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[tradenews] L’ipocrisia delle parole
- Subject: [tradenews] L’ipocrisia delle parole
- From: roberto at mancaintesa.org
- Date: Mon, 24 Jul 2006 00:09:54 +0200
L’ipocrisia delle parole L’ennesimo inutile G8 è ormai alle spalle, con i suoi documenti colmi di vuote dichiarazioni di intenti. Non si discosta da questo cliché, la dichiarazione relativa al commercio, che “richiama ad uno sforzo comune per concludere i negoziati dell’Agenda di Doha per lo sviluppo”. Lo scorso anno a Gleneagles gli otto paesi (anzi 7 visto che la Russia è l’ultima grande assente dal WTO) si erano impegnati “a raddoppiare gli sforzi per una conclusione positiva” della medesima Agenda, affermando, fra le altre cose, che “un esito ambizioso ed equilibrato del Doha Round è il modo migliore di usare il commercio a favore dell’Africa”. A San Pietroburgo si è ripetuto il mantra dei benefici del Doha Round e della “storica opportunità” di creare sviluppo e aumentare gli standard di vita in tutto il mondo. Di certo gli estensori non hanno letto i report che in questi ultimi due anni centri di ricerca ed istituzioni multilaterali hanno scritto. Lo studio redatto dal Carnegie Endowment for International Peace intitolato “Winners and Losers” (1) ammette che qualsiasi scenario di accordo finale, ambizioso o no, porterà a modesti benefici in termini di aumento del PIL mondiale. Soprattutto dichiara che il paese che potrebbe guadagnarci di più è la Cina (da 0,8 a 1,2% di aumento del PIL) mentre quei paesi al cui sviluppo è formalmente dedicato il round, come l’Africa subsaharia, saranno i maggiori perdenti con una diminuzione del loro PIL dell’1%. Neppure avranno letto il rapporto edito pochi giorni fa dall’Agenzia ONU per lo sviluppo (l’UNDP) dedicata al tema del commercio e dello sviluppo umano in Asia e nel Pacifico (2), un’ampia area geografica del pianeta che ha abbracciato il libero scambio ma in cui, come afferma il documento, il libero scambio non ha abbracciato i poveri. I paesi di questa regione (in cui vive il 60% della popolazione mondiale) hanno abbassato drasticamente i dazi, passati nell’Asia dell’Est da una media del 34% (anni ’80) all’8% del 2000 ed hanno aumentato, in alcuni casi in maniera esplosiva, le esportazioni. Ma dal punto di vista umano questo sviluppo ha aumentato le disuguaglianze, ovvero è stato appannaggio di una parte minoritaria della popolazione e non ha sostanzialmente ridotto la povertà. In particolare proprio i paesi meno sviluppati che hanno visto aumentare i flussi commerciali, hanno fallito nel ridurre la povertà dei loro abitanti. Liberalizzando i mercati agricoli, continua il report, si possono ridurre i prezzi dei generi alimentari “in particolare dei prodotti sostenuti dai sussidi di USA ed UE, ma questo non sembra portare ad un aumento della sicurezza alimentare”. Probabilmente per il semplice fatto che non esiste un consumatore e un lavoratore distinti, ma che convivono in una unica persona per cui chi vive nelle aree rurali può avere potere di acquisto se ha un reddito da lavoro ma se questo lavoro viene a mancare perché cibi e merci arrivano a basso prezzo dall’estero, alla fine anche se i prezzi sono bassi non ci sono soldi per comprare. “Più commercio significa di solito più lavoro e meno disoccupazione”, ma lo studio UNDP smentisce anche questo perché “sfortunatamente, negli anni recenti questo spesso non è accaduto”. Dal 1993 al 2003 nel sud est asiatico la disoccupazione è aumentata dal 3,9% al 6,3%. Persino in Cina sta aumentando rapidamente, soprattutto in agricoltura per effetto dell’apertura del mercato. E riguardo alla tanto decantata integrazione dei paesi meno sviluppati nel commercio internazionale, l’analisi afferma ciò che da anni stiamo ripetendo, ovvero che i paesi meno sviluppati hanno economie vulnerabili, localizzate al di fuori dei mercati internazionali e che sono giocatori troppo deboli per partecipare a partite in cui giocano i migliori global player. L’ipocrisia dei comunicati del G8 ignora questa realtà che è però sotto gli occhi di tutti e spiega perché i negoziati WTO siano stati un autentico calvario fin dal loro inizio a Doha nel 2001. Al di là delle dichiarazioni retoriche sulla crescita e sulla riduzione della povertà ogni paese sta banalmente cercando di aumentare i suoi benefici, cioè aumentare le esportazioni, e di ridurre le concessioni, ovvero l’accesso dei propri mercati alle esportazioni altrui. Sul sito dedicato al Commercio internazionale dell’Amministrazione USA, nella sezione dedicata a spiegare i benefici del libero scambio non si fa che elencare gli effetti positivi sulle esportazioni. Nei rarissimi casi in cui con un accordo sono state fatte concessioni alla controparte, come nel caso dell’abbigliamento nell’accordo con i paesi del Centro America, si sottolinea che “l’abbigliamento prodotto nella regione avrà accesso duty-freee e quota-free [cioè senza dazi e limitazioni quantitative] solo se prodotto con tessuti e componenti USA o regionali, sostenendo così le esportazioni U.S.A. e i nostri posti di lavoro”. Questa è la logica dei negoziatori e con questi presupposti il Doha Round è avanzato ricatto dopo ricatto ed ogni proposta negoziale contenente qualche concessione è sempre stata condizionata da maggiori concessioni da parte “dell’avversario”. Così gli USA nell’ottobre del 2005 presentarono la loro offerta agricola condizionandola a precise richieste all’Unione Europea che a sua volta condiziona la propria a concessioni degli altri paesi nel negoziato sui servizi e in quello dei prodotti industriali. Un gioco al massacro in cui si può vincere solo usando la forza e in cui è chiaro a tutti che qualcuno vince ma molti altri hanno solo da perdere e a perdere non ci sta nessuno ovviamente. Pascal Lamy a San Pietroburgo ha sollecitato un intervento dei capi di governo presenti, confessando che i colloqui avuti recentemente con i paesi del G6 non hanno sortito alcun passo avanti, ed ha ottenuto la loro benedizione al suo sforzo di trovare un accordo entro un mese. Lo scenario a questo punto palesa due possibili soluzioni e gli Stati Uniti appaiono ancora una volta l’ago della bilancia. Nei mesi recenti l’atteggiamento americano è parso rinunciatario, il Congresso Americano appare molto riluttante a qualsiasi concessione e da più parte negli USA si levano dichiarazioni che sottolineano come ci siano strade alternative per ottenere gli scopi del Doha Round (vedi Cato Institute). Il recente cambio della guardia del rappresentante del commercio ha ulteriormente indebolito questa figura poiché Susan Schwab appare una figura politicamente meno rilevante del predecessore Bob Portman, a sua volta inferiore al predecessore Robert Zoellick. La domanda che tutti si fanno è se Bush intende guardare maggiormente ai propri interessi nazionali (elezioni di mid-term del Congresso in autunno) o se vorrà difendere da una inevitabile crisi un’organizzazione, il WTO, che gli Stati Uniti hanno creato ed utilizzato ampiamente in passato. Una riduzione delle richieste di apertura dei mercati agricoli da parte USA farebbe scattare un domino che potrebbe facilmente portare ad un accordo finale, a quella sorta di Doha light di cui da tempo si parla. In caso contrario il fallimento sarebbe inevitabile. Ma non può sfuggire che in ogni caso il Doha Round è fallito e che il WTO è in crisi. Una crisi che non è dovuta a mancanza di volontà politica come Lamy ha sostenuto. Il problema è che i politici non hanno alle loro spalle il sostegno dei loro parlamenti e dell’opinione pubblica perché non sanno spiegare i benefici di una ulteriore avanzata delle norme WTO nella gestione dei servizi e una ulteriore riduzione di dazi e altre barriere commerciali su prodotti agricoli e industriali. Non sanno spiegarlo perché neppure loro ne sono convinti. Non sanno difendere una organizzazione votata alla creazione di regole per coordinare il commercio fra economie e sistemi politici diversi perché il WTO questo non lo ha mai fatto, ha solo lavorato per uniformare i sistemi ad un modello che risale all’epoca Reagan – Tatcher. Pertanto il Doha Round è brutalmente una battaglia da vincere per un pugno di esportazioni in più. Ma così un ciclo di negoziati per lo sviluppo non può funzionare, così come non può più funzionare un’organizzazione che vuole dirsi multilaterale. Roberto Meregalli Beati i costruttori di pace www.beati.org/wto (1) Il testo è in rete su www.CarnegieEndowment.org/trade. (2) vedi http://www.undprcc.lk/rdhr2006/rdhr2006_report.asp
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