[tradenews] L’ipocrisia delle parole



L’ipocrisia delle parole

L’ennesimo inutile G8 è ormai alle spalle, con i suoi documenti colmi di
vuote dichiarazioni di intenti.
Non si discosta da questo cliché, la dichiarazione relativa al commercio,
che “richiama ad uno sforzo comune per concludere i negoziati dell’Agenda di
Doha per lo sviluppo”. Lo scorso anno a Gleneagles gli otto paesi (anzi 7
visto che la Russia è l’ultima grande assente dal WTO) si erano impegnati “a
raddoppiare gli sforzi per una conclusione positiva” della medesima Agenda,
affermando, fra le altre cose, che “un esito ambizioso ed equilibrato del
Doha Round è il modo migliore di usare il commercio a favore dell’Africa”.
A San Pietroburgo si è ripetuto il mantra dei benefici del Doha Round e
della  “storica opportunità” di creare sviluppo e aumentare gli standard di
vita in tutto il mondo.
Di certo gli estensori non hanno letto i report che in questi ultimi due
anni centri di ricerca ed istituzioni multilaterali hanno scritto.
Lo studio redatto dal Carnegie Endowment for International Peace intitolato
“Winners and Losers” (1)  ammette che qualsiasi scenario di accordo finale,
ambizioso o no, porterà a modesti benefici in termini di aumento del PIL
mondiale. Soprattutto dichiara che il paese che potrebbe guadagnarci di più
è la Cina (da 0,8 a 1,2% di aumento del PIL) mentre quei paesi al cui
sviluppo è formalmente dedicato il round, come l’Africa subsaharia, saranno
i maggiori perdenti con una diminuzione del loro PIL dell’1%.
Neppure avranno letto il rapporto edito pochi giorni fa dall’Agenzia ONU per
lo sviluppo (l’UNDP) dedicata al tema del commercio e dello sviluppo umano
in Asia e nel Pacifico (2), un’ampia area geografica del pianeta che ha
abbracciato il libero scambio ma in cui, come afferma il documento, il
libero scambio non ha abbracciato i poveri.
I paesi di questa regione (in cui vive il 60% della popolazione mondiale)
hanno abbassato drasticamente i dazi, passati nell’Asia dell’Est da una
media del 34% (anni ’80) all’8% del 2000 ed hanno aumentato, in alcuni casi
in maniera esplosiva, le esportazioni. Ma dal punto di vista umano questo
sviluppo ha aumentato le disuguaglianze, ovvero è stato appannaggio di una
parte minoritaria della popolazione e non ha sostanzialmente ridotto la
povertà. In particolare proprio i paesi meno sviluppati che hanno visto
aumentare i flussi commerciali, hanno fallito nel ridurre la povertà dei
loro abitanti. Liberalizzando i mercati agricoli, continua il report, si
possono ridurre i prezzi dei generi alimentari “in particolare dei prodotti
sostenuti dai sussidi di USA ed UE, ma questo non sembra portare ad un
aumento della sicurezza alimentare”. Probabilmente per il semplice fatto che
non esiste un consumatore e un lavoratore distinti, ma che convivono in una
unica persona per cui chi vive nelle aree rurali può avere potere di
acquisto se ha un reddito da lavoro ma se questo lavoro viene a mancare
perché cibi e merci arrivano a basso prezzo dall’estero, alla fine anche se
i prezzi sono bassi non ci sono soldi per comprare.
“Più commercio significa di solito più lavoro e meno disoccupazione”, ma lo
studio UNDP smentisce anche questo perché “sfortunatamente, negli anni
recenti questo spesso non è accaduto”. Dal 1993 al 2003 nel sud est asiatico
la disoccupazione è aumentata dal 3,9% al 6,3%. Persino in Cina sta
aumentando rapidamente, soprattutto in agricoltura per effetto dell’apertura
del mercato.
E riguardo alla tanto decantata integrazione dei paesi meno sviluppati nel
commercio internazionale, l’analisi afferma ciò che da anni stiamo
ripetendo, ovvero che i paesi meno sviluppati hanno economie vulnerabili,
localizzate al di fuori dei mercati internazionali e che sono giocatori
troppo deboli per partecipare a partite in cui giocano i migliori global
player.

L’ipocrisia dei comunicati del G8 ignora questa realtà che è però sotto gli
occhi di tutti e spiega perché i negoziati WTO siano stati un autentico
calvario fin dal loro inizio a Doha nel 2001.
Al di là delle dichiarazioni retoriche sulla crescita e sulla riduzione
della povertà ogni paese sta banalmente cercando di aumentare i suoi
benefici, cioè aumentare le esportazioni, e di ridurre le concessioni,
ovvero l’accesso dei propri mercati alle esportazioni altrui.
Sul sito dedicato al Commercio internazionale dell’Amministrazione USA,
nella sezione dedicata a spiegare i benefici del libero scambio non si fa
che elencare gli effetti positivi sulle esportazioni.
Nei rarissimi casi in cui con un accordo sono state fatte concessioni alla
controparte, come nel caso dell’abbigliamento nell’accordo con i paesi del
Centro America, si sottolinea che “l’abbigliamento prodotto nella regione
avrà accesso duty-freee e quota-free [cioè senza dazi e limitazioni
quantitative] solo se prodotto con tessuti e componenti USA o regionali,
sostenendo così le esportazioni U.S.A. e i nostri posti di lavoro”.

Questa è la logica dei negoziatori e con questi presupposti il Doha Round è
avanzato ricatto dopo ricatto ed ogni proposta negoziale contenente qualche
concessione è sempre stata condizionata da maggiori concessioni da parte
“dell’avversario”. Così gli USA nell’ottobre del 2005 presentarono la loro
offerta agricola condizionandola a precise richieste all’Unione Europea che
a sua volta condiziona la propria a concessioni degli altri paesi nel
negoziato sui servizi e in quello dei prodotti industriali. Un gioco al
massacro in cui si può vincere solo usando la forza e in cui è chiaro a
tutti che qualcuno vince ma molti altri hanno solo da perdere e a perdere
non ci sta nessuno ovviamente.

Pascal Lamy a San Pietroburgo ha sollecitato un intervento dei capi di
governo presenti, confessando che i colloqui avuti recentemente con i paesi
del G6 non hanno sortito alcun passo avanti, ed ha ottenuto la loro
benedizione al suo sforzo di trovare un accordo entro un mese.
Lo scenario a questo punto palesa due possibili soluzioni e gli Stati Uniti
appaiono ancora una volta l’ago della bilancia. Nei mesi recenti
l’atteggiamento americano è parso rinunciatario, il Congresso Americano
appare molto riluttante a qualsiasi concessione e da più parte negli USA si
levano dichiarazioni che sottolineano come ci siano strade alternative per
ottenere gli scopi del Doha Round (vedi Cato Institute). Il recente cambio
della guardia del rappresentante del commercio ha ulteriormente indebolito
questa figura poiché Susan Schwab appare una figura politicamente meno
rilevante del predecessore Bob Portman, a sua volta inferiore al
predecessore Robert Zoellick. La domanda che tutti si fanno è se Bush
intende guardare maggiormente ai propri interessi nazionali (elezioni di
mid-term del Congresso in autunno) o se vorrà difendere da una inevitabile
crisi un’organizzazione, il WTO, che gli Stati Uniti hanno creato ed
utilizzato ampiamente in passato. Una riduzione delle richieste di apertura
dei mercati agricoli da parte USA farebbe scattare un domino che potrebbe
facilmente portare ad un accordo finale, a quella sorta di Doha light di cui
da tempo si parla. In caso contrario il fallimento sarebbe inevitabile.

Ma non può sfuggire che in ogni caso il Doha Round è fallito e che il WTO è
in crisi.
Una crisi che non è dovuta a mancanza di volontà politica come Lamy ha
sostenuto. Il problema è che i politici non hanno alle loro spalle il
sostegno dei loro parlamenti e dell’opinione pubblica perché non sanno
spiegare i benefici di una ulteriore avanzata delle norme WTO nella gestione
dei servizi e una ulteriore riduzione di dazi e altre barriere commerciali
su prodotti agricoli e industriali. Non sanno spiegarlo perché neppure loro
ne sono convinti. Non sanno difendere una organizzazione votata alla
creazione di regole per coordinare il commercio fra economie e sistemi
politici diversi perché il WTO questo non lo ha mai fatto, ha solo lavorato
per uniformare i sistemi ad un modello che risale all’epoca Reagan –
Tatcher.
Pertanto il Doha Round è brutalmente una battaglia da vincere per un pugno
di esportazioni in più.
Ma così un ciclo di negoziati per lo sviluppo non può funzionare, così come
non può più funzionare un’organizzazione che vuole dirsi multilaterale.


Roberto Meregalli
Beati i costruttori di pace
www.beati.org/wto



(1) Il testo è in rete su www.CarnegieEndowment.org/trade.
(2) vedi http://www.undprcc.lk/rdhr2006/rdhr2006_report.asp