etica, mercato e disuguaglianza nel villaggio globale e nei contesti locali
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- From: "ANDREA AGOSTINI" <lonanoda at tin.it>
- Date: Thu, 23 Nov 2006 06:39:07 +0100
Etica, mercato e
disuguaglianza Nel “villaggio globale” e nei contesti
locali di Bruno
Forte Arcivescovo di
Chieti-Vasto (Università di Chieti –
10 Novembre 2006)
Il bel libro di Tommaso Padoa-Schioppa, Europa, una pazienza attiva. Malinconia e
riscatto del Vecchio Continente (Rizzoli, Milano 2006), mi offre lo spunto
per organizzare le mie riflessioni su etica, mercato e disuguaglianza intorno a
tre termini chiavi: malinconia, pazienza attiva e
riscatto.
1. Malinconia è la condizione
prodotta nelle singole coscienze, come nell’insieme di intere culture, dallo
scarto fra l’esperienza e l’attesa. Lì dove l’eccedenza di ciò che si spera
rispetto a ciò che si ha o si presume di dover avere supera la soglia della
sostenibilità, si fa strada l’esperienza dello scacco. Dallo scacco nasce la
malinconia, una condizione dello spirito cui ha dedicato riflessioni mirabili
Søren Kierkegaard, il pensatore cristiano che sotto molti aspetti si è posto
come la coscienza critica della modernità sazia e sicura di sé. È soprattutto
nel “Ciclo estetico” delle sue opere che Kierkegaard parla della malinconia, e
lo fa in modo speciale in riferimento alla figura del poeta, l’“amante infelice
di Dio”
(cf. Diario, a cura di
C. Fabro, III, 1083). Il poeta è tale in quanto vive della tensione
irrisolta fra l'ultimo, a cui ambisce, e il penultimo, da cui è sempre
afferrato. L'estetica dell'infelicità, l'amare il proprio dolore, è così la
condizione in cui si produce la poesia, ma è anche l’esperienza feconda di una
malinconia che - proprio sotto lo stimolo della sofferenza che l’accompagna -
spinge verso un superamento decisivo. A partire proprio da Kierkegaard, dedica
alla malinconia riflessioni di grande profondità e bellezza Romano Guardini, il
pensatore italo-tedesco che è stato fra le più lucide intelligenze critiche del
cosiddetto “secolo breve”: in lui la malinconia non è vista solo come uno stigma
dello spirito, ma più in generale come un carattere epocale. Nella piccola opera
Ritratto della malinconia
(Morcelliana, Brescia 19934) Guardini riesce a farne un esame, che è
il riflesso fedele della coscienza europea nel profilarsi tragico dei
totalitarismi e dell’inaudita violenza da essi prodotta (l’originale tedesco Vom Sinn der Schwermut fu scritto nel
1928, mentre maturava la grande crisi dell’anima tedesca, che sarebbe sfociata
nella barbarie nazista). La tesi di fondo con cui si apre il testo di Guardini
dà ragione della lettura epocale della malinconia, che Padoa-Schioppa fa sua nel
libro sull’Europa: “Troppo dolorosa è la malinconia e troppo a fondo spinge le
sue radici nel nostro essere di uomini, perché la si debba abbandonare nelle
mani degli psichiatri” (13). Le ragioni della malinconia non sono solo
psicologiche o contingenti: essa pesca nel profondo dei cuori in quanto
inesorabilmente segnati dalle tragedie del tempo, strutturalmente feriti dalla
crisi della storia. Guardini era stato profeta di ciò che proprio con la
dittatura nazionalsocialista sarebbe divenuto realtà: “Qui sta soprattutto
l’enigma della malinconia: in una rivolta della vita contro se stessa; nel fatto
che gli impulsi all’autoconservazione, alla stima e all’affermazione di noi
stessi possono essere contrastati in maniera così singolare dall’impulso
all’autodistruzione, da giungere solo all’indebolimento e allo sradicamento
totali” (47). La malinconia rende vulnerabili singoli e popoli interi, perché
insinua la disistima di sé, la mancanza di confidenza nelle proprie forze e
possibilità, su cui ha facile presa la legge del più forte: “Chi ha vissuto
l’esperienza della prima guerra mondiale - scriverà Guardini nelle lezioni del
secondo dopoguerra - ricorda il senso di smarrimento che nacque quando la
volontà di promuovere la cultura e la civiltà, che si era convinti potesse tutto
ordinare e collegare, si dimostrò impotente ... Alla guerra è seguita un’epoca
piena di promesse, nonostante tutta l’angustia, quella degli anni 1919-1933. Ma
poi ad essi fecero seguito dodici anni d’illegalità e di violenza, fondati su
un’ideologia allucinante e retti da uomini eticamente abietti e spiritualmente
malati. Quello che accadde non è ancora riconosciuto in modo giusto. Un aspetto
fu comunque evidente: che la scienza non è, come l’illuminismo, l’idealismo, il
positivismo avevano ritenuto, colei che succede alla fede, e che non è in
condizione di governare il corso della vita umana” (Etica. Lezioni
all’Università di Monaco 1950-1962, Morcelliana, Brescia 2001, 99s). La
crisi - e Guardini ne era ben consapevole - non era solo propria della cultura
tedesca, attraversava anzi l’intera cultura europea, anche se aveva trovato nel
“caso tedesco” la sua “punta di iceberg”: “Un’azione violenta, senza uguali
nella storia europea, ha sottomesso l’uomo tedesco alla propria volontà - ma ciò
non sarebbe stato possibile, se egli non fosse stato condiscendente nei suoi
confronti. Chi davvero può farlo, ha naturalmente il diritto di affermare di
fronte a sé e di fronte agli altri di non aver avuto nulla a che fare con questa
storia di violenza. Dovrà però provare a se stesso di essere andato abbastanza a
fondo nell’esame di sé. Il punto decisivo di questo esame non sta infatti nella
domanda: ne sono stato espressamente complice, oppure ho ricavato un utile
dall’azione di chi operava? - bensì: ho risposto al dovere dell’esistenza
personale, così come avrei dovuto fare?” (841: “Habe ich äußerlich mitgetan, oder vom Tun
der Handelndem Nutzen gezogen? habe ich so zur Pflicht personaler Existenz
gestanden, wie ich es hätte tun sollen?”). La domanda che nessun tedesco
pareva volesse porsi, è posta da Guardini senza mezze misure. É questo anche
l’esame di coscienza che Padoa-Schioppa sembra chiedere oggi alla coscienza
europea: a oltre cinquant’anni dall’interrogativo di Guardini non c’è forse da
domandarsi se la “malinconia” non abbia ancora una volta tarpato le ali alla
coscienza europea, impedendole di andare oltre, dove la sua identità più
profonda la chiamava, e rendendola così succube di logiche di piccolo
cabotaggio, legate a interessi di gruppo capaci di spegnere lo slancio verso un
più alto cammino, richiesto a tutti, fecondo per tutti? Come sempre, dove vince
la malinconia lo sforzo creativo dei grandi passi si esaurisce in manovre di
scarso respiro: “Ciò che in ogni sistema nazionale è demandato a una
legislazione secondaria flessibile, facilmente emendabile, o addirittura alla
decisione discrezionale di una amministrazione pubblica - osserva
Padoa-Schioppa, costruttore di istituzioni comunitarie -, nel sistema europeo
viene scolpito nel marmo delle direttive comunitarie” (80). Si arriva a vere e
proprie amenità: “C’è una direttiva che prescrive forma e misura che devono
avere certi ortaggi per essere riconosciuti dalla politica agricola comune; o
un’altra che stabilisce le ore in cui si può azionare il tagliaerba senza
disturbare i vicini” (78)! Sì: il Vecchio Continente sembra a volte perdere i
grandi orizzonti e annegare nei frammenti del “particulare”, succube della sua
irrisolta malinconia. E l’Italia – in questo malinconico autunno – sembra
concorrere con ogni sforzo alla palma della maggiore mancanza di autostima, e
quindi della più profonda vulnerabilità.
2. Una pazienza attiva è il
rimedio che il grande Economista oppone alla vittoria della malinconia, non
lontano, anche in questo, da Romano Gardini, che alla tensione malinconica
opponeva la medicina dell’etica e della fede. La malattia della coscienza
europea, come di quella nazionale ancora più endemica e diffusa, non si cancella
con un colpo di spugna: occorre quella virtù intermedia fra realismo e utopia,
fra umiltà e coraggio che si chiama “pazienza”. Senza realismo, nessuna diagnosi
potrà risultare affidabile. Senza pensare in grande, nessuna terapia conoscerà
il necessario colpo d’ala per funzionare. Senza umiltà, il rischio di ricadute
nelle presunzioni ideologiche del recente passato non si potrà evitato. Senza
coraggio, nessun cambiamento profondo potrà essere iniziato. Perciò la pazienza
dovrà essere “attiva”: quello che pare un ossimoro, una combinazione si qualità
apparentemente opposte, è invece la sola via d’uscita possibile. Pazienza attiva
significa aprire gli occhi di fronte alla verità, senza chiudersi
nell’asfissiante ipertrofia della soggettività, nel gioco rassicurante della
menzogna, nella promessa consolatoria a buon mercato. Bisogna uscire dall’io,
guardare coraggiosamente fuori di sé alla realtà delle cose, misurarsi con
l’altro: occorre abbandonare quell’enfasi dell’io ripiegato su di sé, a causa
della quale - come osserva ancora Guardini - “l’uomo non capisce più per quale
ragione dovrebbe rinunciare, per amore del bene, a cose che gli sembrano utili o
farne altre che esigono sacrificio”, e “la motivazione etica vera e propria,
cioè quella della suprema altezza di senso del bene, svanisce e viene sostituita
dalla motivazione legata all’incremento della vita, all’utilità e infine al
godimento” (467). La svolta è di ordine morale e spirituale: occorre avere il
coraggio dell’obbedienza alla verità, l’attiva pazienza di chi intende servire
fino in fondo il vero: “L’uomo non sussiste in se stesso, da se stesso, per se
stesso, ma ‘in direzione di’, nell’arrischiarsi verso l’altro da sé… L’uomo
diventa se stesso nella misura in cui abbandona se stesso, non però nella forma
della leggerezza, del vuoto d’esistenza, ma in direzione di qualcosa che
giustifica il rischio di sacrificare se stessi” (256). Questo qualcosa per cui
vale la pena sacrificarsi è l’equità, il rispetto di ciascuno, la giustizia per
tutti: dove la malinconia isolava la coscienza nella sua isola infelice, la
passione per l’equità spinge a perdere la propria vita per ritrovarla
nell’altro, a considerare l’altro non più come concorrente o avversario, ma come
promessa e dono, e a vedere nel bisogno dell’altro, specialmente del più debole
e sprovveduto, il suo diritto verso di te. L’attiva pazienza è la virtù
necessaria a chi sceglie di impegnarsi per la giustizia, a chi considera
l’uguaglianza fondamentale delle possibilità la condizione indispensabile di
un’umanità vera, libera e felice. Ma chi sarà pronto a questo sacrificio di sé?
E come potremo essere sicuri che dietro la bandiera dell’equità non si
nascondano i giochi dell’interesse egoistico, che ne fanno la semplice maschera
del nulla, lo strumento per perpetuare malinconicamente il declino,
nell’ebbrezza degli appetiti singoli e di gruppo? Occorre un orizzonte alto cui
guardare: “Darsi un punto di riferimento significa assumere quale guida qualcosa
che, pur connesso al breve tempo e al piccolo luogo in cui siamo, sia più alto e
più lontano, e perciò dia senso, orientamento al nostro incedere. Non una
previsione o una scommessa, ma un obiettivo e un proposito. Significa alzare lo
sguardo oltre il proprio momento. Dalla malinconia si esce guardando in alto
dentro se stessi” (T. Padoa-Schioppa, Europa…, o.c., 32).
3. È qui che si affaccia la terza parola della diagnosi e della terapia:
il riscatto. Essa può avere un senso
umano, tutto umano, indicando lo sforzo per proporsi una meta alta per il bene
personale e di tutti, e l’impegno a conseguirla nonostante la misura del prezzo
da pagare: è il senso con cui usa prevalentemente il termine Padoa-Schioppa,
parlando del riscatto del Vecchio Continente, e dell’Italia in esso. Ma accanto
a questo, e per nulla escludendolo, c’è un altro senso che mi sembra necessario
richiamare: il riscatto non è solo emancipazione, prodotto delle nostre forze, è
anche e molto più tensione etico-spirituale, che supera anche le nostre forze, e
come tale è sfida da accogliere, dono a cui aprirsi, solidarietà con gli altri e
invocazione umile al Totalmente Altro, di cui tutti abbiamo nostalgia e bisogno.
Il quadro che proverò ora a delineare mi sembra giustifichi questa più ampia
interpretazione del riscatto, che lo rapporta alle categorie di speranza e di
amore operoso e solidale, così come sono presentate ad esempio dal
ConcilioVaticano II in un testo di grande spessore e incisività per chi voglia
raccogliere la sfida che viene dal futuro: “Legittimamente si può pensare che il
futuro della umanità sia riposto nelle mani di coloro che saranno capaci di
trasmettere alle generazioni di domani ragioni di vita e di speranza” (Gaudium st Spes 31). Come trasmettere
oggi queste ragioni nel quadro del “villaggio globale” e della situazione
locale, in cui il riscatto va situato e compreso?
Un primo contributo alla risposta mi sembra sia la considerazione che non
è più possibile pensare oggi ad un riscatto che passi attraverso una politica
economica elaborata a livello solo “nazionale”. Una tale politica non potrebbe
mai disporre degli strumenti necessari per perseguire gli obiettivi di giustizia
ed equità sociale richiesti. Oggettivamente è difficile per qualsiasi paese
dell’Unione Europea, per l’Italia perfino impossibile, pensare di poter
intervenire sui fondamentali processi macroeconomici interni senza tener conto
del rispetto dei vincoli che ci si è imposti entrando nell’area monetaria
comune. La politica monetaria è stata delegata alla Banca Centrale Europea, che
gestisce la moneta unica: nel settore monetario, quindi, tutto è deciso a
livello sovranazionale europeo. Riguardo alla politica fiscale ed alla
eventualità dell’utilizzo della leva del bilancio pubblico come strumento di
politica economica, il discorso apparentemente sembra essere diverso, ma il
rispetto dei vincoli sul deficit di bilancio (disavanzo tra le entrate e le
spese correnti del settore pubblico), che non può superare il 3% del PIL
(Prodotto Interno Lordo), e sul debito pubblico (emesso per finanziare il
disavanzo primario) riducono notevolmente gli ambiti di manovra, per il nostro
paese e non solo per esso. Sono di questi giorni le aspre polemiche sulla
finanziaria, da tanti osteggiata, la cui elaborazione è stata fortemente
condizionata dalla necessità di ricostruire l’avanzo primario (e cioè il surplus
del bilancio pubblico al netto della spesa per interessi sul debito) e di
invertire la tendenza di crescita del debito pubblico, condizioni fondamentali
per non incorrere nelle sanzioni comunitarie. D’altra parte, il governo centrale
deve tener conto anche delle esigenze finanziarie degli Enti Locali, dotati di
autonomia amministrativa sempre più ampia, ma con capacità fiscali quasi nulle.
I trasferimenti tra governo centrale e governi locali sono ancora un capitolo di
spesa molto importante, fondamentale per alcune aree del Paese (fra cui la
nostra), per l’attuazione delle politiche sociali e di sviluppo di Regioni,
Province e Comuni.
In una simile situazione, quali possono essere le politiche utili a
generare ricchezza e a ridistribuirla in maniera equa in modo tale che la
società italiana non sia più spaccata tra cittadini che vivono per il superfluo
e altri che incontrano difficoltà a portare avanti una vita dignitosa? Essendo
le risorse economico-finanziare a disposizione per tale scopo meno che
scarse bisogna più che mai che la
politica “voli alto” e si inventi un nuovo patto sociale. È necessario, in primo
luogo, “rigenerare” la vita pubblica italiana. In una situazione molto delicata
quale quella che stiamo vivendo, non si può chiedere alla società civile,
stremata dal clima di odio e di sospetto che pervade la politica italiana da una
decina d’anni, di trovare un terreno comune in cui tutti possano e debbano fare
la propria parte per far ripartire il Paese. Un Paese diviso non può accettare
un cambio culturale che impedisca all’intero sistema di implodere. Fondamento
primo di qualsiasi politica economica efficace, che abbia effettivamente presa
sui cittadini in questo momento storico, è che questa provenga da una classe
dirigente credibile che faccia comprendere ai destinatari dei provvedimenti più
“odiosi” ma necessari (se non indispensabili) che quella intrapresa è la
migliore strada percorribile per il bene della nazione. Classe politica
dirigente credibile è quella che, indipendentemente dalla propria posizione di
maggioranza o opposizione, dialogando e senza mai ricorrere all’uso del
pregiudizio, dimostra di cercare il bene comune più che quello della propria
parte ed assume decisioni le cui ricadute (sacrifici e/o benefici) coinvolgano
lo stesso ceto politico. Spesso mi confronto con le persone e colgo come
l’ostacolo primo all’accettazione di qualsiasi decisione presa a livello
politico in campo economico sia la mancanza di fiducia verso i politici che nel
corso degli anni pare stia crescendo in modo
esponenziale…
Il rispetto dei principi etici e morali in ambito pubblico genererà
frutti virtuosi nella società civile, facendola deviare dal sentiero egoistico
di chiusura alle esigenze del prossimo, che adesso si trova a percorrere. Solo
allora si potrà effettuare una seria lotta all’evasione fiscale, principale
strumento per il risanamento finanziario e fonte di risorse utili alla
redistribuzione delle risorse. Lottare l’evasione fiscale significa anche porre
una pietra tombale sui condoni di qualunque tipo e, soprattutto, attivare seri
controlli da parte di chi vi è preposto. In questo settore, anche
Per fare il grande passo, è necessario allora vincere la malinconia
strutturale di cui è pervaso il sistema Italia, nel più ampio e non meno critico
“sistema Europa”. È necessario esercitarsi nella virtù difficile della pazienza
attiva. Ma ciò che soprattutto è indispensabile, è ritrovare ragioni comuni di
vita e di speranza, che siano totalmente fedeli alla persona umana, ma non meno
fedeli al suo destino eterno e alle esigenze etiche e spirituali che esso
comporta, e che motivino il grande impegno del riscatto per tutti. Bisogna
ricominciare a pensare in grande e a farlo insieme. Bisogna offrire a tutti,
specialmente ai giovani, ragioni vere di vita e di speranza. Dovremo imparare a
sognare uniti, pronto ciascuno a pagare il proprio prezzo perché il sogno
diventi realtà. Non sarà questione di una stagione, ma di un tempo non breve, in
cui mantenere alto lo sguardo e sostenersi reciprocamente nella fatica.
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