il giustizialismo, l'etica e lo stato di diritto



dal corriere della sera settembre 2006
 
La vera giustizia Guido Rossi sul libro del penalista Federico Stella.
Il giustizialismo, l’etica e lo stato di diritto
Oggi il carcere è vendetta: quasi impossibile per il detenuto il ritorno alla società. Così l’indulto è una porta girevole STRUMENTI
Il libro di Federico Stella, La giustizia e le ingiustizie, appena uscito per i tipi del Mulino, è l’ultima provocazione intellettuale postuma che il grande penalista, purtroppo da poco scomparso, ha voluto lasciarci. In apparenza Stella parte da una meditazione di carattere filosofico, avvertendo subito peraltro che da tale meditazione non si giungerà a nulla, per cercare una definizione del concetto di giustizia, ma sceglie come filo conduttore della sua indagine quella desunta dall’etica popolare. L’unica fonte dell’idea di giustizia è l’esperienza stessa dell’ingiustizia e del male che ne costituisce la base.
La giustizia, dunque, è la riparazione di un torto, di un’ingiustizia. Ma Stella si interroga su come sia possibile pensare di riparare i torti, quando si tratti di quelli subiti dalle vittime degli attacchi terroristici, o, per tornare più indietro nel tempo, dai desaparecidos argentini, dalle vittime dell’Olocausto, e così via. E, con l’eleganza del suo pensiero, dopo averci condotto per mano a solidarizzare con tutte le vittime innocenti dei tragici eventi che hanno da sempre ciclicamente colpito l’umanità, Stella rovescia l’angolo visuale, mostrando l’atrocità della «riparazione del torto», partendo dagli esempi palesi della pena di morte e dalla ineluttabile constatazione che i colpevoli non sono mostri, ma degli uomini normali. Stella riprende le mirabili pagine di Hannah Arendt (La banalità del male) dedicate al processo ad Eichmann, nel quale i giudici «sapevano che sarebbe stato quanto mai confortante poter credere che Eichmann era un mostro (...).
Ma il guaio del caso Eichmann era che di uomini come lui ce n’erano tanti e che questi tanti non erano né perversi né sadici, bensì erano, e sono tuttora, terribilmente normali». Stella aggiunge: «Bisogna dunque avere il coraggio di dire che la condanna di Eichmann costituì un’ingiustizia (...): il dibattimento era inesistente; il giudice Landau era un cittadino di Israele e, in quanto tale era da considerare parte lesa; la difesa non ebbe alcuna possibilità di azione, non potendo nemmeno convocare testimoni a suo favore ». I difetti di questo processo, individuati da Stella sono incredibilmente gli stessi riscontrati recentemente dalla Corte Suprema degli Stati Uniti, nel procedimento Hamdamv. Rumsfeld.
L’ingiustizia non sta nella punizione del colpevole, ma nell’impedire, a chi non sia ancora stato giudicato tale, di potersi difendere con i mezzi che sono costituzionalmente garantiti in uno Stato di diritto. C’è, in Stella, la stessa indignazione verso un processo ingiusto o una giustizia sommaria, di quella espressa sabato 23 settembre da Piero Ostellino sulle colonne di questo giornale, che ricordava: «Per la cultura liberale sono preferibili dieci colpevoli in libertà a un solo innocente in prigione. Si chiama garantismo o, meglio, Stato di diritto; sotto il profilo storico, civiltà. Ciò non significa, evidentemente, essere dalla parte dei colpevoli ma, semplicemente, per i diritti dell’accusato. Si chiama presunzione di innocenza.
Per le culture autoritarie sono preferibili dieci innocenti in prigione a un solo colpevole in libertà. Si chiama giustizialismo, o meglio Stato etico; sotto il profilo storico barbarie. Ciò non significa infatti essere dalla parte della giustizia ma, piuttosto, contro i diritti dell’Uomo». La riparazione dell’ingiustizia subita dalle vittime dell’Olocausto venne allora compiuta attraverso un’altra ingiustizia, speculare e altrettanto crudele. Ed ecco che la giustizia diventa vendetta; tale equazione è tranquillamente ammessa dagli studiosi nordamericani, che quasi con orgoglio ne rintracciano le origini nella legge del taglione. Ma l’adozione della pena di morte, esempio emblematico del binomio giustizia-vendetta, non svolge neppure alcun effetto di deterrenza, se sono corrette le conclusioni dell’indagine cui giungono due studiosi nordamericani, Bonner e Fessender, che stigmatizzano l’aumento degli omicidi negli Stati che applicano la pena di morte, mentre sono diminuiti negli Stati che la vietano.
Ma, prosegue Stella, anche il carcere è vendetta, sicché anche i Paesi europei, dove la pena di morte è bandita, non sono culturalmente diversi da quelli che invece la adottano. Anzi. Il carcere rappresenta nei Paesi industrializzati uno strumento di straordinaria ingiustizia, un luogo di esclusione di esseri superflui, di annullamento della persona umana. Le conseguenze che la detenzione ha sugli esseri umani sono devastanti. Il carcere è tornato in auge dopo che gli è stata consegnata una nuova funzione, quella di costituire un mezzo civilizzato e costituzionale per segregare la popolazione la cui problematicità è stata creata da meccanismi sociali ed economici.
Le carceri, in tutti i Paesi del mondo, raccolgono per la massima parte le «vite di scarto», per usare la definizione di Bauman, cioè immigrati, tossicodipendenti, poveri, disoccupati, analfabeti. Per un ex detenuto il ritorno alla società è quasi impossibile e il ritorno alla galera quasi certo. La recente esperienza italiana dell’indulto pare confermare la metafora della «porta girevole», per quei soggetti che appartengono alle categorie individuate da Bauman. Vittime e colpevoli tendono inevitabilmente ad assomigliarsi, e sono accomunati nel loro destino, perché fanno entrambi parte della umanità «superflua».
La società che vive fuori dalle mura del carcere tende a rimuovere la realtà sgradevole e considerare certi criminali malvagi e dunque diversi, raggiungendo l’indifferenza morale. Questo è senza dubbio il passo più toccante del saggio, una sorta di testamento dell’autore. Il senso è di una profonda sfiducia verso il diritto penale, che punisce, ma non ripara, e si rifugia nell’illusione (o nella finzione) della rieducazione del condannato. Ma, terminata la parte destruens, dal carcere, dalla sofferenza, Stella riparte per costruire la sua personale teoria della giustizia. Ed è l’esperimento di Kiran Bedi, la direttrice del carcere di Nuova Delhi, il fatto ispiratore. L’esperienza dell’introduzione della meditazione all’interno del carcere, raccontata nel bellissimo libro La coscienza di sé.
Solo il risveglio delle coscienze e il formarsi di una coscienza di sé e del significato degli atti compiuti a danno degli altri permette all’uomo detenuto di capire le ragioni della propria rabbia, dell’odio e della violenza commessa. E Stella pone la capacità necessaria per raggiungere la coscienza di sé come primo pilastro dell’opera di giustizia. Una società è giusta se riesce a disinnescare le pulsioni negative presenti in ciascuno di noi (come Primo Levi ricordava nel suo Se questo è un uomo), fonti delle ingiustizie in cui vive l’umanità. Il male può essere minimizzato o azzerato solo attraverso una rinascita della «capacità di pensare», che «renda possibile il raggiungimento della coscienza di sé e la scoperta della propria ombra». Il secondo pilastro dell’opera di giustizia è invece da Stella individuato nella giustizia del primo passo, il riconoscimento dell’Altro essere umano come soggetto degno di rispetto (secondo l’insegnamento di Lévinas), che Stella concepisce come principio generale, presente in tutte le religioni.
Esistono idee sulla giustizia comuni a tutte le religioni (quel che non desideri per te, non farlo neppure ad altri uomini), così come esistono precetti identici e così forti da diventare indispensabili e universali, come quel passo del Corano che impone la regola: «Ricambia il male con il bene, cosicché il tuo nemico diverrà il tuo amico più caro». L’idea di giustizia di Stella, dunque, coinvolge in modo decisivo il credo religioso. Da profondo credente quale era, reputa che il cristianesimo e l’islam possano svolgere un grande potenziale sul terreno della giustizia. «La giustizia umana dovrebbe realizzarsi come immagine della giustizia divina». Le religioni, grazie alla constatazione di numerosi punti di contatto, possono offrire un contributo irrinunciabile alla costruzione di un mondo più giusto. Proprio l’amicizia profonda che mi legava a Stella, al di là delle differenze di posizioni teoriche che potrebbero essere giustificate da visioni diverse (la mia profondamente laica, e la sua intimamente cristiana), mi consente di proseguire il suo discorso sul modello Barak (l’ex presidente della corte israeliana), nel tentativo di individuarne le radici culturali e teoriche.
Stella conclude il proprio saggio con la presentazione di questo «modello», attribuendogli, unico esempio, la capacità di far emergere l’idea di giustizia. Il modello è caratterizzato dalla capacità di protezione assoluta dei diritti individuali, anche dei nemici. Ed è questo, presumibilmente, l’aggancio tra il modello di Barak e la tesi dell’Autore. La protezione assoluta dei diritti individuali, anche dei «nemici» è avvicinata al modello biblico della giustizia del primo passo, ovvero il riconoscimento dell’Altro come soggetto degno di rispetto. Ritengo invece che, a prescindere dalla circostanza se sia possibile parlare di «modello » per quello ipotizzato da Barak, il principio di protezione assoluta dei diritti degli Altri trovi la sua origine nell’opera di Francisco De Vitoria, il giurista domenicano che insegnava nel 1500 all’Università di Salamanca, e che nel 1513 (Relectio de Indis), aveva chiesto agli Stati conquistatori delle Indie di riconoscere agli indiani gli stessi diritti dei conquistadores.
Sulle riflessioni del De Vitoria si è costruito il diritto internazionale e ciò che noi chiamiamo oggi «diritti umani». Ed è proprio dal riconoscimento dei diritti umani che occorre partire, anche come luogo di una possibile ricomposizione tra etica religiosa ed etica laica. Il «modello Barak», fortunatamente, trova applicazione concreta anche nelle pronunce della Corte Suprema degli Stati Uniti che, il 30 giugno 2006, si è pronunciata sull’estensione dei principi del giusto processo al presunto terrorista Hamdam. Catturato in Afghanistan nel novembre 2001, dopo un solo anno di carcerazione Hamdam viene definito «enemy combatant» e dunque passibile del giudizio di una commissione militare appositamente costituita, con l’accusa di complotto.
La difesa di Hamdam obietta che la commissione non può giudicare sia perché né leggi internazionali, né leggi del Congresso degli Stati Uniti prevedono questo processo per il reato di complotto, sia perché la procedura adottata per processarlo viola i principi basilari delle leggi militari e internazionali, come la Convenzione di Ginevra. Il governo degli Stati Uniti chiede che sia respinta la richiesta della difesa di Hamdam. Inoltre il governo chiede che le corti non militari non possano giudicare e debbano attendere la cessazione delle attività di guerra. Vi sono molti elementi in comune tra questo caso, poi risolto brillantemente dalla Corte Suprema, e quello di Eichmann. Questa è anche la posizione ferma e decisa di Barak, sulla quale si sofferma e conclude Stella: non si tratta di chiedersi quanto grave debba essere l’emergenza per poter giustificare l’uso di certi mezzi; anche ammesso che l’emergenza esista, ciò non autorizza violazioni dei diritti, poiché non c’è modo di tornare indietro.
Un errore giudiziale è molto più grave e permanente perché crea precedenti che non si possono eliminare e che resteranno, soprattutto nei sistemi di common law, nella giurisprudenza del Paese. Mentre un ordine militare, costituzionale o anticostituzionale, una volta terminata l’emergenza, cessa di avere validità, una sentenza che lo giudichi corretto entra definitivamente nelle pronunce di common law. Barak poi, replica all’affermazione di Rehnquist sull’opportunità di sospendere i giudizi sui diritti umani, fino al termine delle ostilità. Questo è un passo fondamentale della posizione di Barak. Al quale aderisce pienamente Stella. Barak risponde a Rehnquist che si pronuncerà sui casi non appena questi gli saranno presentati. «Non rimanderò la sentenza al momento in cui la guerra al terrorismo sarà terminata, perché il destino di un essere umano non può rimanere in sospeso ». La tutela dei diritti umani fallirebbe se, durante un conflitto armato, le corti decidessero di attendere la fine del conflitto.
Non si tratta qui di minimizzare, e Stella mirabilmente nel suo libro ci ricorda a quanti episodi di crudeltà efferata è stata sottoposta l’umanità nel corso dei secoli, il problema della sicurezza di un Paese e dei suoi cittadini. La sintesi tra sicurezza nazionale e libertà individuale riflette la ricchezza e la fertilità del principio della rule of law e in generale della democrazia. Lo ha ben descritto proprio Barak, che riprende il tema del ruolo dello Stato di diritto nel terrorismo. Non v’è dubbio che esso provochi uno stato di tensione tra i poteri dello Stato, perché vi sono da considerare e contemperare le opposte esigenze di libertà e di sicurezza. Il principio della divisione dei poteri può garantire un ruolo determinante al diritto nella guerra al terrorismo. Decidere ed individuare quale sia il contemperamento tra l’interesse del popolo alla sicurezza e quello del rispetto dei diritti umani è precipuo compito del potere politico. Tale potere deve però, in ogni sistema veramente democratico rendere conto alla magistratura che, autonoma e indipendente, ha il compito di salvaguardare i principi della democrazia e verificare se gli strumenti adottati dal potere politico per combattere il terrorismo sono conformi ai principi costituzionali che lo Stato si è dato.
GUIDO ROSSI