il paese "fai da te" viaggia in camion



dal manifesto del 20 dicembre 2007  

 Come si muovono le merci

Il paese «fai da te» viaggia in camion
È sbagliato accusare i camionisti per i rincari dei generi alimentari: il costo del trasporto incide molto poco. Ma il modello dell'impresa individuale fa disastri. Mentre il governo attuale ha cancellato gli incentivi al trasporto merci «combinato» strada-rotaia
Sergio Bologna

Nei giorni scorsi, mentre gli autotrasportatori paralizzavano con la loro protesta una parte del pese e costringevano industrie come Fiat e Barilla a fermare gli impianti, sono stato interpellato da diversi organi d'informazione perché esprimessi un giudizio sulla vertenza. Mi sono rifiutato di farlo perché non avevo sottomano sufficienti elementi quantitativi, dei «numeri» da poter proporre alla riflessione.
Tuttavia, ho deciso di uscire dal silenzio di fronte a esternazioni come quelle del Presidente di Confindustria («un paese fai da te»), e soprattutto di fronte alla volgare campagna d'opinione che intende attribuire i rincari di certi generi alimentari ai costi di trasporto.
Che l'Italia fosse un Paese «fai da te» non c'era bisogno che ce lo ricordasse il Presidente di Confindustria, ce lo avevano già fatto capire in maniera più rigorosa le statistiche. Che questa situazione si sia creata in seguito al continuo trasferimento del rischio ai soggetti più deboli lungo una catena di esternalizzazione e di subappalti che ha prodotto un'incredibile miniaturizzazione dell'impresa, lo sapevamo.
Nell'ottobre del 2006 l'Istat aveva reso pubblici i dati sulla distribuzione degli occupati in Italia per classe dimensionale delle imprese, anno 2004. Il 47% della forza lavoro del settore di mercato, pari a 7.683.000 persone, lavorava in imprese al di sotto di 10 dipendenti. Di queste, 6.179.000 lavoravano in imprese che non superano in media i 2,7 dipendenti.
Questa situazione si è riprodotta all'estremo nel settore del trasporto, dove nel 1995, secondo i dati della Confetra, la maggiore organizzazione padronale del settore, su 213.765 imprese attive 137.744 erano imprese «individuali». Dieci anni dopo, su 193.445 imprese attive quelle «individuali» sono 134.749, dunque la loro incidenza sul totale è aumentata.
Quali siano i livelli di reddito in questo settore si può desumere indirettamente dalla tabella in questa pagina (in alto), riportata nell'ultima edizione del «Conto Nazionale Trasporti». Se si tiene conto che il reddito medio annuo lordo di un dipendente spesso è superiore a quello del cosiddetto «padroncino», si ha un'idea della situazione in cui si trovano a vivere e lavorare questi cittadini italiani il cui nastro lavorativo giornaliero può toccare anche le 18 ore (il dipendente, teoricamente, avrebbe un orario di lavoro «normale»).
Un milione di addetti alle merci
Ma la sorpresa maggiore, dalla lettura del «Conto Nazionale Trasporti», viene dai dati sull'occupazione nei diversi segmenti del settore «servizi di trasporto». Quello relativo al trasporto merci su strada nel 2006 contava 686.600 occupati - il 50% dell'intero settore - mentre il segmento della logistica ne contava 323.500, su un totale (passeggeri e merci, aereo, marittimo e ferroviario compresi) di 1.368.300 effettivi, dipendenti e indipendenti. Quindi più di 1 milione di persone sarebbero occupate in Italia a distribuire, manipolare, gestire le merci (molto inferiore la stima degli addetti fatta dall'Ufficio Studi di Confetra: 445.901).
Poiché il «Conto Nazionale Trasporti», da cui abbiamo tratto questi dati, è pubblicato a cura del Ministero dei Trasporti, sarebbe lecito pensare che qualcuno nei corridoi romani si sia preso la briga di leggere queste cifre e magari rifletterci su, se non altro perché si tratta di un universo che rappresenta più dell'80% della forza lavoro occupata nel comparto di competenza del Ministero stesso. Ma non pare che ciò sia avvenuto, anzi. Nei documenti che il Ministero ha lasciato circolare in questi mesi prima di presentare, non più di due mesi fa, la versione definitiva di quelle che vengono definite «Linee Guida del Piano della Mobilità» - finora il più importante atto di programmazione del Governo Prodi in materia di servizi di trasporto - si leggevano frasi del tipo: «Il costo della logistica in Italia pesa sul prodotto industriale per una quota variabile tra il 12 e il 20% con punte del 28% per i prodotti deperibili». Dunque è questa la fonte originaria dell'attuale campagna che attribuisce ai costi di trasporto il rincaro dei prezzi dei generi alimentari sotto Natale?
Ragionando di buon senso, prima di esaminare qualche «numero», si dovrebbe concludere che gli imprenditori italiani sono degli irresponsabili oppure dei generosi dispensatori di beni alla collettività - se fossero vere le cifre contenute nel documento del Ministero. Se infatti l'incidenza dei costi logistici sul prodotto fosse del 20%, in Italia l'inflazione dovrebbe salire a due cifre, per l'aumento dei prezzi dei generi di consumo dovuti ai costi della distribuzione. Invece l'inflazione non ha un andamento anomalo nel nostro paese, si mantiene abbastanza sui valori medi europei. Non solo: è generata soprattutto dai prezzi e dalle tariffe praticate dai settori protetti, i quali, com'è noto, hanno un'incidenza dei costi logistici sul fatturato a dir poco ridicola.
Per rispondere alle accuse di essere i primi responsabili dei rincari, Assotir, un'Associazione di autotrasportatori - esclusa dal tavolo delle trattative - ha prodotto delle cifre che qui citiamo, con l'avvertenza che non abbiamo potuto sottoporle a verifica. Secondo l'Assotir l'incidenza del costo del trasporto per unità di vendita va da un massimo del 4,19% per una lattuga proveniente dall'area di Salerno e venduta in un supermercato di Milano a un minimo di 0,95% per dei pomodori pelati venduti al supermercato di Roma (mentre per gli stessi venduti a Milano l'incidenza è di 1,90%). Per le acque minerali l'incidenza è del 3,97% - compreso il ritorno a vuoto - e per una carne d'agnello proveniente dall'Irlanda e venduta al supermercato a Milano è dell'1,58%.
In attesa che queste cifre vengano smentite, noi continueremo a pensare che quei lavoratori, in gran parte autonomi, costretti a stare decine di ore al giorno al volante in un traffico sempre più caotico, grazie ai quali l'apparato produttivo e distributivo di questo paese può funzionare, rappresentano ancora uno dei segmenti del lavoro più sfruttati e disprezzati.
Ma poiché in Italia il grottesco non ha limiti, prima di concludere vorrei ricordare alle anime belle che nei giorni del fermo dei camionisti si sono chieste «perché le merci non viaggiano sul treno?», che un anno fa questo governo, con un tratto di penna, ha abrogato gli incentivi al trasporto di merci su ferrovia (cosiddetto trasporto «combinato» strada-rotaia), erogati dal governo Berlusconi dopo una lunga trattativa con l'Unione Europea, in ottemperanza al Piano Generale dei Trasporti e della Logistica che era stato elaborato dai governi di centro-sinistra e approvato dal Parlamento. Come dire: il centro-sinistra ha remato contro se stesso.
Voci più autorevoli di quelle di Montezemolo avevano messo a nudo i disastrosi effetti che la miniaturizzazione dell'impresa ha prodotto sulla produttività del lavoro.
Chi si lamenta del «Paese fai da te»
Ricordiamo che, parlando agli studenti dell'Università di Roma «La Sapienza» nel novembre del 2006, il Governatore della Banca d'Italia, Draghi, aveva affermato: «Dalla metà dello scorso decennio la produttività del lavoro aumenta in Italia di un punto percentuale l'anno meno che nella media dei paesi dell'Ocse. Questo fenomeno è alla radice della crisi di crescita e di competitività che il paese vive. (....) Vi si è aggiunto però un deterioramento delle condizioni di efficienza complessiva del sistema economico. Lo sintetizza la recente riduzione del livello di produttività totale dei fattori, caso unico tra i paesi industriali» (la sottolineatura è mia).
Il 25 maggio scorso, in una relazione presentata all'Associazione Italiana Economisti del Lavoro, il professor Tronti, dirigente dell'Istat, ha presentato la tabella che riproduciamo in questa pagina: il crollo della produttività oraria nelle dimensioni qui riportate è un fenomeno unico tra i paesi industriali.
Questa è la drammatica anomalia del sistema italiano, dovuta in gran parte alla lunga stagnazione delle retribuzioni di fatto e alla struttura dimensionale delle imprese. Dal 1995 il valore aggiunto per occupato in Italia cala in maniera pressoché costante e precipita nel 2005/2006.
Aggiunge il professor Tronti nella sua relazione: «Quando esperti, politici e rappresentanti delle parti sociali parlano di produttività, la intendono quasi sempre come un problema che nasce fuori dai cancelli delle fabbriche e dagli uffici: deficenza di infrastrutture, carenza di qualità dell'istruzione, inefficienza della Pubblica amministrazione, regole poco flessibili nel mercato del lavoro.
Tuttavia, un voluminoso filone di studi documenta che i fattori interni all'impresa prevalgono nettamente su quelli esterni. Secondo un importante studio americano (Black e Lynch, Economic Journal, 2004), la crescita annua dell'1.6% nella produttività totale dei fattori delle imprese americane è riconducibile nella misura dell'1,4% (equivalente all'89%) alla riorganizzazione dei luoghi di lavoro e alle nuove pratiche di lavoro».
Mentre l'universo della microimpresa - cioè il settore più debole, «il fai da te» - negli ultimi anni traina la domanda di lavoro e i ritmi occupazionali (il 50% è attribuibile al settore delle costruzioni), il «nocciolo duro» del sistema d'impresa italiano, quelle 2.010 imprese di successo analizzate dalla ricerca Mediobanca-Unioncamere del 2006, ha ridotto «ininterrottamente» il proprio personale nel decennio 1996-2005.
La media impresa italiana, protagonista involontaria della retorica del made in Italy, ha un'incidenza assai modesta sull'insieme del fatturato. L'economia italiana si regge sui settori protetti e sulle rendite (Enel, Eni, Telecom, banche, assicurazioni), non certo sull'impresa che compete sui mercati internazionali.
Salari bassi, famiglie indebitate
Il 26 ottobre 2007, intervenendo a Torino al Congresso della Società Italiana degli economisti, il Governatore Mario Draghi ha affermato, tra l'altro: «Nel confronto internazionale, i livelli retributivi sono in Italia più bassi che negli altri principali paesi dell'Unione europea. Secondo dati dell'Eurostat relativi alle imprese dell'industria e dei servizi privati nel 2001-02, la retribuzione media oraria era, a parità di potere d'acquisto, di 11 euro in Italia, tra il 30 e il 40 per cento inferiore ai valori di Francia, Germania e Regno Unito. (...) Le differenze salariali rispetto agli altri paesi sono appena più contenute per i giovani, si ampliano per le classi centrali di età e tendono ad annullarsi per i lavoratori più anziani. Il differenziale è minore nelle occupazioni manuali e meno qualificate».
Non è da meravigliarsi quindi se il reddito disponibile pro capite in Italia ristagna. E nell'ultimo numero del «Bollettino Economico» della Banca d'Italia si ricorda che dal 2003 al 2007 l'indebitamento delle famiglie italiane è passato dal 13% al 49%. Che abbiano tutti fatto un mutuo per la casa?
Aspettiamo i consuntivi dello shopping natalizio per vedere se gli italiani hanno tanti o pochi soldi da spendere, se ormai si sono «americanizzati» e s'indebitano fino al collo pur di mantenere lo standard di consumi da fare invidia al vicino oppure sono tornati alle antiche pratiche sparagnine.
Ma se non dovessero spendere, non date la colpa ai camionisti.
 
da liberazione del 19 dicembre 2007


"Padroncini"
il lavoro autonomo
di seconda generazione
su strada


Gerardo Marletto*

Chi sono gli animatori delle proteste dei camionisti che ogni anno, tra novembre e dicembre, vengono minacciate e talvolta messe in atto, anche con forme particolarmente dure? Formalmente si tratta di lavoratori autonomi alla guida del proprio camion: imprese individuali, dunque. In passato sono stati quasi tutti dipendenti di grandi e medie imprese, nella maggior parte di autotrasporto, ma ci sono stati anche casi di imprese industriali e della distribuzione commerciale che hanno esternalizzato camion e autisti. Nella maggior parte dei casi il "padroncino" lavora per un solo committente, del quale in molti casi porta persino il logo sul camion.
Forzando la mano si potrebbe dire che anche i "padroncini" fanno parte di quella schiera di lavoratori "autonomi di seconda generazione" identificata qualche anno fa da Sergio Bologna: non sono e non vogliono tornare ad essere lavoratori dipendenti, ma con i dipendenti condividono la posizione economica subalterna rispetto alle controparti. E se c'è subalternità c'è bisogno di tutele, che però non possono essere quelle tipiche dei dipendenti (il contratto nazionale, i minimi salariali, ecc.).
In questo senso appaiono del tutto fondate alcune richieste degli autotrasportatori. La prima è avere delle tariffe minime che pongano un limite alla forza contrattuale dei committenti; le tariffe minime c'erano fino a poco tempo fa e sono state abolite in omaggio alla liberalizzazione del mercato dell'autotrasporto. A me non pare sbagliato reintrodurle, prevedendo anche un meccanismo di adeguamento automatico alle variazioni del prezzo del gasolio e dei pedaggi autostradali. Ma gli autotrasportatori hanno chiesto anche altre modifiche, che danno la misura della situazione in cui si trovano ancora oggi: l'obbligo del contratto scritto (sì, perché oggi la forma prevalente è quella orale, per telefono…), la responsabilità oggettiva del committente (così se il camionista viene multato perché non rispetta i tempi di riposo, la colpa è anche del committente che gli ha chiesto una consegna impossibile), il documento di trasporto per tracciare l'intera filiera (per rendere trasparente la catena dei sub e sub-sub affidamenti), l'assistenza istituzionale per la stipula dei contratti di settore (una sorta di contratto-quadro per ogni tipo di merce).
Sono, lo ripeto, richieste assolutamente sensate, cui questa maggioranza di centro-sinistra dovrebbe dare risposte definitive. Non solo per prevenire forme di protesta inaccettabili, ma anche per evitare di "regalare" alla destra rivendicazioni legittime.
Su un punto però non si dovrebbe transigere: quello dei sussidi. Occorre cioè smettere di sostenere la sopravvivenza dei camionisti con forme, più o meno camuffate, di aiuto economico a carico della collettività. Anche perché, a ben vedere, i sussidi sono lo strumento per rendere sostenibili tariffe di trasporto bassissime, a tutto vantaggio non dei "padroncini", che continuano a vivere sempre ai limiti del suicidio economico, ma delle loro controparti: le imprese industriali e della distribuzione e le grandi imprese di autotrasporto. A questo proposito non posso fare a meno di denunciare il comportamento strumentale delle grandi imprese di autotrasporto che ogni anno si accodano alle proteste perché così prendono "due piccioni con una fava": si intascano la loro quota parte di sussidi e possono continuare a sotto-pagare i "padroncini" loro sub-fornitori.
Si tratta dunque di far salire di livello l'accordo con i "padroncini": vi togliamo i sussidi (sul gasolio, sui pedaggi e su quant'altro) e vi diamo degli strumenti di tutela che vi consentiranno di spuntare tariffe più alte dalle controparti, facendo così salire il vostro reddito.
Il che avrebbe un senso anche in termini più generali di politica dei trasporti e dell'ambiente: salirebbe (finalmente) il costo dell'autotrasporto e diventerebbero relativamente più convenienti le modalità di trasporto meno inquinanti (l'intermodalità, la ferrovia, il mare). E usciremmo anche dalla follia attuale in cui si sussidia tutto: l'autotrasporto e le modalità alternative all'autotrasporto.
Un'ultima notazione. Se aumenta a dismisura, come sta accadendo, la quantità di chilometri che mediamente percorre ogni merce che consumiamo, a poco serve passare dalla strada alla ferrovia o al mare: il risultato è comunque l'aumento dell'inquinamento e del consumo di energia. Sarebbe meglio allora cominciare a considerare il consumo di prodotti locali, il cosiddetto "ciclo corto", uno strumento non solo di valorizzazione delle economie e delle culture locali, ma anche di riduzione dell'impatto ambientali dei trasporti. Lo ricordava Petrini, fondatore di "Slow food", su La Repubblica di giovedì; credo che si debba essere d'accordo.
*Università di Sassari