il tfr non va in pensione



dal manifesto del 20 Aprile 2007

Il Tfr non va in pensione
Gli italiani restano affezionati alla vecchia liquidazione. Secondo i dati di una ricerca di Assogestioni, solo un terzo dei lavoratori dipendenti aderirà alla previdenza complementare: per i fondi pensione l'età dell'oro è lontana
R. C.

Buon vecchio Tfr, resta con noi. Mentre parte la campagna tv del governo sulla riforma del trattamento di fine rapporto e impazzano gli spot di fondi e assicurazioni private, i primi dati dicono che la gran parte dei lavoratori italiani è alquanto riluttante al cambiamento. Secondo l'Osservatorio sulla previdenza complementare di Assogestioni, a tre mesi dall'entrata in vigore della riforma solo un lavoratore su quattro ha già comunicato al proprio datore di lavoro la scelta relativa alla destinazione del Tfr futuro: e tra questi i due terzi hanno deciso di lasciare la liquidazione in azienda, non aderendo dunque alla previdenza completementare. E anche tra coloro che devono ancora esprimere la propria scelta la quota che andrà ai fondi (negoziali o aperti) non è maggioritaria. La voglia di avere un gruzzoletto cash a fine rapporto, dunque, sembra prevalere su quella di farsi una seconda pensione integrativa.
La platea interessata dalla riforma è quella dei lavoratori dipendenti: 9,5 milioni di persone. Sui cui comportamenti per ora si hanno solo dati a campione: come quelli dell'Osservatorio di Assogestioni, che riunisce tutti i gestori di risparmio. La seconda rilevazione dell'Osservatorio, resa nota ieri, fornisce una mappa dei comportamenti di chi ha già optato e di chi deve ancora esprimere la sua scelta, per la quale c'è tempo fino al 30 giugno. Secondo l'Osservatorio, finora 17 lavoratori su 100 hanno scelto di mantenere il Tfr in azienda, 8 su 100 hanno optato per i fondi negoziali chiusi (quelli di categoria), mentre percentuali molto piccole sono andate finora ai fondi aperti (0,6%), e ai Pip e Fip (piani pensionistici assicurativi: lo 0,3%). Tutti gli altri - 74 su 100, 7 milioni di persone - devono ancora scegliere. Ma anche a costoro sono state chieste le intenzioni, e ne è venuto fuori il seguente risultato: il 36% dichiara di voler lasciare il Tfr in azienda, il 16% di volerlo destinare ai fondi negoziali, il 6% ai fondi aperti, il 7% preferisce i Fip e Pip. La restante quota (2%) dichiara di non voler far nulla: ma va detto che la legge prevede, nel caso in cui non sia esplicitamente data alcuna indicazione, scatterà il «silenzio-assenso», per cui il Tfr maturando andrà ai fondi negoziali di categoria, se previsti dal contratto collettivo del settore in cui si lavora.
Se il principale scopo della riforma era quello di spingere gli italiani verso la previdenza integrativa - anche e soprattutto in previsione della riduzione della copertura delle pensioni pubbliche -, al momento l'obiettivo non appare centrato. E non certo per ignoranza dei lavoratori. Sempre secondo Assogestioni, la percentuale di coloro che dichiarano di conoscere la riforma è del 96% - e si arriva al 99% per le aziende con più di 50 dipendenti e al 100% per i lavoratori tra i 31 e i 41 anni. Tra i giovani la conoscenza della riforma è un po' minore.
Quanto alle ragioni della mancata comunicazione, l'Osservatorio ne individua diverse: il 51% degli intervistati dichiara di non aver ancora ricevuto sufficienti informazioni per decidere, mentre il 20% semplicemente sta aspettando che si avvicini la scadenza. Nel frattempo, i lavoratori sono alla ricerca di maggiori informazioni utili per compiere la scelta: se la metà degli intervistati dichiara di aver chiesto indicazioni, le fonti più accreditate per fornirle sembrano essere i sindacati e il datore di lavoro. Non a caso è proprio verso questi ultimi che si sta orientando la pressione del marketing dei gestori di risparmio, perché indirizzino i propri lavoratori verso questo o quel fondo. Si muovono i gestori, le banche, le assicurazioni: proprio ieri è stata siglato un accordo tra il gruppo Intesa San Paolo e la Compagnia delle Opere per promuovere una forma di previdenza complementare presso le aziende e le organizzazioni associate alla CdO.
Tornando all'indagine di Assogestioni: se le tendenze finora emerse saranno confermate, alla previdenza integrativa andrà il 40% della torta del Tfr. Il 60% resterà nelle liquidazioni. Il che non vuol dire che tecnicamente resterà, nella gestione finanziaria, alle imprese: secondo quanto stabilito dalla riforma, prenderà due strade diverse a seconda che si tratti di lavoratori di imprese al di sotto dei 50 dipendenti o al di sopra. Per le prime, tutto resterà come era, cioè saranno le imprese a gestire il Tfr. Mentre le imprese con più di 50 dipendenti dovranno «girarlo» all'apposito fondo dell'Inps, destinato al finanziamento delle infrastrutture pubbliche. Un nuovo «tesoretto» dunque, che il governo ha già destinato alle grandi opere.

I fondi pensione non tirano: gli ultimi dati indicano che solo una minoranza dei lavoratori ha optato per l'affidamento dei propri soldi ai fondi negoziali. Ancora minore è il numero di chi sceglie i fondi aperti che le compagnie di assicurazione e le banche stando cercando di lanciare alla grande. Secondo i dati più recenti, nel primo trimestre dell'anno le nuove adesioni ai fondi negoziali sono state meno di 63 mila. Ancora meno i lavoratori che hanno optato per i fondi aperti: secondo una stima de il sole-24 ore meno di 26 mila li hanno scelti. Eppure entro fine giugno milioni di lavoratori dovranno scegliere a chi far gestire i propri soldi. E la scelta principale è se lasciarli in azienda - che poi trasferirà il Tfr all'Inps - o cercare di costruirsi una rendita integrativa puntando su un fondo.
Negli ultimi anni i rendimenti dei fondi hanno mediamente superato quello del trattamento di fine rapporto, complice il buon andamento dei mercati borsistici. Però non sono tutte rose e fiori. Se prendiamo il fondo negoziale più diffuso - Cometa, al quale a fine 2006 avevano aderito circa 315 mila - scopriamo che lo scorso anno i rendimenti sono oscillati, a seconda della gestione più o meno prudente, tra l'1% del comparto sicurezza e il 4,82% del comparto crescita. Questo significa che chi ha scelto di non correre rischi, ha portato a casa 2 punti di rendimento in meno rispetto a quello del Tfr. In generale tutte le gestioni che non trasformano i lavoratori in supporter del mercato borsistico, si rivalutano meno del trattamento di fine rapporto. E nei prossimi anni se la borsa tirerà il fiato, anche le gestioni più «audaci» non daranno soddisfazione ai lavoratori.
I fondi pensione sono una «patacca». Per farli decollare (ma seguitano a volare molto basso) è stato necessario introdurre una tassazione di favore rispetto al Tfr e cercare di rimpolparli un po' con i versamenti integrativi delle aziende. Che ovviamente non rinunciano ai soldi dei lavoratori gratis. Insomma, la scelta più sicura rimane quella del classico Tfr che alla scadenza del rapporto di lavoro offre un capitale sicuro anziché, come per i fondi, una rendita che diminuisce di molto se vogliamo che sia reversibile. In ogni caso ognuno è libero di scegliere, ma la scelta va fatta: se scatta la clausola del silenzio-assenso e i soldi vengono automaticamente dirottati al fondo negoziale, il datore di lavoro è autorizzato a non versare il contributo supplementare previsto da tutti gli accordi di categoria. Una ulteriore beffa.