[Prec. per data] [Succ. per data] [Prec. per argomento] [Succ. per argomento] [Indice per data] [Indice per argomento]
il lavoro non è piu' sintomo di progresso
- Subject: il lavoro non è piu' sintomo di progresso
- From: "ANDREA AGOSTINI" <lonanoda at tin.it>
- Date: Mon, 1 Oct 2007 06:30:33 +0200
Richard Sennett: «Il
lavoro
non è più sinonimo di progresso» A colloquio con il sociologo americano, studioso del nuovo capitalismo e delle conseguenze che esso produce sugli individui Al centro delle sue analisi concetti quali frammentarietà e flessibilità, forze erosive nei processi di identità legati al lavoro Martino Mazzonis Richard Sennett è senza dubbio uno dei sociologi
più acuti e brillanti del nostro tempo. Americano di Chicago, classe 1943,
fondatore nel 1975 del New York Institute for the Humanities (di cui è stato
direttore fino al 1984), è attualmente professore di sociologia presso la London
School of Economics e sociologia e storia alla New York University. Da anni è
impegnato su temi legati alla vita urbana e al lavoro, da cui ha sviluppato
teorie sociali incentrate sulle ripercussioni che il nuovo capitalismo ha
comportato, e continuano a produrre, sulla vita degli individui. Nel suo L'uomo
flessibile (Feltrinelli, 2001) - non a caso diventato un classico del pensiero
sociologico contemporano - affronta fattori quali routine, flessibilità,
mobilità, rischio, fallimento ed etica del lavoro, spiegando come essi agiscano,
con forza corrosiva, sulle personalità e sugli stili di vita individuali e, di
conseguenza, sul processo di acquisizione identitaria. Ma l'analisi di Sennett
non si ferma al singolo soggetto, estendendo il cosiddetto "declino dell'uomo
pubblico" anche al crollo della coscienza di classe e dell'influenza dei
sindacati, causato proprio da una crescente difficoltà nel costruire rapporti
interpersonali all'interno di un mondo del lavoro, nonché della capacità critica
e di azione della politica e, in particolar modo, della sinistra.
Professor Sennett, perché secondo lei a partire dagli anni 80 e 90 il lavoro ha smesso di essere l'emblema, o comunque un elemento fondante, dell'idea di progresso? Perché è venuta meno la distinzione tra lavoro
manuale e intellettuale. Gran parte delle attività intellettuali infatti sono
cambiate al punto da somigliare sempre più al lavoro manuale. La perdita di
competenze dei colletti bianchi è un effetto dello sviluppo tecnologico. Posso
sbagliarmi, ma credo che più il lavoro è dequalificato più l'idea di fare del
lavoro un elemento costituente del progresso perda di efficacia.
Negli anni 80 e 90 abbiamo assistito a una grande innovazione da parte del capitale. Come giudica il fulcro di questa cambiamento? E' andato riconfigurandosi completamente il tempo
dedicato al lavoro: dal lavoro di una vita si è passati a una vita costruita su
fasi di lavoro a breve e medio termine. La classe lavoratrice, e ancora di più i
colletti bianchi, si è dovuta adattare alla new economy e alle dinamiche del
mercato globale. Con ovvie conseguenze sulla struttura del lavoro. Intervistando
alcuni pendolari di Londra, ho avuto modo di verificare le ansie generate da un
tempo di lavoro che, compresi i trasporti, dura 11 ore al giorno, di una vita
familiare o degli affetti e di una quotidianità difficili da gestire. Senza
contare che ciò accade in un contesto che non è più quello urbano di
cinquant'anni fa - con la famiglia, il quartiere a fare da paracadute - e senza
la forza dei sindacati del 900 (che in Gran Bretagna funzionavano molto come
strutture di Mutuo soccorso, ndr ). Nei miei libri cerco di spiegare le
conseguenze di tutto questo.
Sarebbero? La prima è la frammentazione. Ci sono conseguenze
sui tempi, ovviamente sull'accorciamento della durata di un'occupazione; ma c'è
anche una fortissimo impatto sulle capacità e le competenze di un individuo.
Siamo stati abituati a pensare che le competenze di una persona crescessero e si
accumulassero in maniera lineare: più diventi capace in una determinata
attività, più sei sicuro di te stesso e costruisci la tua identità sulla base di
quell'esperienza. Tutto ciò risulta insufficiente a comprendere il processo
lavorativo oggi. La deburocratizzazione e la decostruzione di processi
determinati e stabiliti ha eliminato l'idea dell'accumulo delle proprie capacità
costruite un mattone sull'altro. Invece di concentrare la nostra attenzione
sulla trasformazione del lavoro, sulla disoccupazione e sulla semi occupazione,
credo bisogna ragionare sulla frammentazione delle capacità e delle abilità
delle persone, sull'ansia della mancanza di luoghi dove costruirne. Definire
questa società "delle competenze" mi permette di individuare meglio in quanti
ambiti la frammentazione renda difficile usare le competenze come strumento di
costruzione di un percorso di vita.
Nel corso degli anni 90 la sinistra e i sindacati sono stati spesso accusati di difendere gli interessi delle forze conservatrici. Trova questa descrizione esatta o c'è dell'altro? Trovo frustrante - e lo dico da individuo più che
da ricercatore - l'incapacità della sinistra di individuare in alcune forme del
lavoro contemporaneo ambiti su cui intervenire politicamente. Le faccio un
esempio: i sindacati raramente si preoccupano della ricerca, come ad esempio la
tecnologia, che rimane settore di attività per le imprese. Consiglierei a un
sindacato metalmeccanico: investite su un laboratorio di ricerca che brevetti
nuove tecnologie, perché così lavorereste con alcuni strumenti fondanti del
nuovo capitalismo, in forme però che tornino davvero utili agli interessi dei
lavoratori. Non so cosa avviene in Italia, ma nel mondo anglosassone i sindacati
continuano a rappresentare le singole categorie, invece di diventare punto di
riferimento per le migliaia di persone che passano da un lavoro all'altro o per
coloro il cui bagaglio di competenze non funziona più nel settore d'impiego. Ma
non è questo il passo che stiamo facendo, rimaniamo chiusi nel vecchio paradigma
marxista di conflitto con il capitale, anziché di autogestione e di creazione di
un mondo del lavoro indipendente dalle offerte delle imprese. I sindacati
mostrano arretratezza su questo punto, non hanno colto i processi del nuovo
capitalismo. Il Labour britannico, ad esempio, non parla più del lavoro perché i
sindacati appaiono come una struttura che resiste al cambiamento e non crea
trasformazione. Negli Stati Uniti, al contrario, alcuni sindacati di donne
colletti bianchi stanno tentando di affrontare la trasformazione sperimentando
strumenti paralleli, come darsi una mano a vicenda nel cambio di lavoro o
fornire servizi che lo Stato o i datori di lavoro non danno. In Europa siamo
paralizzati dall'idea che il conflitto è l'unico strumento di rafforzare i
lavoratori. Bisogna superare le forme tradizionali di proprietà e utilizzare
alcune delle risorse del capitalismo contemporaneo, come la flessibilità o lo
sviluppo tecnologico, per tentare di dare ai lavoratori esperienze di vita più
lineari e sostenibili.
Abbandonata l'età industriale, su quali strumenti della partecipazione bisogna puntare in vista di questa rifondazione? Nel caso italiano credo che la sinistra pecchi di
immaginazione, impegnata più nella resistenza e poco nella creazione di
alternative. Capisco sia difficile intervenire in una situazione malata che non
fa altro che peggiorare, ma mi colpisce anche la cattiva qualità della nuova
generazione di manager italiani se comparata ai finlandesi, ai britannici e agli
svedesi. La crisi manageriale è un segnale del declino del capitalismo italiano,
ed è un brutto problema per la sinistra, perché si trova di fronte a un
capitalismo malato, molto potente e duro da combattere. In Gran Bretagna il
capitalismo è più dinamico ed è più facile ottenere vittorie. Lavoro e ricchezza
non mancano, chiedere e ottenere forme di redistribuzione è più semplice e
possibile. La situazione italiana è molto diversa: in una società in crisi è più
difficile per i movimenti delle sinistra innovare e ottenere
risultati.
|
- Next by Date: farmaci killer per bambini allarme in usa
- Next by thread: farmaci killer per bambini allarme in usa
- Indice: