il vero problema della citta' abitare



da eddyburg.it     

Abitare è difficile

Il vero problema delle città: abitare
Data di pubblicazione: 18.04.2007

In due articoli del 18 aprile 2007, di G.Fiorentini dal Corriere della Sera, e di T. De Berlanga dal manifesto, al centro il tema della casa in città, di chi non ce l'ha, e cosa si potrebbe fare ma non si fa (f.b.)

Giorgio Fiorentini, Abitare a Milano, Il Corriere della Sera ed. Milano, 18 aprile 2007

Si può abitare a Milano in vari modi. Stefano Boeri, nel suo libro «Milano. Cronache dell'abitare», li elenca in modo caleidoscopico: abitare in una baraccopoli, in un letto per migranti, in una casa per anziani, per studenti, in un centro d'accoglienza e via via fino alle isole residenziali e ai «ghetti di lusso» dove tutti i servizi sono «su misura». Su questi modi di abitare si possono fare due considerazioni: difficilmente creano coesione e inclusione sociale e i prezzi delle case (e degli affitti) sono troppo cari.
Per risolvere il primo problema bisognerebbe superare le diversità che creano separazioni. Penso che la Milano dell'Expo 2015 debba investire fortemente nello spalmare le diverse etnicità nel tessuto connettivo di tutta la città. Tentando di rompere i ghetti o le aree monoetniche; magari creando una miscellanea di offerta di servizi in sintonia con le varie diversità e già orientati alla prospettiva delle seconde generazioni degli immigrati. Altrimenti si creerà una forza centrifuga che espellerà i meno abbienti salvo piccole enclave di abitazioni di sussidiarietà e di badantismo per la popolazione anziana.
Ma il «caro prezzi d'acquisto» delle case e il «caro affitti» sono l'altra realtà socialmente dirompente per Milano. Anche questa ostacolo alla coesione e all'inclusione sociale. A Milano dal 2001 al 2005 i prezzi delle case sono aumentati circa del 50%. Queste barriere di prezzo rischiano di ridimensionare la progettualità virtuosa per un welfare equamente distribuito. Una via, parziale ma concreta, per superare il caro prezzi è rappresentata dal modello di «autocostruzione assistita»: cooperative e non profit svolgono azioni di autocostruzione e autoriabilitazione in nuove aree edificabili e ad immobili degradati. Sono cantieri autogestiti e assistititi tecnicamente in modo sussidiario da ong, associazioni, cooperative. Cittadini in team solidale costruiscono reciprocamente le proprie case lavorando nel weekend, durante le ferie e in altri periodi con un risparmio fino al 70% dei costi di costruzione.
E' interessante notare che le famiglie che hanno fatto domanda di autocostruzione sono al 60% autoctone e 40% di origine straniera. Per dirla con con Luca Doninelli nei suoi «Scritti insurrezionali su Milano»: dove c'è Milano c'è casa.

Tommaso De Berlanga, La casa comincia con un tavolo, il manifesto, 18 aprile 2007

Il problema della casa si presenta in carne e ossa fuori dalla sala dove si svolge il primo incontro del Tavolo di concertazione sulle politiche abitative. Curiosamente, tra tutti i soggetti invitati (ministri di infrastrutture, solidarietà sociale, economia, politiche giovanili, per la famiglia; presidenti di regioni, province autonome, Anci, Federcasa, sindacati e costruttori) mancavano proprio i rappresentanti di inquilini, sfrattati, senza casa, occupanti e chi più ne sa di cosa voglia dire vivere senza un tetto sicuro sulla testa.
Così oltre 2.000 persone hanno raccolto l'invito delle associazioni storiche romane (Asia-RdB, Coordinamento di lotta, Sunia, Action, Comitato obiettivo casa, ecc) «assediando» pacificamente l'Istituto San Michele a Ripa, in piena Trastevere. Il ministro Paolo Ferrero ha quindi accolto una delegazione di manifestanti, a nome del governo, per ascoltare le loro proposte e invitarli, in risposta, a partecipare a «un tavolo parallelo» da cui criticare e in qualche modo «controllare» i lavori della sede istituzionale.
Ma i problemi fondamentali, apparsi subito chiari, sono due: risorse scarse e assenza di una visione di politiche abitative che risponda alla dimensione del malessere sociale. Lo stesso Ferrero ha ammesso che «servirebbero 10 miliardi», ma che bisognerà accontentarsi di molto meno («briciole», ha riassunto Angelo Fascetti dell'Asia). Soprattutto, all'interno del governo prevale un'impostazione assolutamente «mercatista», che recalcitra di fronte all'intervento pubblico per avviare una politica della casa diversa dall'attuale. Il massimo che si riesce a concepire è infatti il «recupero degli alloggi pubblici sfitti (pochissimi, ndr), autorizzazione ai comuni di acquisire alloggi da mettere sul mercato, verificare il complesso delle proprietà del Demanio, utilizzare gli immobili sequestrati alla mafia, rendere disponibili alloggi degli enti previdenziali». Nessuna intenzione invece di mettere in discussione la legge 431 (quella che abolì l'equo canone, scatenando la corsa verso il cielo degli affitti), né di rimpinguare un patrimonio pubblico massacrato da dismissioni e cartolarizzazioni. Nessuna risposta nemmeno alle proposte del Sunia: «introdurre la detraibilità dell'affitto dal reddito», per creare un «conflitto di interessi tra locatario e affittuario», e la «tracciabilità del pagamento», con l'obbligo di effettuarlo per assegno o bonifico (si azzererebbe o quasi il fenomeno dell'affitto «in nero»).
«Servirebbe un milione di alloggi», spiegano i comitati di movimento. Meno dei contratti di locazione che scadranno entro quest'anno, mettendo altrettante famiglie di fronte all'alternativa tra consegnare la propria busta paga al padrone di casa oppure lanciarsi nel «mercato delle occupazioni». Probabile perciò una manifestazione nazionale a maggio.
Le politiche seguite negli ultimi 20 anni hanno infatti privilegiato l'acquisto privato sul libero mercato, creando una quota enorme di popolazione indebitata con i mutui. Per chi è rimasto in affitto, il canone può arrivare a incidere fino al 60-70% dello stipendio. Una ricerca del Cresme - condotta per conto di Legacoop e Ancab - pubblicata proprio ieri, dimostra l'entità del fenomeno e il livello abnorme di redditività dell'investimento immobiliare in alcune aree (in certe città un nuovo immobile può rendere fino al 290%), visto che i costi di costruzione sono invece relativamente omogenei su tutto il territorio nazionale. Delude, in questo caso, la proposta: da ricercare «facendo i conti con il mercato», ma chiedendo alle amministrazioni locali di «far reinvestire» parte di questa redditività in aree e immobili da destinare all'emergenza abitativa.