i diritti nell'era del mondo globale



 
da repubblica di mercoledi 1 novembre 2006

I diritti nell´era del mondo globale
ULRICH BECK

Non so come stanno le cose per voi, ma anche se forse gli eventi degli ultimi dieci anni non hanno cambiato più di tanto gli schemi effettivi della mia vita quotidiana, hanno certamente modificato il modo in cui io vedo il mondo. A tutti noi il mondo, nonostante tutti i mescolamenti, appariva relativamente ordinato, come un paesaggio con colline e boschi, continenti e uomini vicini e lontani, familiari ed esotici, e in questo mondo ognuno alla fine aveva il suo posto. C´erano (e oggi questo suona ancora come un´ovvietà) cinesi della Cina, neri dell´Africa, italiani dell´Italia, danesi della Danimarca, francesi della Francia, brasiliani del Brasile, ecc. Da lì venivano, lì avevano le radici, lì, se necessario, li si poteva rispedire. Anche se non si sapeva granché degli "stranieri", era comunque chiaro che li si poteva trovare in questi luoghi geografici. In questa concezione culturale territorialmente ermetica risultava relativamente semplice viaggiare di società in società e intendersi gi uni con gli altri al di là di tutte le barriere linguistiche.
 
Perché in fin dei conti tutti gli uomini sono uguali.
Qualunque cosa si intenda per "globalizzazione", questa visione del mondo è diventata del tutto problematica. Una simile rappresentazione presuppone che le culture siano formazioni separate, mentre invece sono storicamente intrecciate. Assolutizzata dagli ideologi nazionali e religiosi della purezza, questa rappresentazione immunizza una cultura dai diritti umani e in generale contro qualsiasi aspirazione riformatrice, ad esempio anche dalla parificazione della donna. Chi invece vuole comprendere il nuovo della globalizzazione deve riconoscere che i nuovi media della comunicazione sono penetrati in tutti gli ambiti dell´azione e della vita sociale ed economica e deve scardinare questa concezione degli spazi culturali separati. Ciò che era distante ora è vicino. Per la prima volta nella storia tutte le persone, tutti i gruppi etnici e religiosi, tutte le popolazioni hanno un presente comune: ogni popolo è diventato l´immediato vicino di qualsiasi altro e gli scossoni in un lato del globo si trasmettono con straordinaria rapidità all´intera popolazione mondiale. 
Ma questo effettivo presente comune non si fonda su un passato comune e non garantisce affatto un futuro comune. Proprio perché il mondo è "unito" senza la loro intenzione, senza il loro voto, senza la loro approvazione, i contrasti tra le culture, i passati, le situazioni, le religioni diventano improvvisamente consapevoli nella loro insostenibile incomprensibilità. Analogamente, la nostra rappresentazione culturale è cambiata. Non esiste più il mondo nel quale ogni cultura, ogni gruppo etnico e, di conseguenza, anche i sistemi religiosi di fede e di autorità hanno il loro luogo geografico esclusivo. Piuttosto, queste culture e queste nazioni appaiono inestricabilmente intrecciate l´una all´altra. Viviamo in una inevitabile vicinanza mescolata di tutti con tutti, e ciò si manifesta anche in una dolorosa concorrenza al di là di tutti i confini.
Sullo sfondo delle connessioni in rete consentite dalle tecnologie della comunicazione non solo gli stati e le imprese, ma anche gli individui sono direttamente in competizione gli uni con gli altri. Gli esempi a questo proposito sono ogni giorno più numerosi: servizi di vigilanza nei Paesi soglia, che sorvegliano il mondo occidentale attraverso video-aziende; oppure studenti americani, che attraverso mezzo mondo prendono ripetizioni da un insegnante indiano. Oppure pensate al cosiddetto "conflitto delle caricature". I promotori delle caricature di Maometto all´inizio credevano che si trattasse soltanto di una faccenda danese. Qualche mese dopo, però, nel mondo arabo bruciavano le ambasciate occidentali, e non soltanto quelle danesi; molti europei si sentirono chiamati a difendere i valori della libertà di stampa contro la censura religiosa. Né i sogni degli umanisti né i concetti dei filosofi e nemmeno l´azione politica hanno portato a questa "unificazione" dell´umanità. Al contrario, ciò che oggi tutti gli abitanti della Terra potrebbero avere in comune è al massimo l´aspirazione a un mondo un po´ meno unito.
Di colpo l´immagine del paesaggio dell´unità umana non è più fatta di dolci catene di colline. È invece piena di abissi difficilmente superabili, di crepacci, guglie e boschi impenetrabili. Nella inevitabile vicinanza intrecciata universale i gruppi si percepiscono all´improvviso come estranei, incomprensibili e minacciosi.
Le persone che vivono in un mondo di senso nel quale il potere è autoritario – come in alcune forme dell´Islam – si percepiscono come diverse dalle persone che vivono in un mondo di senso nel quale il potere è democraticamente ripartito. Le persone per le quali l´ "onore" ha un´importanza così sovrastante che qualcuno uccide sua sorella perché è diventata "impura" a causa di una violenza sono diverse dalle persone appartenenti a mondi di senso dove i singoli individui vengono giudicati in base alle loro intenzioni e alle loro azioni. Le persone che vivono in mondi di senso nei quali il passato domina il presente sono diverse dalle persone che vivono in mondi di senso dove il futuro domina il presente. Persone che "sanno" (come forma più dura di fede) che l´umanità è minacciata da una catastrofe ambientale finale prodotta dalla società industriale vivono in un mondo diverso da quello in cui vivono le persone che non ne hanno ancora sentito nulla o che considerano questa prospettiva nient´altro che isteria pseudoscientifica. E una parte essenziale del problema è che tutti questi mondi di senso esistono intrecciati gli uni agli altri in una sola società.
Samuel Huntington tenta di cogliere questi contrasti con l´immagine del "conflitto delle civiltà". Ma è un´immagine sbagliata. Rimane legata alla vecchia rappresentazione del mondo, secondo la quale ogni "civiltà" è una formazione ermeticamente chiusa, che ha il suo specifico luogo geografico. Contro queste fantasie militanti di purezza degli ideologi occidentali e orientali oggi è necessario riaffermare che la cultura è qualcosa di originariamente impuro, ossia è il prodotto dell´intreccio di diverse "culture" e proprio in questo intreccio si costituisce come cultura. Naturalmente, l´Europa ha ricevuto l´eredità antica anche attraverso la mediazione della cultura arabo-islamica. E naturalmente in molti luoghi l´Islam si è intrecciato nel modo più stretto con l´Occidente cristiano e con il mondo ebraico. Niente è più sbagliato che contrapporre l´eredità europea all´Islam.
Nello stesso tempo la concezione ermetica della cultura disconosce il fatto che le linee di tensione, di frattura e di conflitto non sono permanenti. In realtà le identità di gruppo vengono costantemente rimodellate e modificate in "decostruzioni creative" (Schumpeter) motivate in termini prevalentemente religiosi e politici.
Gli imprenditori politici dell´islamismo militante hanno costruito un movimento del terrorismo che scuote l´ordine mondiale, creando una miscela politicamente esplosiva di vecchie dottrine, tradizioni inventate, ideali di purezza immaginaria e nuove tecniche comunicative e organizzative e l´hanno globalizzato con successo, come antidoto contro il dolore della dignità ferita. L´intermediario tra l´Occidente e l´Islam, il premio Nobel di quest´anno per letteratura, Orhan Pamuk, scrive: "Purtroppo l´Occidente non ha idea del senso di umiliazione che la grande maggioranza della popolazione mondiale deve vivere e superare senza smarrire l´intelletto e senza impegolarsi con i terroristi, i nazionalisti radicali o i fondamentalisti religiosi". Come ha accertato un´inchiesta nel mondo arabo pubblicata di recente, per questo mondo le personalità più importanti sono i capi di Hezbollah, dell´Iran, di Hamas e di al-Qaeda. Di fronte a ciò la conquista dei Paesi del mondo da parte di Microsoft e Big Mac impallidisce.
Il motore centrale degli eventi non è più soltanto la globalizzazione – l´integrazione di contesti di azione e di esperienza al di là dei confini degli stati nazionali. È soprattutto la competizione, nelle e tra le culture intrecciate, per il potere di santificazione della giusta via – il potere di definire cosa è giusto e cosa è sbagliato, cosa è buono e cosa è cattivo, cosa è rischioso e cosa è sicuro. Gli stati che ambiscono a un ruolo egemone, come l´Iran – e gli Usa! – si considerano non soltanto nazioni, ma movimenti morali che additano la via all´umanità. E cosa fa, da che parte si schiera e per cosa si batte l´Europa?
In effetti, anche per me sarebbe un suicidio culturale reprimere la verità centrale della mia provenienza, il mondo di senso dell´Europa e dell´Occidente, cioè la verità che afferma che tutte le persone sono dotate di diritti inalienabili e che pertanto la democrazia è l´unica forma di esercizio del potere in grado di garantire questa dignità umana. Questa verità è più importante che mai proprio nella vicinanza intrecciata di tutti con tutti, carica di incognite e di conflitti: essa è la chiave della sopravvivenza.
(Traduzione di Carlo Sandrelli)