Bruno
Bosco* Che l’Italia abbia un rapporto debito/pil molto alto, in
assoluto oltre che relativamente ad altre economie, è pacifico. Che un
“declassamento” di tale debito possa, in teoria, indurre aggiustamenti di
portafoglio su scala internazionale è possibile. Che ciò induca un rialzo
dei tassi d’interesse interni è invece fortemente discutibile, e infatti
ciò non è praticamente avvenuto dopo l’abbassamento del rating sui titoli
italiani da parte di due colossi del settore.
Infatti gli aggiustamenti di portafoglio dovrebbero essere
quantitativamente elevati per produrre l’effetto in questione; il che vuol
dire che, in grande misura, essi dovrebbero avvenire senza alcun costo di
transazione (tasse incluse) e senza alcun rischio valutario per movimenti
fuori dall’area euro. In secondo luogo, anche in presenza di aggiustamenti
significativi, l’effetto sui tassi dipende fortemente dalla cosiddetta
“struttura per scadenza” del debito e - grazie ad alcune, oculate
politiche del passato - i titoli italiani sono in modo preponderante a
lungo termine.
Il “declassamento” non porta quindi alcuna nuova freccia all’arco dei
sostenitori della politica dell’abbattimento rapido, massiccio (circa 10
punti percentuali, stando all’impostazione generale seguita dal governo) e
costi-quel-che-costi del rapporto debito/pil. E non irrobustisce la loro
critica alla linea di politica economica implicita nell’Appello degli
economisti per la stabilizzazione di quel rapporto.
Lo ha efficacemente argomentato Emiliano Brancaccio (Liberazione, 24
ottobre), il quale ha posto anche la seguente questione chiave: per quale
ragione escludiamo che politiche economiche restrittive, quali quelle dei
tagli indiscriminati o automatici alla spesa, non esercitino una pressione
finale sui tassi di interesse ancora maggiore di quella presuntamene
esercitata da quelle politiche più espansive rese possibili dalla linea
della stabilizzazione?
Se i mercati incorporano nelle loro aspettative una riduzione della
crescita italiana (o anche solo delle sue potenzialità) l’effetto
prevedibile sulle aspettative formulate circa l’andamento temporale del
rapporto debito/pil e le sue conseguenze sui tassi sarebbe forse ancora
più negativo. Quindi, i timori che vengono adombrati dopo il declassamento
del debito italiano sono per lo meno esagerati.
Negli attacchi alla linea sostenuta dai sottoscrittori dell’appello vi
sono però degli elementi di riflessione che rischiano di passare in
secondo piano. Ciò sarebbe un male e, pertanto, proverò a raccoglierli e
discuterli per sommi capi.
Un primo elemento è dato dall’attacco alla spesa pubblica cosiddetta
“improduttiva”, ovvero l’attacco agli sprechi mosso dai critici
dell’Appello. Spreco è un uso eccessivo di risorse rispetto al risultato
conseguito (spreco di input) o un minor risultato rispetto al livello
tecnicamente possibile a parità di risorse impiegate (rinuncia all’output
possibile). Temo che il settore pubblico (ma anche quello privato)
italiano abbondi di sprechi di questo genere, anche se in moltissimi casi
è impossibile definire e misurare input e output. Non voglio fare degli
esempi perché la mia argomentazione procede dando ragione alla tesi
critica dell’Appello e quindi assumo che sia così.
Non ne ricavo però una ragione a favore di tagli automatici. Se un
contadino scoprisse che alcuni cani dormono mentre le faine gli rubano le
galline, non gli servirebbe a nulla ridurre automaticamente il numero
totale dei cani e, men che meno, quello delle galline. La cosa migliore da
fare sarebbe quella di ristudiare il rapporto efficiente tra cani e
galline dati i pollai da sorvegliare, e magari incentivare i cani a stare
svegli.
Per i grandi istituti del welfare italiano le cose stanno, fuor di
metafora, negli stessi termini. Proporre tagli senza un’idea accurata su
input, tecniche ed output, motivandoli con la riduzione del rapporto
debito/pil, significa rovesciare il rapporto tra obiettivi e vincoli in un
processo di massimizzazione. I vincoli all’azione pubblica non possono
trasformarsi in obiettivi: prima si definisce cosa vogliamo che diventino
(o che rimangano) i grandi istituti del welfare e poi, tenendo conto anche
in senso intertemporale dei vincoli finanziari, valutiamo in che misura
possono essere ottenuti gli obiettivi.
Pensano forse i critici dell’appello che il mercato soddisferebbe
meglio le esigenze rispetto a come può farlo l’azione pubblica? Ovvero che
il government failure sia più costoso del market failure? Forse i critici
pensano che i trasporti locali miglioreranno se metteremo all’asta le
concessioni? Che giudizio danno i critici dei risultati finali delle
privatizzazioni di tutte o quasi le grandi utilities pubbliche italiane?
Perché non avviamo una discussione su queste cose?
In secondo luogo i critici chiedono tagli cosiddetti strutturali
subito, ovvero in finanziaria. Non li si può accontentare perché la legge
finanziaria non è lo strumento adatto allo scopo. La finanziaria dovrebbe
prima o poi tornare ad essere lo strumento che nelle intenzioni dei
legislatori del 1978 doveva essere, ossia un puro e semplice ponte tra un
bilancio dello stato e quello dell’anno successivo. Adesso è l’atto
fondamentale della politica economica di breve termine, ma ciò è un male.
Mi spiego: supponiamo di aver già fatto il lavoro analitico di cui
parlavo sopra. La fase attuativa deve procedere attraverso strumenti di
legislazione ordinaria, come fatto nel 1995, nel bene o nel male, per le
pensioni. Fare i tagli strutturali in finanziaria significa far rientrare
dalla finestra ciò che è uscito dalla porta, ovvero mettere il vincolo di
bilancio al primo e forse unico posto e sottomettere l’azione parlamentare
all’assillo dell’esercizio provvisorio.
In terzo luogo i critici sembrano sottovalutare le esigenze di
redistribuzione del reddito della fase attuale. Purtroppo anche una parte
di spesa “improduttiva” serve a tale scopo e se la eliminiamo dalla sera
alla mattina comprimiamo ancora di più anche molti consumi popolari,
quelli fatti da persone che consumano prevalentemente beni di produzione
nazionale e non concorrono a peggiorare la bilancia commerciale. Imposte,
spesa assistenziale e tariffe vanno certamente riviste e nessuno chiede un
aumento generale della pressione fiscale per finanziare trasferimenti a
chi non ne avrebbe diritto. Anche in questo caso, però, e tenendo conto
dell’impatto redistributivo delle eventuali manovre, occorre applicare il
metodo della valutazione analitica e di merito, istituto per istituto, e
non quello dei tagli automatici.
Più in generale, tra gli economisti che contestano l’Appello sembra
prevalere l’idea che uno spostamento generalizzato di risorse dal settore
pubblico (variamente inteso) a quello privato sia cosa utile alla
crescita, perciò ben vengano persino i tagli. Penso che il nodo vero sia
questo ed è un male che resti inespresso. Anche in questo caso
bisognerebbe avere la serenità per avviare un confronto nel merito. Per
fare riforme utili alla crescita occorrono tempo, risorse e capacità di
direzione. La politica dell’abbattimento del rapporto debito/pil non ci
fornisce né l’uno né le altre.
Se si cercasse di forzare una politica di revisione strutturale
dell’azione del settore pubblico dentro la gabbia delle politiche di
bilancio restrittive si otterrebbe solo conflittualità sociale. L’opzione
offerta dalla proposta di stabilizzazione del rapporto debito/pil appare
invece più adatta perché ci dà il tempo necessario per correggere ciò che
va corretto dell’azione pubblica, non ci toglie le risorse da usare per lo
sviluppo e la redistribuzione e ci dà la possibilità di valutare senza
pregiudizi in quali termini costruire il rapporto tra settore pubblico e
settore privato.
*Università di Milano Bicocca
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