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lo tsumani globale
- Subject: lo tsumani globale
- From: "ANDREA AGOSTINI" <lonanoda at tin.it>
- Date: Tue, 28 Feb 2006 06:31:46 +0100
da carta di lunedi 27 febbraio 2006
LO TSUNAMI GLOBALE
di oscar marchisio.
Non è vero che lo tsunami del Natale 2004 sia stato
la più grave calamità a memoria di uomo, perchè nel 1970, in Bangladesh, un
ciclone uccise 500 mila persone, mentre nel 1976 un terribile terremoto in Cina
fece 600 mila morti. Però è stato il più seguito dai media, tra tutti i
disastri. Ed è stato così evidente e seguito proprio perchè ha colpito il
fenomeno più diffuso e globale del mondo occidentale: il turismo. E oggi, a
distanza di tempo, si possono cominciare a misurare le conseguenze.
Il turismo rappresenta insieme il tempo libero
delle società più "avanzate" del capitalismo che il settore economico trainante
per molte realtà "sottosviluppate", anzi sviluppate nella dipendenza al modello
dominante di capitalismo global-finanziario. Per quasi tutti i paesi in
questione il turismo rappresenta la prima o la seconda fonte di valuta, e
rappresenta ad esempio il 10 per cento del Pil in Thailandia e addirittura il 33
nelle Maldive.
In questo contesto, il turismo lega in modo
indissolubile le parti più ricche del capitalismo con le aree più povere, come
lo Sri Lanka, dove il 25 per cento della popolazione vive sotto la soglia della
povertà. Questo legame distrugge le economie agricole precedenti e soprattutto
modifica radicalmente il territorio, trasformando in speculazione edilizia e
alberghiera una sottile fascia di terra, che rimane così totalmente squilibrat
rispetto al clima e al ciclo delle acque.
Queste realtà sociali e territoriali vengono
risucchiate nei vortici di uno sviluppo tardo capitalista di cui il turismo è
l'espressione più evidente. Di qui, rapida crescita edilizia e sfruttamento del
territorio con gestione difficile dell'equilibrio bio-climatico.
In questo contesto il turismo è insieme fattore di
reddito e di costruzione della dipendenza: per cui si accentua la
globalizzazione ma si riduce la capacità della crescita autonoma di queste
economie. Questo è il primo motivo della diversità di questo evento, lo tsunami
recente, rispetto a quelli precedenti, mentre il secondo motivo è che la
dimensione del fenomeno è sovrannazionale, anzi, planetaria.
A confronto infatti con il terremoto in Cina o al
ciclone in Bngladesh questo evento è strutturalmente globale, ed ha colpito le
zone più popolose del globo. Tra i 300 e 400 milioni di persone vivono nelle
zone in qualche modo interessate dal cataclisma e questo rende evidente la
debolezza dello Stato-Nazione nel gestire e governare la "globalità", dalla
finanza al cataclisma. In questo evento drammatico risulta evidente come i
fenomeni globali, come la finanza e la conseguente delocalizzazione
manifatturiera, incidano pesantemente nella dinamica della dipendenza e della
morfologia del capitalismo subalterno. E' evidente ad esempio come Reebok o
Nike, che ora hanno quote elevate di produzione in Thailandia e in Indonesia,
possono guardare ad altri mercati produttivi ed è altresì evidente come la
geografia degli aiuti possa favorire nuove geografie della dipendenza. E'
comprensibile dunque la preoccupazione che l'India ha avuto nel controllare gli
aiuti, subito dopo la catastrofe, sia per evitare lo spionaggio militare sia per
riuscire a governare i propri confini nazionali.
Non solo, ma questa catastrofe è differente dalle
altre appunto a causa della presenza di turisti, epifania della nuova
dipendenza, la cui dimensione sovrannazionale obbliga a rendere operativa la
questione degli interventi globali. Sicuramente, in questo contesto l'Onu è
apparsa come un soggetto garante, però burocratico, per cui il movimento
altermondialista e la rete delle Ong dovrebbero, come hanno cercato di fare,
aprire il fronte degli interventi dal basso, magari di azione
globale.
Si pone qui il vero problema, cioè l'essere
apparentemente solo le multinazionali, ossia la forma-impresa, i soggetti che si
arrogano il diritto di agire "globalmente", definendo la strategia della
geopolitica della fabbrica nel mondo e quindi la sua morfologia sociale. In
questo contesto, appare debole lo stato nazionale, come conferma paradossalmente
il comportamento dell'India, e appare ancora embrionale il movimento delle
Ong.
C'è il comando capitalista, con la forma
dell'impresa che vorrebbe essere l'unico paradigma del globale, ci sono le
strutture burocratiche come l'Onu, ma manca un'azione dal basso che rappresenti
anche dentro le situazioni di crisi ed a livello globale i soggetti sociali. Lo
scontro è proprio sul dispositivo di comando, di rappresentanza del globale, di
chi è Gaia, il pianeta Terra? La forma-impresa non può essere la sintesi del
globale, perchè perde e distrugge la geografia del sociale, ma qui sta la nostra
debolezza.
Oggi ci sono forse solo le Ong a praticare dal
basso in modo disorganico e pulviscolare un'azione che interagisca col tessuto
sociale. Si tratta di capire se la rete delle Ong possa tramutarsi in uno dei
tanti controlli del capitale o essere un tassello del tessuto autonomo con cui
si esprime e realizza l'autonomia dei soggetti sociali, capaci di leggere e
tradurre la complessità di Gaia, del suo territorio e dei suoi
problemi.
Attorno allo tsunami e alle sue conseguenze si apre
dunque la geografia del "sottosviluppo", delle migrazioni, della dipendenza e
della necessità di una nuova internazionale non del turismo ma dei soggetti
sociali che sappia accumulare sapere e identità ache partendo proprio dai
cataclismi. Di chi è Gaia? Non certo del capitale.
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