Rosee prospettive all'orizzonte



Bologna, 21/11/2007
Gentili compagne/i,
per diversi anni ho contribuito alla comune analisi ed 

elaborazione politico-istituzionale della società italiana, con 

interesse per le dinamiche della pubblica amministrazione ed i 

percorsi burocratici.
Come altre persone attive nel volontariato ho constatato il 

progressivo deterioramento ed indebolimento dei poteri delle 

funzioni pubbliche, venendo a mancare al compito di comprensione 

della memoria collettiva e disperdendo esperienze già acquisite.
Mentre usurpava compiti individuali nelle scelte etiche, la 

pubblica amministrazione privatizzava gli strumenti industriali 

necessari a sostenere le politiche economiche di uguaglianza e 

parità e le garanzie costituzionali; inoltre esternalizzando lo 

svolgimento dei servizi sociali, impoveriva le retribuzioni dei 

lavoratori residenti.
L'enormità di denaro consumata dalle amministrazioni statali e 

dalle aziende di servizi per correggere gli effetti di leggi 

sbagliate e disumane, ci da la misura dei cambiamenti da attuare 

e delle possibilità intercorse.
Vi propongo un elenco consequenziale di ostacoli da risolvere:
1) imperialismo meccanicistico e disarmo;
2) tecnologie e fonti energetiche sostenibili;
3) diritti umani e reciprocità;
4) libertà civili e differenze;
5) garanzie economiche e accesso alle risorse;
6) tempi distesi e condivisi;
7) visibilità e salute;
8) abrogazione dei sistemi di controllo;
9) ridefinizione delle discriminazioni e pregiudizi.

Questi elementi definiscono una prospettiva di convivenza e di 

liberazione per tutti gli abitanti del pianeta, ma, nel nostro 

contesto continentale europeo, essi dovrebbero trovare 

riconoscimento nelle norme nazionali e comunitarie affinché si 

consolidi una felice fratellanza e si liberino risorse 

rigeneratrici dell'umanità.

Grazie per i commenti,
Pancaldi Pierpaolo.

______________________________________________________________La misura della felicità 
Data di pubblicazione: 04.11.2007

Autore: Ruffolo, Giorgio 

Diventa concreta un´alternativa al PIL sviluppista? Sarebbe ora. 

Da la Repubblica del 4 novembre 2007 

Sociologi, statistici e governanti sono tutti d´accordo: il 

Prodotto interno lordo non è più in grado di rappresentare il 

benessere delle nazioni. Il problema è con che cosa sostituirlo. 

Molti ci riflettono da tempo; adesso un convegno organizzato 

dalla Ue a Bruxelles sembra preparare una svolta anche 

istituzionale 
Il tema della felicità non è nuovo nella storia del pensiero 

economico. Economisti classici come Stuart Mill hanno spiegato 

come la felicità non consista nell´abbondanza delle cose, ma 

nella loro qualità. In Italia Antonio Genovesi e Pietro Verri 

definirono alla fine del Settecento l´economia politica come «la 

scienza della pubblica felicità». 
Di recente il tema è stato riproposto partendo da un dibattito 

promosso da Richard Easterlin sul «paradosso della felicità», e 

cioè sulla scarsa correlazione tra reddito e felicità, sia nello 

spazio (all´interno di ogni Paese o tra Paesi) sia nel tempo. 

Contributi particolarmente seri sono stati offerti da sociologi 

ed economisti come Daniel Kahneman e Richard Layard, e in Italia 

da Stefano Zamagni, Luigino Bruni e da altri economisti della 

Università della Bicocca di Milano. 
A che cosa si deve questa riapparizione in una disciplina 

tuttora dominata dall´economicismo ultra? Questo paradosso è 

spiegato in più modi. Con l´aumento delle aspirazioni, che 

annulla l´aumento del piacere (dell´utilità, avrebbe detto 

Bentham). Con l´effetto dell´invidia e della rivalità, che fa 

dipendere la felicità propria da quella degli altri, in un 

continuo inseguimento. 
Mentre questi fattori impediscono che all´aumento del reddito si 

accompagni un proporzionale aumento della felicità, non si dà 

spazio sufficiente al "consumo" di beni relazionali e cioè a 

quelli che ci arricchiscono gratuitamente. Come nello scambio 

delle idee: se ci scambiamo un dollaro, ciascuno resta con un 

dollaro; se ci scambiamo un´idea, ciascuno resta con due idee. 
Dobbiamo però chiederci anzitutto perché quel tema è per tanto 

tempo impallidito. Ai suoi primordi la scienza economica si 

occupava di società che col nostro metro giudicheremmo povere e 

ristagnanti, nelle quali i problemi della allocazione e della 

distribuzione ottimale delle risorse prevalevano su quelli dello 

sviluppo. Con la rivoluzione industriale l´economia 

dell´Occidente è stata investita da un´onda di crescita, tranne 

alcune pause critiche, praticamente continua. Nelle società 

coinvolte dalla crescita quantitativa dei beni prodotti sul 

mercato, dopo secoli, anzi millenni di ristagno era 

comprensibile che il concetto di benessere fosse associato con 

la quantità di beni disponibili. 

Dopo due secoli di crescita quantitativa, però, è emersa una 

specie di nausea della crescita. Dappertutto, i sondaggi sul 

grado di felicità delle persone rivelano che la felicità non 

cresce più con l´aumento della produzione. A partire grosso modo 

dagli anni Settanta del secolo scorso le due curve, quella della 

quantità di beni disponibili, misurata dal Pil (Prodotto interno 

lordo) e quella della felicità, misurata da indagini condotte 

sull´umore dei singoli individui, si sono separate. La prima ha 

continuato a crescere, la seconda è diventata piatta. La ragione 

sta nella differenziazione dei bisogni, dei costi e dei gusti 

tipica di una società complessa, la quale non può essere 

riflessa in un indice rozzamente quantitativo che ci dice 

soltanto quanti beni sono stati prodotti e consumati nel 

mercato. 

Detto nei termini più semplici possibile, l´ormai famigerato Pil 

comporta tre ordini di gravi difetti. Primo: somma solo i beni 

prodotti nel mercato, quindi esclude quelli forniti nelle 

relazioni gratuite tra le persone, nelle famiglie o nelle 

comunità, mentre conteggia come beni i mali che sono prodotti e 

consumati nel mercato (droga, guadagni criminali, sfruttamento 

della prostituzione, consumo irreversibile dell´ambiente, 

inquinamento, effetto serra eccetera). Secondo: non dà alcuna 

importanza al modo, più o meno equo, col quale i beni sono 

distribuiti. Nel Pil vige la legge di Trilussa: due polli a me, 

nessuno a te, dunque un pollo a testa. Terzo: non dà valore ai 

beni forniti dalla natura, che considera dissennatamente 

gratuiti e dei quali fa scempio, distruggendo in pochi mesi 

risorse accumulate per tre miliardi di anni e trattando (peccato 

singolare per un economista) il capitale naturale come se fosse 

un reddito. 

C´è un quarto "difetto" cui abbiamo accennato, che però non 

dipende da come è costruito il Pil, ma da come si sta 

trasformando l´economia capitalistica. Il mercato è sempre più 

trascinato dalla pressione competitiva che investe non solo la 

produzione ma, attraverso la pubblicità, anche i consumi, verso 

i cosiddetti consumi "posizionali" o competitivi: quelli che non 

esprimono bisogni originali ma bisogni che dipendono da quelli 

altrui. Si tratta di bisogni per loro natura insaziabili, che 

generano infelicità. Un esempio? Lo prendiamo da una divertente 

vignetta del famoso disegnatore Steinberg pubblicata tanto tempo 

fa dal New Yorker. Era composta di scene successive, Nella prima 

lui, uscendo di casa in bicicletta, vede il suo vicino uscire 

dal garage su una utilitaria. Nella seconda lui esce con una 

utilitaria, ma il vicino con un´auto poderosa. Nella terza lui 

esce trionfante, affrontando un traffico congestionato, con una 

ingombrante e costosa auto; ma il vicino scorre via sereno 

attraverso il traffico su una bicicletta, Qui l´impulso mimetico 

è diretto e circolarmente frustrante. Se ci si mette la 

pubblicità, è moltiplicato per mille. 

Insomma, man mano che «la crescita cresce», crescono i suoi 

sprechi e le sue magagne che si riflettono in un Pil bugiardo 

come misura della felicità. Queste magagne e questi sprechi 

emergono e sono percepiti sempre più diffusamente, grazie anche 

al contributo di economisti non ossessionati dalla crescita e 

non contaminati da tendenze apologetiche verso il potere. 

Dobbiamo quindi abbandonare il Pil? Come dice un libro recente, 

«depilarci»? (Depiliamoci, di Maurizio Pallante, Editori 

Riuniti). Alcuni autorevoli economisti, come Amartya Sen, col 

suo Indice dello sviluppo umano adottato dalle Nazioni Unite e 

come Herman Daly con il suo Indice dell´economia sostenibile, si 

sono provati a "depilarlo", depurandolo dalle sue più evidenti 

insensatezze. Sforzi meritori che tuttavia incontrano la 

difficoltà insita nel sostituire, quando i conti del Pil 

risultano manifestamente infondati, i prezzi del mercato con dei 

prezzi "imputati". L´inconveniente è evidente: i prezzi di 

mercato sono, con tutte le loro storture, realtà oggettive. Gli 

altri sono giudizi soggettivi, quindi opinabili. 

E allora? C´è chi propone di sostituire il Prodotto interno 

lordo con la Felicità interna lorda: il Pil con la Fil. Per 

esempio il re del Bhutan, un piccolo Paese asiatico dove mancano 

l´acqua potabile e i diritti civili. In quel caso, la felicità 

coincide con quel che ne pensa il re. 
C´è poi chi tenta di misurare oggettivamente la felicità con 

metodi artigianali (per esempio, infilare la mano del "paziente" 

nell´acqua calda: pare che i più felici resistano di più) oppure 

con calcoli neurologici e psicologici sofisticati che danno 

luogo a certe graduatorie, esibite senza vergogna. Secondo 

Andrei Oswald, per esempio, la frequenza dei rapporti sessuali o 

un matrimonio solido sono "quotati" 100mila dollari all´anno, 

mentre un lutto di famiglia "vale" una perdita di 245mila 

dollari. C´è una quotazione per un sorriso, e un´altra per una 

preghiera. Così, i prezzi del mercato sono sostituiti dai prezzi 

Oswald. Meglio i primi! La lettura di questi testi può essere, 

in termini di felicità, deprimente. Si rischia di simpatizzare 

con Wilfredo Pareto che respingeva decisamente ogni confronto 

tra diverse felicità (lui diceva utilità). 

Pure, il problema resta. Come si fa a valutare, diciamo meno 

enfaticamente, il benessere di una società senza incorrere 

nell´arbitrarietà degli esperti o del re del Bhutan? Secondo me, 

in due modi. Primo, rinunciando a una misura unica. Non si può 

ridurre il benessere a un numero. Esso è costituito da una serie 

di fattori irriducibili meccanicamente l´uno all´altro. Bisogna 

tenere separati questi fattori - ambiente, sicurezza, salute 

eccetera, - misurandoli con altrettanti indici specifici, come 

fanno le Nazioni Unite con il loro Isu. Secondo, affidando la 

scelta ottimale tra le loro possibili combinazioni, non agli 

statistici, ma al giudizio politico democratico. 

Non esiste infatti un optimum di felicità eguale per tutti i 

Paesi, da scoprire. Può invece esistere una combinazione di 

fattori di benessere diversa per ciascun Paese, da scegliere. In 

tal caso, la misura del benessere-felicità, diventa, non una 

constatazione "positiva", ma una scelta "normativa". Non un 

dato, ma un obiettivo. Ogni Paese dovrebbe scegliere 

democraticamente il suo quadrante di felicità, valido per un 

certo periodo, costituito da una combinazione di traguardi che 

darebbero senso a una discussione politica che lo sta perdendo. 

Il giudizio se stia meglio l´Italia o l´Inghilterra non sarebbe 

possibile come lo è tra squadre in un campionato, secondo un Pil 

insignificante. Sarebbe esso stesso un giudizio discutibile. 

Niente però potrebbe impedire a entità sovranazionali, come 

l´Unione europea, di mettersi d´accordo su un quadrante comune. 

Anzi, questo sarebbe il miglior modo di perseguirla.