il lavoro non è piu' sintomo di progresso



Richard Sennett: «Il lavoro
non è più sinonimo di progresso»


A colloquio con il sociologo americano, studioso del nuovo capitalismo e delle conseguenze che esso produce sugli individui
Al centro delle sue analisi concetti quali frammentarietà e flessibilità, forze erosive nei processi di identità legati al lavoro


Martino Mazzonis
 
Richard Sennett è senza dubbio uno dei sociologi più acuti e brillanti del nostro tempo. Americano di Chicago, classe 1943, fondatore nel 1975 del New York Institute for the Humanities (di cui è stato direttore fino al 1984), è attualmente professore di sociologia presso la London School of Economics e sociologia e storia alla New York University. Da anni è impegnato su temi legati alla vita urbana e al lavoro, da cui ha sviluppato teorie sociali incentrate sulle ripercussioni che il nuovo capitalismo ha comportato, e continuano a produrre, sulla vita degli individui. Nel suo L'uomo flessibile (Feltrinelli, 2001) - non a caso diventato un classico del pensiero sociologico contemporano - affronta fattori quali routine, flessibilità, mobilità, rischio, fallimento ed etica del lavoro, spiegando come essi agiscano, con forza corrosiva, sulle personalità e sugli stili di vita individuali e, di conseguenza, sul processo di acquisizione identitaria. Ma l'analisi di Sennett non si ferma al singolo soggetto, estendendo il cosiddetto "declino dell'uomo pubblico" anche al crollo della coscienza di classe e dell'influenza dei sindacati, causato proprio da una crescente difficoltà nel costruire rapporti interpersonali all'interno di un mondo del lavoro, nonché della capacità critica e di azione della politica e, in particolar modo, della sinistra.

Professor Sennett, perché secondo lei a partire dagli anni 80 e 90 il lavoro ha smesso di essere l'emblema, o comunque un elemento fondante, dell'idea di progresso?
Perché è venuta meno la distinzione tra lavoro manuale e intellettuale. Gran parte delle attività intellettuali infatti sono cambiate al punto da somigliare sempre più al lavoro manuale. La perdita di competenze dei colletti bianchi è un effetto dello sviluppo tecnologico. Posso sbagliarmi, ma credo che più il lavoro è dequalificato più l'idea di fare del lavoro un elemento costituente del progresso perda di efficacia.

Negli anni 80 e 90 abbiamo assistito a una grande innovazione da parte del capitale. Come giudica il fulcro di questa cambiamento?
E' andato riconfigurandosi completamente il tempo dedicato al lavoro: dal lavoro di una vita si è passati a una vita costruita su fasi di lavoro a breve e medio termine. La classe lavoratrice, e ancora di più i colletti bianchi, si è dovuta adattare alla new economy e alle dinamiche del mercato globale. Con ovvie conseguenze sulla struttura del lavoro. Intervistando alcuni pendolari di Londra, ho avuto modo di verificare le ansie generate da un tempo di lavoro che, compresi i trasporti, dura 11 ore al giorno, di una vita familiare o degli affetti e di una quotidianità difficili da gestire. Senza contare che ciò accade in un contesto che non è più quello urbano di cinquant'anni fa - con la famiglia, il quartiere a fare da paracadute - e senza la forza dei sindacati del 900 (che in Gran Bretagna funzionavano molto come strutture di Mutuo soccorso, ndr ). Nei miei libri cerco di spiegare le conseguenze di tutto questo.

Sarebbero?
La prima è la frammentazione. Ci sono conseguenze sui tempi, ovviamente sull'accorciamento della durata di un'occupazione; ma c'è anche una fortissimo impatto sulle capacità e le competenze di un individuo. Siamo stati abituati a pensare che le competenze di una persona crescessero e si accumulassero in maniera lineare: più diventi capace in una determinata attività, più sei sicuro di te stesso e costruisci la tua identità sulla base di quell'esperienza. Tutto ciò risulta insufficiente a comprendere il processo lavorativo oggi. La deburocratizzazione e la decostruzione di processi determinati e stabiliti ha eliminato l'idea dell'accumulo delle proprie capacità costruite un mattone sull'altro. Invece di concentrare la nostra attenzione sulla trasformazione del lavoro, sulla disoccupazione e sulla semi occupazione, credo bisogna ragionare sulla frammentazione delle capacità e delle abilità delle persone, sull'ansia della mancanza di luoghi dove costruirne. Definire questa società "delle competenze" mi permette di individuare meglio in quanti ambiti la frammentazione renda difficile usare le competenze come strumento di costruzione di un percorso di vita.

Nel corso degli anni 90 la sinistra e i sindacati sono stati spesso accusati di difendere gli interessi delle forze conservatrici. Trova questa descrizione esatta o c'è dell'altro?
Trovo frustrante - e lo dico da individuo più che da ricercatore - l'incapacità della sinistra di individuare in alcune forme del lavoro contemporaneo ambiti su cui intervenire politicamente. Le faccio un esempio: i sindacati raramente si preoccupano della ricerca, come ad esempio la tecnologia, che rimane settore di attività per le imprese. Consiglierei a un sindacato metalmeccanico: investite su un laboratorio di ricerca che brevetti nuove tecnologie, perché così lavorereste con alcuni strumenti fondanti del nuovo capitalismo, in forme però che tornino davvero utili agli interessi dei lavoratori. Non so cosa avviene in Italia, ma nel mondo anglosassone i sindacati continuano a rappresentare le singole categorie, invece di diventare punto di riferimento per le migliaia di persone che passano da un lavoro all'altro o per coloro il cui bagaglio di competenze non funziona più nel settore d'impiego. Ma non è questo il passo che stiamo facendo, rimaniamo chiusi nel vecchio paradigma marxista di conflitto con il capitale, anziché di autogestione e di creazione di un mondo del lavoro indipendente dalle offerte delle imprese. I sindacati mostrano arretratezza su questo punto, non hanno colto i processi del nuovo capitalismo. Il Labour britannico, ad esempio, non parla più del lavoro perché i sindacati appaiono come una struttura che resiste al cambiamento e non crea trasformazione. Negli Stati Uniti, al contrario, alcuni sindacati di donne colletti bianchi stanno tentando di affrontare la trasformazione sperimentando strumenti paralleli, come darsi una mano a vicenda nel cambio di lavoro o fornire servizi che lo Stato o i datori di lavoro non danno. In Europa siamo paralizzati dall'idea che il conflitto è l'unico strumento di rafforzare i lavoratori. Bisogna superare le forme tradizionali di proprietà e utilizzare alcune delle risorse del capitalismo contemporaneo, come la flessibilità o lo sviluppo tecnologico, per tentare di dare ai lavoratori esperienze di vita più lineari e sostenibili.

Abbandonata l'età industriale, su quali strumenti della partecipazione bisogna puntare in vista di questa rifondazione?
Nel caso italiano credo che la sinistra pecchi di immaginazione, impegnata più nella resistenza e poco nella creazione di alternative. Capisco sia difficile intervenire in una situazione malata che non fa altro che peggiorare, ma mi colpisce anche la cattiva qualità della nuova generazione di manager italiani se comparata ai finlandesi, ai britannici e agli svedesi. La crisi manageriale è un segnale del declino del capitalismo italiano, ed è un brutto problema per la sinistra, perché si trova di fronte a un capitalismo malato, molto potente e duro da combattere. In Gran Bretagna il capitalismo è più dinamico ed è più facile ottenere vittorie. Lavoro e ricchezza non mancano, chiedere e ottenere forme di redistribuzione è più semplice e possibile. La situazione italiana è molto diversa: in una società in crisi è più difficile per i movimenti delle sinistra innovare e ottenere risultati.