concentrati in determinate regioni del pianeta (nel Medio Oriente c’è la maggioranza delle risorse energetiche non rinnovabili). Alla vecchia tesi ambientalista dell’esaurimento totale delle risorse petrolifere si è oggi sostituita la previsione che nel 2015 o nel 2050 l’offerta di combustibili fossili non sarà in grado di soddisfare le richieste del pianeta popolato da otto o nove miliardi di persone. Sia pure ai prezzi elevatissimi determinati dall’emergere sulla scena economica di qualche miliardo di individui che vogliono avere accesso ai servizi fondamentali. E’ ormai davanti agli occhi di tutti una drammatica contraddizione che è diventata il motivo del nuovo millennio. La principale potenza economica rimasta tra le due super potenze tende a risolverla tramite la riproposizione e la difesa anche militare del suo modello di vita che non è in discussione. E’ un modello di vita che è causa di grandissime difficoltà per i paesi in via di sviluppo che cercano una propria strada per l’accesso alle risorse naturali. Un modello che ha determinato una risposta sbagliata. Che per lo più non ha determinato un’aspirazione al progresso, alla civilizzazione, al benessere attraverso la politica, attraverso la crescita di una classe dirigente illuminata fatta di Mandela, ma che ha determinato una risposta che taglia via la soluzione politica, i compromessi, che è la via terroristica. La via terroristica si pone, almeno nella testa di chi la segue, l’obiettivo di disarticolare la fortissima scelta militare che hanno fatto gli Stati Uniti. Credo che questo sia il primo grande evento con cui ci dobbiamo misurare: una scarsità di petrolio che tenderà a crescere e l’opzione di usare la forza per potersi garantire un modello di vita come quello che per gli Americani vale otto milioni di tonnellate equivalenti di petrolio l’anno a testa, per gli Europei quattro milioni di tonnellate, mentre per gli Africani abbiamo uno 0,2 e per gli abitanti dei paesi emergenti meno di 1 tonnellata. Abbiamo questa disparità e si tenta di mantenerla di fronte alla scarsità del petrolio nell’assoluta convinzione che non è possibile un’alternativa ai combustibili fossili se non cercando quell’uranio che è un’altra risorsa non rinnovabile. Questo credo che sia il primo grosso evento da cui conseguiranno le chances di pace e i diritti umani oppure un mondo in corsa verso soluzioni sempre più catastrofiche. Il secondo evento con cui fare i conti, anche questo abbastanza davanti agli occhi di tutti, è la drammatica presentazione del conto della natura alla civiltà industriale. Siamo ormai entrati in un accelerato cambiamento climatico che si è accompagnato allo sviluppo. Alcuni anni fa si discuteva nei consessi scientifici se erano vere le previsioni del Terzo Rapporto sul Clima del PCC, il panel dell’ONU formato da circa 2.000 tra meteorologi e altri scienziati che studiano le variazioni climatiche. Variazioni climatiche che sappiamo essere in parte naturali. Si discuteva quanto le attività dell’uomo potessero incidere sul fenomeno del surriscaldamento globale del pianeta. Le previsioni – qualora non fossero state messe in atto politiche che riducessero le concentrazioni di anidride carbonica e di altri ‘gas serra’ nella biosfera, che ormai sono attestate sulle 400 parti per milione – erano che la Terra sarebbe stata investita da un aumento vertiginoso di eventi estremi: uragani e tempeste alimentati dal surriscaldamento degli oceani, e fenomeni più governabili in situazioni come quella del Mediterraneo. Situazioni queste ultime tuttavia esposte all’altro rischio che veniva evidenziato: nel giro di 80–100 anni se non venivano ridotte le emissioni di gas serra si sarebbe verificato un progressivo scioglimento delle parti ghiacciate del pianeta e una nuova configurazione delle correnti avrebbe fortemente fatto avanzare – anche in concomitanza col nuovo modo di fare agricoltura – processi di desertificazione in larghissimi territori capaci di produrre circa 200-250 milioni di profughi ambientali. Persone mancanti di acqua e di possibilità di coltivare il terreno si sposteranno verso zone ricche di acqua e di benessere. Questa è una tendenza che non è possibile contenere con nessuna Bossi Fini o con nessuna cannoniera. Più rendi disperate queste persone più le rendi disponibili a scegliere almeno come morire, magari facendo molto danno a chi le ha ridotte in queste condizioni. Questo è un dato che la politica deve affrontare. Non vorrei parlare solo di Katrina e Wilma, perché a me fa rabbia che quando una catastrofe colpisce quel pezzetto di territorio abitato da noi più agiati, abbiamo i giornali pieni, ma le sciagure che investono i paesi poveri interessano poco il grande pubblico. Sono cinque anni che Mozambico, Cuba, il Venezuela e settori della Cina sono investiti da uragani che azzerano la produzione agricola, determinano migliaia di morti, fanno danni devastanti. Il dato freddo, statistico, è che ciò che avveniva ogni quattro anni in fatto di uragani adesso avviene tutti gli anni più volte, e di intensità sempre massima. Da noi il fenomeno si manifesta in modo diverso perché gli uragani non possono formarsi nel Mediterraneo che non è in grado di trasferire il necessario ammontare di energia nell’atmosfera. E’ però davanti agli occhi di tutti che piove in una maniera eccezionale. Quello che pioveva nell’intera stagione autunnale, e su cui venivano basate le coltivazioni agricole, adesso viene giù in una settimana. E c’è una difficoltà nel governare il deflusso di tutta quest’acqua, anche perché abbiamo preteso di mettere il cemento dappertutto, quindi l’acqua scorre e basta, non si infiltra: abbiamo tolto le piante e quindi non ci sono piante per trattenere e assorbire l’acqua. Siamo sottoposti alle nostre alluvioni, alle nostre frane, a ciò che chiamiamo ‘dissesto idrogeologico’. I due eventi che ho citato dovrebbero stare nell’agenda politica. Mi meraviglia che in noi Europei non ci sia la consapevolezza della dimensione delle scelte drastiche che impone tutto questo. Lo dico in maniera molto fredda. Capisco la deriva dell’Amministrazione americana perché ha fatto una scelta. Dato che tutti in America, dai repubblicani ai Democratici, non vogliono mettere in discussione il modello di vita americano, esigendo che vi siano gli otto milioni di tonnellate annue a testa di risorse energetiche, la soluzione militare si impone. Quella almeno è una scelta lucida. L’amministrazione Bush per esempio ha detto: ‘vado a cercare l’energia in Siberia, percorrerò la Siberia, chiederò l’autorizzazione a far questo’. Mi meraviglia l’inerzia dell’Europa che non fa scelte e non affronta il problema in un modo o in un altro. Le cose si complicano ulteriormente per l’emergere di grandi disponibilità finanziarie di un grande paese come la Cina disposta a pagare il petrolio anche 80 o 90 dollari il barile. Ciò ha messo in crisi quella sorta di compromesso esistente tra i paesi OCSE che prevede cha appena ci sono tensioni di prezzi, i paesi OPEC aumentino le proprie capacità produttive. Ora andremo avanti con le tensioni prodotte da paesi demograficamente molto forti come l’India e la Cina e con una difficoltà oggettiva nella produzione del petrolio, perché di petrolio ce n’è rimasto poco da estrarre e con costi sempre maggiori date le crescenti profondità a cui si trovano i giacimenti ancora sfruttabili. Questi sono i due grandi eventi. L’arco associativo che si sta mobilitando in vista delle prossime elezioni - anche con la raccolta di firme “Cambiare si può” che vuole aprire un’ampia discussione nella società su questi temi - deve concentrarsi su questioni fondamentali sulle quali ognuno di noi deve pronunciarsi anche nelle proprie scelte politico sociali. La prima è l’attuale egemonia del pensiero liberista sui processi di globalizzazione. Occorre creare una nuova cultura della solidarietà economica e soprattutto un’opposizione al dogma che i paesi debbano crescere ininterrottamente nel consumo di merci, magari stabilizzando i consumi di cultura e di servizi collettivi. L’idea è che i capitali in libera circolazione debbano avere dovunque arrivano la priorità sulle regole, sugli statuti. I capitali dei paesi ricchi arrivano in Africa a fare danni rilevantissimi, imponendo sistemi di coltivazioni dei campi che non hanno nessuna compatibilità con la situazione locale, e contemporaneamente i paesi ricchi difendono corporativamente le proprie produzioni agricole con dazi e cose di questo genere. I capitali sono arrivati anche in Cina per trovare manodopera a basso costo ma ora c’è una reazione. Questa egemonia dei capitali ha portato all’irrompere sulla scena mondiale di un movimento di contestazione sociale (esistono frammenti di questo movimento anche in Cina: i Cinesi cominciano a rivendicare alcuni diritti sul lavoro). Dobbiamo convincerci che un paese come il nostro deve andare in Europa in modo da invertire veramente la tendenza. Serve un grande continente –che per storia ha un modello di coesione sociale fortunatamente molto diverso da quello americano anche nei periodi peggiori – che offra, al quell’ottanta per cento dell’umanità in via di sviluppo o che si trova nella disperazione più nera come in Africa, un modello radicalmente diverso da quello del ‘se ti muovi ti bastono’. Dobbiamo creare per questa strada anche un’avversione forte ad una politica come quella messa in atto dall’amministrazione americana – e dire questo non è antiamaricanismo – che ha scelto una scorciatoia che porterà tutti nel disastro più totale. Occorrono un paese ed un continente che si battano per proporre un’idea diversa di ONU, che non può essere quella uscita dalla seconda guerra mondiale con le sei grandi potenze che decidono e con un mondo di esclusi che non hanno una sede negoziale. Tanto che siamo arrivati, sulla questione climatica, ad un paradosso: noi ricchi, invece di introdurre misure che riducano le immissioni nell’atmosfera andiamo a piantare foreste nei paesi poveri, che avrebbero bisogno di ben altro, per comprarci i cosiddetti ‘crediti di emissione’. Pensiamo così di salvarci la coscienza mentre continuiamo a vivere in modo dissennato. Serve un governo mondiale che ripristini un luogo multilaterale da cui emergano le regole da porre all’insieme dell’agire dei paesi, che metta in discussione le norme del commercio mondiale del WTO e le norme secondo cui opera la Banca Mondiale, norme che sono la premessa di ulteriori impoverimenti perché indirizzano ad una scopiazzatura del modello occidentale dell’economia di mercato. Ad esempio la liberalizzazione dell’acqua andrebbe perseguita nei paesi poveri anche se in India e in Africa ciò sarebbe dirompente come scatenare una guerra. L’accesso ad una risorsa come l’acqua è essenziale. Dire che l’acqua è una merce che si deve comprare è una bestemmia anche in un paese dove, sia pure con grandi disparità, il portafoglio e pieno ma figuriamoci in un paese in cui il portafoglio è completamente vuoto: vuol dire negare la possibilità del bere se l’acqua è una merce da comprare anziché un servizio, un diritto che la natura ha dato ad ognuno di noi. Secondo, serve un governo mondiale che scelga la strada della riconversione ecologica dell’economia. Bisogna uscire dall’idea che possiamo continuare ad andare avanti così, magari facendo un po’ di valutazioni di impatto ambientale – per di più eseguite da coloro che inquinano e intortano i dati come vogliono. Ogni volta che rivedo il film “Vajont” o leggo le motivazioni con cui si vuole giustificare questa o quell’opera, per esempio il ponte sullo stretto di Messina, sento risuonare sempre lo stesso rimprovero: ‘sei contro il progresso’. Sei sempre contro il progresso. La misura di quello che sta costando alla collettività quel progresso non viene mai sostanzialmente svelata. Riconversione ecologica significa che qualsiasi oggetto, qualsiasi scelta industriale, territoriale, urbanistica… deve rispondere all’idea che non possiamo continuare a crescere ma anzi dobbiamo decrescere. Deve affermarsi un modello in cui intanto l’ingegno umano ci permetta di fare economie energetiche, ci consenta di consumare la metà dell’energia che serve oggi per far funzionare gli oggetti del benessere, per esempio per scaldare una casa o illuminarla, ma in cui nel contempo cambino gli stili di vita. Per esempio non credo che questo paese possa continuare a pretendere che tutti abbiamo l’automobile o addirittura tre auto, perché non c’entrano più, non c'è più lo spazio. Anche se si disponesse di auto ad idrogeno che non scassano i polmoni perché a emissione zero, rimarrebbero le file sulla via Tiburtina per entrare a Roma e il problema di dove mettere la macchina quando si arriva. Deve essere inventata una grande rivoluzione dei sistemi di vita. Tutto questo passa per la questione di fondo dell’uscita dal petrolio. Dobbiamo mettere in discussione il ‘nostro petrolio quotidiano’. Da una parte dobbiamo ridurre i consumi energetici, in particolare di quelli inefficienti: per esempio è ridicolo installare condizionatori che rinfrescano l’aria in estate con grandi consumi energetici e conseguente inquinamento dell’atmosfera, invece di fare come i nostri nonni che costruivano le case con spesse mura, esposizioni ben studiate, ecc. in modo da avere fresco in estate e caldo di inverno. Dall’altra occorre dare sviluppo alle fonti di energia rinnovabili (sole, vento…). E’ possibile farlo. Il problema risiede nei costi non nella fattibilità, nella maturità raggiunta dalla tecnologica. Per quanto riguarda il problema dei costi, vorrei che gli economisti facessero un atto di onestà: non si può contrapporre il costo di un watt solare con il costo molto minore di un watt da petrolio senza tener conto che il solare è a impatto zero sull’ambiente mentre invece bruciare petrolio inquina l’ambiente con alti costi indiretti per la collettività (aggressione al clima, alla salute). Quindi l’energia pulita va premiata con incentivi oppure i costi veri del petrolio devono essere messi a carico dei petrolieri invece che a carico della cittadinanza. Questi sono argomenti che dobbiamo sviluppare in una discussione che credo si animerà molto in vista delle prossime elezioni. Questa società civile, anche nella sua opposizione alla guerra, deve costruire risposte in positivo ai problemi ambientali. |
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