genova città dei bisogni collettivi e non più delle mercificazioni



Genpova citta' dei bisogni collettivi e non piu' delle mercificazioni
 
La nostra città vive da anni una gravissima crisi di identita' , l'abbandono e l'incuria a cui i nostri amministratori l'hanno condannata, hanno modificato la stessa percezione che gli abitanti hanno del suo paesaggio, del territorio che abitano e i livelli di possibilita' di soddisfare i bisogni di sopravvivenza va di pari passo coi livelli di sicurezza che a Genova sono sempre piu' in caduta libera.
 
E' a tutti evidente che la nostra città è una realta' in cui l'incolumita' personale, nelle strade, nei giardini, nelle stesse case è negli anni decaduta a variabile impazzita , certo non di piu' che in passato, ma in maniera diversa. Se fino a ieri si moriva di epidemie, di fame, di povertà oggi si muore di fumi degli scappamenti - 600 morti all'anno - , di solitudine, di incidenti sul lavoro e automobilistici, non si muore di piu', forse anche nei numeri di meno , si muore in modo diverso. E' ciò è nondimeno un costo inaccettabile per tutti.
La Genova che amiamo è una città nella quale il cittadino e i cittadini convivono ( mentre in precedenza il villaggio di campagna , il feudo erano caratterizzati come comunità chiuse  con un forte controllo sociale in cui lo straniero, il diverso era immediatamente individuato e controllato ).
L'identità culturale e storica di Genova è da sempre cosmopolita, aperta all'incontro e allo scambio, il mercato è la ragione della sua nascita della sua sopravvivenza , del suo futuro  in una praticaa di incontro e scambio con l'altro, col diverso, col forestiero.
Genova ha sempre saputo incontrare l'altro, inserirlo nelle sue dinamiche trasformare l'apertura, il cosmopolitismo da rischio a risorsa e ciò ne ha sempre fatto e sempre fara' la sua ricchezza. 
Ma le cose sono diverse, non siamo piu' la citta' che eravamo, perchè la contaminazione con l'altro dia i suoi frutti abbiamo bisogno di una vita sociale ricca e di luoghi dove questa vita possa esprimersi liberamente.
Bisogna che la città sin nella sua fisicità abbia i luoghi dove esprimere le sue potenzialità, luoghi in cui sia possibile la partecipazione alla vita collettiva, lo stare insieme, l'incontrarsi per parlarsi, conoscersi trovare insieme soluzioni condivise, tutto quello che il progressivo decadimento della nostra città ha reso difficile e in alcune zone impossibile.
L'emblema di questo decadimento sono le piazze e le vie che da luogo d'incontro sono diventati rumorosi e puzzolenti luoghi dell'isolamento più totale, ognuno nella sua scatoletta di metallo senza possibilità di parlare col vicino , una umanità sottoposta al dominio delle macchine e del consumo.
La nostra città e' diventata per la maggior parte dei cittadini un aggregato di case , una città marittima in cui i cittadini non vedono anzi sono esclusi dal mare , una città verde che si è mangiata lo spazio e la terra a favore di una interminabile successione di capannoni, una città in cui gli spazi pubblici sono in gran parte scomparsi come tali in una rappresentazione virtuale in cui i cittadini da liberi uomini e donne che si muovono e incontrano negli spazi pubblici sono diventati dei consumatori incanalati dalla pubblicità nei percorsi obbligati del consumo - a pagamento -.
Ed ecco la trasformazione che stiamo vivendo, la città da luogo delle opportunita' , da luogo dove ottimizzare il soddisfacimento dei bisogni collettivi e personali a luogo della coartazione , della virtualità, della massificazione, una città da cui difendersi in cerca di luoghi dove rinchjudersi e sognare un mondo che non c'è in improbabili rifugi in cui imprigionarsi a porte blindate e sprangate.
La casa, il luogo del privato, non si apre più verso la strada e la piazza, verso l’esterno. Il vicinato non è più un valore ci siamo fatti rinchiudere in una volontaria segregazione individuale e individualistica.
 
Se gli spazi collettivi sono stati privatizzati e quelli che restano sono diventati luoghi di passaggio per andare altrove o luoghi dove si va per comperare o per consumare il rito passivo degli spettacoli ciò non è avvenuto a caso  ma è frutto della contaminazione profonda delle coscienze e della cultura che il mercato globale ha operato sui corpi e sulle intelligenze di tutti noi.
Tutto questo è stato possibile anche grazie a una visione culturale che ha pervaso gran parte dei nostri amministratori e li ha fatti pigri veicoli al servizio della triade finaza mattone logistica e che ha permesso una massiccia privatizzazione del suolo urbano utilizzato come come principale veicolo di arricchimento della triade.
 
La vicenda degli standard urbanisti è emblematica in questo senso perchè chiarisce in maniera esemplare l'andamento del processo di deriva della polis nella nostra città.
La definizione degli standar urbanistici è frutto di una legge particolarmente proiettata nel futuro che negli anni sessanta ha vincolato l'edificabilità alla determinazione delle quantità minime di spazi pubblici o di uso pubblico, espresse in metri quadrati per abitante, che devono essere riservati nei piani, sia generali che attuativi. Lo standard è un valore minimo, considerato come livello di dotazione obbligatorio e come soglia minima al di sotto della quale non si può considerare soddisfatto il disposto normativo.
Per molti anni, in Italia, nei piani urbanistici nei quali si definisce il futuro della città gli spazi pubblici sono stati considerati dei residui, scampoli di terra poco utilizzabili per altri usi, localizzazioni spesso marginali. Nei casi migliori, lotti della lottizzazione edilizia, uguali a tutti gli altri. Nessuna attenzione alla quantità dello spazio necessario né alla sua accessibilità, nessuna attenzione alla centralità che i luoghi dell’interesse pubblico dovrebbero avere, come hanno sempre avuto nei momenti felici della storia della città.
Questa è indubbiamente una conseguenza del fatto che la città moderna è diventata il luogo dell’individualismo, il piano regolatore è diventato lo strumento per la regolazione e la valorizzazione della rendita fondiaria, gli interessi comuni sono stati relegati ai margini. E cio' ha determinato i ghetti di Voltri e Rivarolo, le problematicità del Biscione e di Quarto alta in cui per far quadrare i conti si sono utilizzate le scarpate, gli spartitraffico, i luoghi più marginali come spazi pubblici ed è cosi' che ne scuole ne parchi ne presidi sanitari ne luoghi di aggregazione culturale sono stati previsti ed attuati nei nuovi quartieri collinari sottratti al verde per un falso bisogno abitativo ( in una città a decremento di popolazione  e con quasi trentamila alloggi vuoti ) e nulla di cio' si sta prevedendo per i quartieri a nuova immigrazione - in primis a Sampierdarena.
Quella meta' abbondante di territorio che la legge del 67 attribuiva e vincolava ad uso collettivo al pubblico è stata individuata in montagna o nei luoghi impossibili e interi quartieri costruiti per altro in aree verdissime sono stati consegnati al cemento e al degrado con l'infinita successione di variati di destinazione d'uso. Anche la perla molto reclamizzata del centro storico, del porto antico, dei palazzi dei rolli è diventato pretesto per la triade per fare speculazione e affari, interi quartieri storici fondanti per l'identità della città sono stati consegnati alla speculazione fondiaria e evirati dalla pulsante vita meticcia che ne ha fatto per secoli la ricchezza,in una successione infinita di bar e ristoranti senza alcuna pianificazione, senza alcun servizio, nessun cittadino del centro storico è stato tutelato nell'operazione porto antico, semplicemente sono stati espulsi dal degrado pretestuoso delle immobiliari che hanno costruito e costruiscono nuove case per un abitante diverso. I poveracci a Voltri e a Begato, i nuovi ricchi nelle case rimesse a nuovo con i finanziamenti pubblici, le telecamere e i guardiani privati a tutela della sicurezza.

Nel 1967 fu introdotto per legge (con la “legge ponte” urbanistica”)  l’obbligo di prevedere, in tutti i piani urbanistici, una determinata quantità di aree da destinate alla costituzione di spazi pubblici: dalle scuole ai parchi, dalle attrezzature sanitarie a quelle culturali e religiose, dai parcheggi ai mercati. L’esigenza che fino allora veniva soddisfatta con qualche brandello strappato alla speculazione fondiaria diventava una parte consistente della città: circa metà del suolo urbano doveva essere destinato agli usi collettivi, doveva diventare pubblico.
Ma il caso di Genova è emblematico nella sua più recente storia amministrativa danni gravissimi ha procurato al tessuto sociale cittadino e alla sua vivibilità lo strumento urbanistico approvato nel duemila che ha letteralmente regalato alla proprietà fondiaria e alla speculazione immobiliare e finziaria i terreni piu' belli e appetibili della città trasformati da aree vincolate a verde e servizi in aree edificabili senza alcuna ragione possibile se non farorire i veri padroni della città. E se non bastasse negli anni successivi senza alcuna reale giustificazione si è proceduto con la prassi del trasferimento di volumi , altro veicolo predisposto dall'amministrazione che ha favorito la edificazione massiccia nelle aree verdi piu' pregiate del levante cittadino e non bastante lo strumento predisposto, con il costante ricorso alle varianti di destinazione d'uso approvati pedissequamente da una maggioranza consiliare prona ai diktat della giuta - vedi Acquasola , villa Rosa, mercato di Corso Sardegna, Erzelli, aree di Cornigliano ecc.ecc- .
Siamo arrivati al limite che in barba alla legge e agli strumenti democraticamente varati dagli organi pubblici gli amministratori degli enti si sono affidati al di fuori di qualsiasi regola e legge  ( s'intende in forma assolutamente bipartisan )  alla " visione "  di un architetto geniale fin che si vuole ma a cui è stato delegato un ruolo di supervisore degli atti pubblici, di consigliere di indirizzo in materia urbanistica ( senza aver mai fatto in carriera un piano urbanistico ) pronti a piegare le proprie scelte amministrative - faticosissimamente approvate - alle visioni di chi si è mosso senza minimamente tener conto delle vincolati opzioni previste negli strumenti urbanistici vigenti , anzi stravolgendoli in una cultura del bello iper massemiaticizzato che nulla ha a che fare - come del resto in gran parte delle sue piu' acclarate progettazioni - con la partecipazione , la socialità, i vincoli che la civiltà liberale di cui siamo i continuatori ha posto all'ingordigia e al narcisismo dei pochi.
 
La totale mancanza negli amministratori e nei tecnici comunali di una cultura della cosa pubblica ha trasformato l'obbligo di legge degli standar burocratici in un mero adempimento burocratico , un pedaggio da pagare e non uno strumento essenziale  per la progettazione di una città per i cittadini tutti che resta, unica grande città del nord senza un regolamento del verde pubblico e privato.
 
Sono convinto che la nostra citta' debba finire di essere considerata una preda che viene misurata in cubature edificabili e che debba tornare ad essere bella e vivibile per tutti,  in cui lo spazio pubblico sia luogo di aggregazione e di scambio, in cui i bisogni collettivi - e non gli egoismi personali e il profitto di pochi - siano la stella polare delle scelte dell'amministrazione che fin qui dichiarandosi pronta per una " nuova stagione " ha fatto atti riconducibili ai dettami culturali e politici della e delle amministrazioni che l'hanno preceduta.
 
I molti anni di impegno sociale che hanno contraddstinto la mia vita mi hanno privato di molte illusioni ma certo non mi hanno tolto la speranza e il convincimento che un mondo migliore sia possibile e che anche per Genova si possa pensare un destino diverso da quello a cui gli ultimi lustri di amministrazioni asservite alla speculazione ci hanno incamminato.
 
Ma certo ci vuole coraggio, ma certo ci vogliono idee, ma certo ci vogliono amministratori che sappiano intraprendere nuove strade uscendo dai percorsi banalmente e colpevolmente ritualizzati in subordine alla cultura del profitto dei pochi .
 
andrea agostini