la pensione che non ci aspetta



  dal manifesto 28 giugno 2007
 
 Welfare, la pensione che non ci aspetta
Viaggio nel 2035, quando l'emergenza sarà quella delle pensioni basse. Cifre e proposte dal Rapporto sullo stato sociale. Il black out della formazione
Roberta Carlini

Un intervento del fisco per aiutare i pensionati futuri - i giovani di oggi - e fare in modo che non sia solo a loro carico l'equilibrio il sistema pensionistico. E' una delle proposte contenuta nelle conclusioni del Rapporto sullo stato sociale 2007, curato dall'economista Roberto Pizzuti e promosso dal Dipartimento di Economia Pubblica della Sapienza e dal Criss, e presentato ieri mattina nel primo ateneo romano. Un Rapporto che, ormai da qualche anno, fornisce cifre e valutazioni sullo stato delle cose, consentendo al dibattito - fisso fino all'ossessione sul tema pensioni - di librarsi un po' in alto e occuparsi di tutto il nostro welfare: che è fatto di pensioni sì, ma anche di una sanità che arranca, di un'istruzione che sforna un numero relativamente basso di diplomati e laureati, di una formazione continua del tutto insufficiente. E che è inserito in un mercato del lavoro molto flessibile e un contesto di garanzie molto discriminatorio: dunque, assai lontano dal modello in voga della danese flexicurity, per carenza di security più che di flexy.
Per tutti o per pochi?
Prima di entrare nel dettaglio dei numeri, il Rapporto si interroga sull'approccio di fondo al welfare state: deve garantire prestazioni e diritti per tutti, oppure solo a chi non può far da sé, dunque ai bisognosi? Universalismo o selettività? L'alternativa, sempre discussa dai fautori dei diversi modelli, è qui analizzata sulla scorta della teoria economica, che dimostra l'inefficienza del modello della selettività e i suoi fallimenti di fronte all'asimmetria delle informazioni. Allo stesso risultato si giunge se si analizzano i dati concreti sulle esperienze fatte di prestazioni «selettive», scelte spesso più che per la loro validità ed efficienza per problemi finanziari o organizzativi dell'intervento pubblico. Che viene anche analizzato nelle sue modalità, soprattutto in campo sanitario: vedendo come la «libertà di scelta» in nome della quale si sono creati dei «quasi mercati» privati ha finito per portare a un aumento della spesa anziché una sua riduzione. Controcorrente, il Rapporto argomenta della superiorità del «quasi monopolio» pubblico rispetto ai «quasi mercati» privati.
I numeri della spesa
La spesa sociale italiana, con un rapporto del 26% sul prodotto interno lordo, si colloca, nel suo complesso, leggermente al di sotto della media europea ( 27,3%). Ma se si va a guardare la spesa pro capite si scende, dato che, fatta pari a 100 la media europea, la spesa sociale per ciascun italiano è pari a 81. Quanto alla sua composizione, il dato più spesso sottolineato nel dibattito corrente è quello della prevalenza della spesa per pensioni: la voce «vecchiaia e superstiti» copre il 15,4% del Pil, una percentuale più alta della media europea e dei paesi a noi più vicini. Però, sottolinea il Rapporto, questo dato va interpretato, tenendo conto del fatto che vi si conteggia impropriamente il Tfr, che è considerato al lordo del prelievo fiscale, che risente della mai risolta commistione tra previdenza e assistenza. Un confronto più omogeneo è possibile, se si tiene conto di queste obiezioni, e permette alla fine di vedere una spesa italiana - mettendo insieme vecchiaia, invalidità, superstiti e disoccupazione - abbastanza in linea con quella europea.
L'emergenza pensioni
La lingua batte dove il dente duole, e dunque sui problemi del riequilibrio del sistema pensionistico il Rapporto insiste molto; ma capovolgendo l'emergenza. Dopo le riforme il grado di copertura della pensione rispetto all'ultima retribuzione si è ridotto drasticamente e ancor più si ridurrà in futuro: dunque, in vista c'è un esercito di pensionati poveri, la cui condizione sarà particolarmente dura per cui ha lavorato in forma atipica. Prendiamo a riferimento l'anno 2035: un lavoratore dipendente che andrà in pensione a 60 anni di età e 35 di contributi avrà una pensione pari al 48,5% dell'ultima retribuzione; potrà avere qualcosa in più - il 64% - se andrà in pensione a 65 anni con 40 di contributi. Sempre nell'anno 2035, un lavoratore parasubordinato che andrà in pensione con 60 anni di età e 35 di contributi avrà una pensione pari al 37% dello stipendio, che salirà al 53% nell'ipotesi di 40 anni di contributi e i 65 di età. Ma, com'è evidente dando uno sguardo alla giungla flessibile dei contributi parasubordinati, l'ipotesi che tra un cocopro e l'altro si raggiungano 40 anni di contributi appare assai azzardata, per ottimismo.
Dunque il meccanismo del contributivo ha già fortemente cambiato i connotati del sistema pensionistico; per di più, la revisione dei coefficienti - dei quali oggi si discute - mette a carico dei futuri pensionati ogni cambiamento demografico-attuariale: cioè, se si prevede che si vivrà di più, si abbasseranno quei numeretti. Una situazione che porta alla proposta prima accennata: fiscalizzare in tutto o in parte il riequilibrio dei coefficienti, spalmando sull'intera collettività l'onere dell'invecchiamento: una fiscalizzazione totale, si legge nel Rapporto, costerebbe 1 miliardo nel 2020, 6 miliardi nel 2030, 10 miliardi nel 2035. L'alternativa è rassegnarsi a un esercito di pensionati poveri. Oppure contare sull'integrazione della previdenza complementare, come ha fatto il governo italiano da ultimo con la riforma del Tfr. Qui gli autori del Rapporto non nascondono tutto il loro scetticismo: riguardo ai piani pensionistici privati, per l'elevato peso dei costi di gestione; quanto ai fondi negoziali, si spiega che si può contare su un alto rendimento solo assumendosi un elevato grado di rischio nella gestione del capitale. Si calcolano invece gli effetti di una proposta già avanzata da Pizzuti ed entrata anche nel dibattito politico, ossia quella di consentire ai lavoratori di usare il Tfr per incrementare la propria pensione pubblica: ne verrebbe fuori un aumento del tasso di sostituzione (il rapporto tra pensione e retribuzione) di 10 punti.
Più flexy che security
Ma lo stato sociale non è fatto solo di pensioni, anche se proprio nel punto debole della previdenza si mette a nudo la grande spaccatura che lo attraversa: quella tra chi è dentro e chi è fuori, con le enorme conseguenze della precarietà non solo su livelli di vita, stipendi e pensioni future - e nel Rapporto ci sono i dati aggiornati su queste grandezze - ma sull'accesso alle garanzie del welfare. Un'asimmetria che rende non importabile in Italia, secondo gli autori del Rapporto, il sistema danese della flexicurity. Il Rapporto non contesta i numeri di quell'esperimento: la disoccupazione scesa dal 10 al 3%, in assenza di conseguenze negative su inflazione, bilancia dei pagamenti e bilancio pubblico. Però, come nel caso delle nostre pensioni, non si può vedere il singolo pezzo del welfare senza guardare il contesto macroeconomico che lo influenza: nel caso danese, su tale contesto ha inciso, nel periodo in cui si varavano le riforme «micro», politiche della domanda volte alla crescita e un contesto culturale e istituzionale erede di un modello fortissimo di stato sociale. E, pur con tutte queste differenze che rendevano la Danimarca più forte nell'affrontare il nuovo modello, va registrato il fatto che un'espulsione dal mercato del lavoro di persone meno in grado di riqualificarsi c'è stata.
E qui veniamo al capitolo più interessante, anche se apparentemente marginale, quello della formazione continua: la possibilità di formarsi e qualificarsi nel corso di tutta la vita, detta con termine inglese life-long-learning. Nella media dell'Unione europea (a 25), la percentuale di popolazione che partecipa a istruzione e formazione è stata nel 2005 del 10,2%. Nella media: giacché la Danimarca della flexisecurity ha un 27,4%, il Regno unito il 27,5%, la Svezia il 32,1. Per l'Italia, non solo è più bassa - 5,8% - ma è addirittura scesa: nel 2004 eravamo a 6,3%.