la felicità secondo gli economisti



da lavoceinfo
07-08-2006

La felicità secondo gli economisti
Leonardo Becchetti

Le prescrizioni di politica economica sono sempre fondate, implicitamente o esplicitamente, su di una scala di valori incorporata in una funzione di benessere sociale da massimizzare in presenza di vincoli di tempo, risorse (monetarie e non) e tecnologia.
In genere, tali funzioni di benessere si propongono di rendere più elevata possibile l’utilità/felicità dei cittadini ponderando in diversa maniera le utilità/felicità individuali.
Dunque, elemento decisivo per la definizione della politica economica, al di là della questione dei pesi, è l’identificazione corretta di ciò che rende felici i singoli cittadini. Sbagliare può avere conseguenze molto negative per una classe dirigente: conduce al risultato paradossale di un’efficienza nell’utilizzo dei mezzi a disposizione per perseguire i fini stabiliti, associata a una perdita di consenso elettorale perché gli obiettivi sono stati definiti sulla base di criteri di felicità non corrispondenti alle reali preferenze degli individui.
Nuovi dati empirici
Sino a poco tempo fa, gli economisti, in mancanza di osservazioni empiriche affidabili, hanno definito a priori le preferenze degli individui sulla base di una loro visione antropologica. La significativa novità è oggi che abbiamo a disposizione una sempre più ampia informazione sulla felicità dichiarata degli individui e sulle sue determinanti.
Ciò ha rilanciato gli studi sulla felicità, che hanno sempre avuto un ruolo importante nella storia del pensiero economico. (1)
Parafrasando un noto detto, l’economista applicato percorre una lunga strada buia, illuminata solo in un breve tratto dalla fioca luce di un lampione; per causa di forza maggiore ha dovuto sviluppare le sue indagini in quel breve tratto (occupandosi solo di quelle questioni per le quali esistevano dati disponibili). Il chiarore che appare oggi all’orizzonte (le nuove basi dati) gli consente di estendere la sua analisi a tratti di strada precedentemente inesplorati.
L’estrema rilevanza degli studi sulle determinanti della felicità nell’economia e nella politica economica (e la presenza dei nuovi dati individuali sulla felicità dichiarata), non consente di per sé di esprimere un giudizio necessariamente positivo sulla fattibilità di tali studi.
Una delle critiche principali a questo filone di indagine è che la felicità dichiarata è priva di rilevanza per l’analisi empirica perché non misurabile in maniera oggettiva. Ma Frey e Stuzter, e prima ancora Sen, argomentano (2) che sono ormai molti i campi dell’economia nei quali si effettuano analisi su variabili non oggettivamente misurabili. (3)
Mentre altri (4) ricordano come gli studi di psicologia medica evidenzino una correlazione molto significativa tra felicità dichiarata e stadi di superiore salute psicofisica misurati in termini di attitudine al sorriso, reazioni della pressione arteriosa allo stress e assenza di propensione al suicidio. (5)
Istruzione e salute per essere felici
I recenti lavori empirici sulla felicità dichiarata sorprendono per la costanza di alcuni risultati in periodi e in paesi diversi. Pressoché unanime l’impatto positivo e significativo dell’istruzione, al netto del reddito: una conferma del contributo positivo alla felicità individuale che essa dà, al di là dei "rendimenti della scolarizzazione", ovvero dei suoi effetti sulla produttività degli individui. Altrettanto costanti il ruolo fondamentale della salute e dei beni relazionali (tempo speso con gli amici, successo dei rapporti affettivi) e del grado di democrazia. Inflazione e disoccupazione hanno invece effetti negativi.
Singolare, ma confermato da molti studi, il rapporto positivo tra età e felicità, a parità di condizioni di salute. Gli psicologi lo spiegano col fatto che con gli anni gli individui sviluppano un processo di apprendimento che consente loro di gestire meglio le emozioni, con effetti positivi sul benessere psicofisico.
Dal punto di vista economico, uno degli ambiti di ricerca più rilevanti e interessanti è il rapporto tra felicità e reddito. Gli studi evidenziano una relazione molto più complessa di quella generalmente definita nelle funzioni di utilità dei modelli standard. Dimostrano infatti che, sulla mera correlazione positiva via via decrescente, solitamente postulata dagli economisti, si innestano almeno altre due componenti, una di carattere psicologico e l’altra di carattere sociologico.
Secondo la prima, esiste una rincorsa tra aspirazioni e realizzazioni: una volta raggiunta una meta in termini di reddito, gli individui alzano progressivamente l’asticella dei loro traguardi successivi, riducendo il grado di soddisfazione per quanto già raggiunto. Per la seconda, nel rapporto tra reddito personale e felicità è fondamentale il confronto con il livello di reddito del gruppo di riferimento, l’insieme di persone con il quale l’individuo si rapporta solitamente. Dunque, il reddito relativo ha effetti molto superiori a quelli del reddito assoluto. In particolare, redditi al di sopra (al di sotto) della mediana tendono a determinare effetti positivi (negativi) sulla felicità individuale.
Si tratta di un risultato assolutamente ragionevole che spiega perché il significativo aumento di reddito dall’età della pietra a oggi non abbia determinato un progresso lineare e costante della felicità.
È poi importante distinguere tra reddito personale e reddito nazionale. Il secondo ha sicuramente un impatto superiore al primo sulla felicità: non presenta le problematiche di reddito relativo e presumibilmente, consente di migliorare accesso e qualità della sanità e dell’istruzione, due fattori che incidono positivamente sulla felicità individuale.
Lo "schiavo felice" di Sen
Le indagini sulla felicità ripropongono l’antica discussione sull’utilizzo di criteri oggettivi o soggettivi di benessere per le scelte di politica economica. La critica di Amartia Sen all’approccio della felicità è fondata sull’ipotesi dello "schiavo felice": possono esistere individui talmente soggiogati dalla privazione dei diritti più elementari da non essere neanche in grado di concepire condizioni di vita migliori, dunque, felici della loro condizione di assenza di diritti. (6)
I fautori di questo approccio rispondono che esso è l’unico a non poter essere accusato di paternalismo, l’unico nel quale non esiste qualcuno al di fuori del soggetto destinatario della politica economica, che stabilisce cosa è bene per lui. Un’ulteriore risposta è che lo "schiavo felice" rappresenta un caso individuale fuori dalla media e dunque non è in grado di influenzare i risultati degli studi empirici che stabiliscono nessi di correlazione tra variabili sulla base di campioni molto ampi.
Una possibile sintesi della controversia è nella definizione di indicatori misti che includono componenti di tipo oggettivo e soggettivo (ad esempio, gli anni di vita felice) capaci di coniugare elementi oggettivi, quali l’aspettativa media di vita, con elementi soggettivi, come la felicità dichiarata.
Per saperne di più
Easterlin, R.A., (1974) ‘Does empirical growth improve the human lot? Some empirical evidence’, in P.A. David and M.W. Reder (eds.), Nations and Households in Economic Growth (Academic Press, New York), pp. 89–125; (2001), ‘Income and happiness: Towards a unified theory’, The Economic Journal 111, pp. 465–484; (2004), "Per una migliore teoria del benessere", Bruni L. Porta P.L., (eds.), Guerini associati, Milano
Kahneman D., 2000, Experienced Utility and Objective Happiness: A Moment-Based Approach in D. Kahneman and A. Tversky (Eds.) Choices, Values and Frames New York: Cambridge University Press and the Russell Sage Foundation, Princeton University.
(1) Si veda Malthus T.R., 1966, An essay on the principle of population, Macmillian London (ed. or. 1798); Marshall. A, 1945, Principles of Economics, Macmillian London (ed. or. 1890); Veblen, T., 1934, The Theory of leisure Class, Modern Library, New York (ed. or. 1899); Smith, A., 1984, The theory of moral sentiments, London (ed. Or. 1759); Dusemberry J., 1949, Income, saving and the theory of consumer behaviour, Harvard University Press, Cambridge Mass; Hirsch, F., 1976, Social limits of growth, University Press, Cambridge Mass.
(2) Frey, Bruno S. e Alois Stutzer (2002). "What can Economists learn from happiness research?" Journal of Economic Literature 40(2): 402-435.
(3) Si considerino, ad esempio, gli studi sulle emozioni di J. Elster ("Emotions and economic theory", Journal of Economic Literature, 26, 47-74, 1988) e G. Lowenstein ( "Because It Is There: The Challenge of Mountaineering…for Utility Theory," Kyklos 52(3) (1999), pp. 315-44) e quelli sul ruolo dello status di R. Frank, ("The demand for unobservable and other nonpositional goods", American Economic Journal, 75, 101-116, 1985).
(4) Alesina, Alberto, Rafael Di Tella e Robert MacCulloch (2001) "Inequality and Happiness: Are Europeans and Americans Different? Nber Working Paper No. 8198. Cambridge, MA: National Bureau of Economic Research.
(5) Vedi rispettivamente Pavot, W., 1991, "Further validation of the satisfaction with life scale: evidence for the convergence of well-being measures", Journal of Personality assessment, 57, 149-161. Ekman, P. Davidson, R. and Friesen W., 1990, "The Duchenne smile: emotional _expression_ and brain physiology" II, Journal of Personality and Social Psycology, 58, 342.53. Shedler, J., Mayman, M., & Manis, M. (1993). "The illusion of mental health", American Psychologist, 48, 1117-1131. H. Koivumaa-Honkanen, R. Honkanen, H. Viinamäki, K. Heikkilä, J. Kaprio e M. Koskenvuo "Self-reported Life Satisfaction and 20-Year Mortality in Healthy Finnish Adults" American Journal of Epidemiology Vol. 152, No. 10: 983-991.
(6) Sen, A. K, 1993, Capability and Well-being, in The Quality of Life (edited by Nussbaum, M. and Sen, A. K.), pp. 31-53. Oxford: Clarendon Press.

Oggetto: felicita' dell'economista
Messaggio: L'importanza della felicita' nella vita degli individui e' concetto innegabile. Tuttavia, che la sua misura possa divenire una variabile di politica economica, sembra decisamente un ulteriore tentativo da parte dell'astrazione economica di misurare un fattore che e' soggettivo e non quantificabile. Si sono forse tediati, gli economisti, del criterio della massimizzazione dell'utilita', cercando di rendere più felice l'analisi economica, arricchendola di originali concetti astratti, ai quali ricondurre le stesse variabili tipiche della scienza economica, come inflazione e disoccupazione? Solo alcune brevi considerazoni, tra molte. Come ricercare livelli misurabili di felicita' comuni a singole categorie di persone, o addiruttura ad una intera nazione, come prerequisito di qualsiasi azione di politica economica, senza che i suoi risultati siano meno chairi di quanto lo sino ora? Come sostenere, dal punto di vista economico politico, che esistono variabili di felicita' diverse da quella della massimizzazione del reddito disponibile, quando, cosi' facendo, si trascende dal contesto di economia monetaria basata sullo scambio indiretto, nella quele ragionevolmente serve denaro per massimizzare l’utilita' e sul quale si basa l'analisi economica? L'analisi empirica servirebbe a convincere che ben pochi individui con aspettative future positive, salvo gli “schiavi felici”, sarebbero in grado di prescindere la felicita' dal proprio livello di reddito/patrimonio e/o dallo stesso livello che vedono negli altri: tali individui garantiscono il consenso politico. L'economia e' comune buon senso altamente rielaborato; buon senso consiglia di lasciare ad altri campi il perseguimento della felicita', concetto troppo ampio perche' sia emulato sull'altare della cupa scienza economica.
Risposta: Rispondo brevemente elencando alcune ragioni sul perché sempre più economisti sono convinti che bisogna occuparsi anche di felicità :
1) la separazione in compartimenti stagni tra le diverse discipline crea seri problemi proprio nel momento delle formulazioni delle proposte di policy. Se una disciplina non è in grado di vedere tutto l’uomo, integrandosi con i risultati delle altre, prescriverà delle ricette sulla base di una visione di uomo del tutto parziale con effetti negativi sulla sua felicità per non essere stata in grado di calcolare effetti collaterali
che la sua visione parziale della persona gli impedisce di vedere (per fareun esempio i) se un modello economico non considera l’importanza delle relazioni interpersonali per la felicità individuale può prescrivere una ricetta di policy senza accorgersi degli effetti collaterali negativi della stessa sui beni relazionali e sulla felicità collettiva e ancora ii) se un esperto ambientale non integra alle proprie conoscenze sulla scarsità delle risorse naturali quelle sul funzionamento dell’economia prescriverà che bisogna consumare di meno per risolvere i problemi dell’umanità non tenendo conto degli effetti del consumo sulla povertà, e così via).
2) è ormai da molto tempo che le funzioni di utilità di molti nuovi filoni di ricerca includono variabili molto diverse dalla mera massimizzazione dei consumi. Basti considerare i filoni dell’economia della reciprocità, della avversione all’ineguaglianza, della fairness, ecc. Gli studi sperimentali
più recenti hanno stimolato ed incoraggiato questi approcci dimostrando che
gli individui incorporano queste nozioni nelle loro preferenze e nelle loro
scelte.

iii) se il fine ultimo delle istituzioni è quello di non porre ostacoli al
perseguimento della felicità collettiva evitando ovviamente che la libertà o
felicità di alcuno si fondi sulla costrizione o sull’infelicità di altri (e
non si vede quale altro dovrebbe essere il loro fine) è evidente che
dobbiamo approfondire cosa ci rende felici. Siccome le decisioni di politica
economica sono tra quelle con il più vasto impatto sul benessere e sulla
felicità della popolazione l’economia in primis deve studiare il problema
delle determinanti della felicità.

iv) gli studi sulla felicità aiutano a comprendere meglio le differenze di
istituzioni e politiche economiche tra paesi. Illustrando per esempio
l’eterogeneità degli effetti di variabili economiche stesse (recessione,
inflazione, disoccupazione) sulla felicità dei cittadini.

Il buon senso dunque consiglia di formulare ricette di policy partendo da
una visione dell’uomo tutto intero, non ipotizzando a priori cosa lo rende
felice attraverso una funzione di utilità che guarda ad una sola faccia del problema, ma testando le diverse ipotesi sul campo. Se questo non avvienegli economisti rischiano di formulare ricette che, applicate dai politici,
potrebbero paradossalmente aumentare il livello d’infelicità collettivacondannando i politici stessi all’insuccesso.

Nome: Marco D'Egidio
Oggetto: Denaro e felicità
Messaggio: Parlare di felicità è un po’ generico;a volte ho sentito parlare di felicità, soddisfazione e benessere, come se fossero però la stessa cosa. Invece no. Il benessere è un “ambito” della felicità collettiva che concerne l’aspetto economico della vita delle persone. In generale non è detto che il denaro diffonda felicità. La soddisfazione pone in relazione i risultati con l’impegno per produrli. Il benessere è oggettivo, la soddisfazione soggettiva. Il benessere ha più aspetti in comune con la ricchezza disponibile e l’aumento dei redditi, mentre la felicità è più difficile da indagare per l’importanza di fattori extra-economici. Nell’ipotesi che si parli di benessere, bisogna distinguere le fasce di reddito, all’interno delle quali incrementi uguali di ricchezza producono diversi incrementi di benessere. E’ più facile che un manager si dichiari “benestante” anche ad aumento nullo di reddito,mentre un operaio senta la mancanza di benessere, anche dopo aumenti significativi dei salari. Il benessere medio aumenta con la ricchezza media, ma all’interno delle diverse fasce sociali la percezione di sicurezza e disponibilità economica variano.
La mia opinione è che il denaro produce benessere, uno solo degli aspetti della felicità, per un meccanismo di immediato riscontro. L’insicurezza e l’inquietudine di oggi sono legate all’accrescimento delle disuguaglianze sociali nel processo globale. Chiedersi se e quanto il denaro influisca sulla felicità è una domanda troppo imprecisa. Non sarebbe interessante allora, assieme alla ricerca di nuovi parametri come fiducia, ambiente, qualità della vita, anche chiedere al cittadino (di cui si annotano le condizioni socioeconomiche) quanto si senta soddisfatto e quanto si senta nella situazione di benessere e alla fine quanto si senta felice,relativamente a vari ambiti della sua vita? Come nelle analisi multicriteria. Il confronto delle differenze sarebbe utile per studiare come il denaro si insinui nella vita delle persone.
Risposta: La questione del termine utilizzato negli studi della felicità è ovviamente fondamentale e molto dibattuta.

1) Se teniamo fermo l’ancoraggio ai risultati empirici recenti nella discussione sul termine non possiamo non far riferimenti ai vocaboli usati nelle indagini più importanti (Indagine Mondiale sui Valori, Eurobarometer, German Socioeconomic Panel). Come questi siano poi compresi da ogni intervistato attraverso il filtro del suo retroterra culturale è un altro
discorso.
Si utilizzano in genere due termini “felicità” e “soddisfazione di vita” ritenendo in genere che il primo sia più a rischio di essere influenzato dall’emozione del momento avvicinandosi ad una idea di felicità come somma di momenti felici. Il termine soddisfazione di vita (life satisfaction) indurrebbe l’intervistato ad una valutazione più globale e meno influenzata dall’emotività del momento.
Di fatto i risultati empirici in genere variano pochissimo e dunque sembrano confermare che i due termini risultano quasi sinonimi nella percezione degli intervistati o almeno lo sono quanto all’impatto di fattori significativi sudi esse.
2) Concordo poi sul fatto che il termine benessere viene solitamente collegato dagli economisti a indicatori di reddito o di carattere socioeconomico ed è quindi evidentemente legato a variabili oggettive e non a percezioni soggettive come la felicità.
3) L’idea di un’analisi multicriteria avanzata dal lettore è sposata da alcune di queste indagini che effettuano domande specifiche sulla soddisfazione relativa al reddito o alla salute.
4) L’azzardo di estendere l’analisi statistica a fattori extra-economici riscontrato dal lettore è un rischio che, a mio avviso, dobbiamo assolutamente correre. La disponibilità di nuove informazioni, per quanto imprecise, ci consente per la prima volta di contraddire il famoso detto di Einstein per il quale “le cose che contano non si contano”. Cercando di
contarle e di misurare il loro impatto evitiamo il rischio di credere che non esistano o di non valutare gli effetti su di esse di variabili più strettamente economiche che siamo in grado di misurare più facilmente.