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se il mercato detta legge - il crepuscolo del diritto
- Subject: se il mercato detta legge - il crepuscolo del diritto
- From: "ANDREA AGOSTINI" <lonanoda at tin.it>
- Date: Sun, 5 Feb 2006 06:57:31 +0100
da repubblica di sabato 4 febbraio
2006
SE IL MERCATO DETTA
LEGGE
Anticipazioni / Un saggio di Guido Rossi sui rischi del diritto di fronte al capitalismo La legislazione sembra quasi rassegnata a non tutelare i soggetti giuridici più deboli L´economia fugge e le regole arrancano, come nel paradosso di Achille e della tartaruga GUIDO ROSSI Anticipiamo un brano dal secondo capitolo di Il gioco delle regole, il nuovo saggio di (Adelphi, pagg. 110, euro 12) nei prossimi giorni in libreria. Il rapporto fra mercato e diritto, fra il gioco e
le sue regole, ripropone il paradosso di Achille e della tartaruga, col secondo
(il diritto) rassegnato a inseguire il primo (il mercato) sapendo che non lo
raggiungerà mai. Il punto nuovo è però che mentre per qualche secolo il diritto
è parso accettare questa sua scomodissima condizione, negli ultimi anni sembra
avere sostituito alla rassegnazione un iperattivismo fine a se stesso, e a
secernere senza soluzione di continuità norme sostanzialmente autoreferenziali,
che non incidono sulla realtà sociale né contribuiscono a garantire una
ragionevole equità o a tutelare i soggetti giuridici più deboli. È come se la
visione che del diritto proponeva Hans Kelsen, e che ha di gran lunga dominato
tutta la filosofia del capitalismo moderno, avesse perso i connotati di pura
speculazione teorica, vestendo i panni della realtà fattuale. Bisognerebbe
provare a capire adesso in che modo tutto questo sia potuto accadere.
Per Kelsen, il diritto è l´insieme delle regole che determinano il comportamento umano. E la sanzione presuppone lo Stato, cioè l´unica entità legittimata a giudicare il comportamento umano. La ce-sura con tutta la tradizione precedente è nettissima. Kelsen infatti esclude, e lo fa con grande rigore, qualunque riferimento a norme non scritte, ai princìpi superiori invocati da Antigone, alle leggi divine, insomma a quello che da secoli la dottrina giuridica aveva chiamato il diritto naturale, cioè quell´insieme di norme generali valide per tutti gli esseri umani, «superiori» a qualsiasi norma scritta dai legislatori. Per quanto radicale, o metafisica, questa concezione del diritto possa apparire ai nostri occhi, non bisogna dimenticare che in un certo senso rappresentava una formazione di compromesso fra idee (e pratiche) della giustizia molto più estreme. Ad Atene esisteva un tribunale, il Pritaneo, che basandosi su una sorta di diritto primitivo giudicava anche gli oggetti inanimati: in caso di incidente, l´oggetto responsabile veniva processato, condannato e distrutto. Nel Medioevo il diritto si estendeva a tutti gli esseri viventi, al punto che gli animali incriminati finivano in appositi tribunali, e venivano giudicati come gli uomini – applicando del resto l´insegnamento del grande giurista romano Ulpiano, secondo il quale il diritto era quod natura omnia animalia docuit », cioè quel che la natura ha insegnato a tutti gli animali. E gli esempi possibili arrivano ai giorni nostri, e alle recenti modifiche della costituzione indiana, che sanciscono il di-ritto alla vita – e alla cura, in caso di malattia, per tutti gli esseri viventi. (...) I limiti di una concezione autoreferenziale del diritto si toccano con mano quando il modello pan-giuridico entra in contatto con un´entità con la quale sembra ambire per natura a fondersi: il cosiddetto libero mercato. Al mercato, oggi, viene attribuita una sorta di potenza magica, in grado di comporre e risolvere qualunque problema economico. Il mercato, secondo i suoi apologeti più intransigenti, si porrebbe come un locus artificialis (non come un lo-cus naturalis), e si identificherebbe solo con lo statuto giuridico, da cui trae il massimo di libertà contrattuale – che è poi la libertà del più forte –, di chi è in grado di imporre la propria volontà. È abbastanza ovvio che le cose non stanno così, e che quel poco o quel tanto di razionalità presenti in ogni mercato non si reggono necessariamente su un sostrato giuridico. Il mercato è un organismo molto più complesso delle operazioni giuridiche che in esso si svolgono, o della disciplina che lo regola. È un insieme di scambi che fuoriescono dagli schemi contrattuali, e anche dalla sfera del diritto, e la mera esistenza di costi di transazione pone seri limiti alla sua efficienza. A meno di non inseguire il mercato ideale vagheggiato da Pareto, dove il vantaggio di qualcuno non provoca svantaggi ad altri, anche se per partorire questa bizzarra creatura è necessario un genitore scomodo e ingombrante, cioè un «sistema di comando» autoritario, formale ed esclusivamente riferibile al diritto, con l´esclusione di ogni elemento esterno e quindi di ogni costo di transazione (ma con la presenza inevitabile di forti squilibri fra le condizioni economiche e giuridiche dei vari attori). Al di fuori dei laboratori teorici, cioè nel mondo reale, il mercato è prima di tutto la sede (naturale) di un vastissimo e capillare bargaining, cioè di una contrattazione continua (e solo in parte «giuridica») che si articola in una serie di pratiche informali. Al suo interno, spesso fortunatamente, regna il disordine, e i contratti sono valutati, e considerati vincolanti, solo in base alla loro efficacia. La dottrina della Law and Economics americana ha dimostrato, per una volta in modo molto convincente, come anche nella valutazione degli schemi giuridici possa prevalere un opportunismo che va ben al di là del « dilemma del prigioniero». Questo esempio classico della teoria dei giochi vuole che due imputati di uno stesso crimine, se non possono comunicare fra loro, scelgano, in base a uno stesso calcolo di convenienza, la soluzione più svantaggiosa. I contratti e le norme giuridiche vengono spesso considerati in base a un criterio strettamente imprenditoriale: è più conveniente seguire lo schema contrattuale e obbedire alla legge, o essere inadempienti e affrontare le sanzioni che quella stessa legge prevede? Di fatto, nell´ambito del bargaining la valutazione è, per così dire, precedente al diritto, e nei comportamenti il peso di quest´ultimo si va attenuando. Le recenti tendenze alla deregolamentazione dei mercati in tutti i paesi a capitalismo avanzato rappresentano un´ulteriore inconfutabile prova che nega l´esistenza stessa di un ordine rigorosamente legislativo del mercato. Insomma, il capitalismo finisce per essere vittima di una alluvione legislativa che se da un lato tende ad affermare i princìpi di libertà (contrattuale, d´impresa, di mercato), dall´altro stritola quegli stessi princìpi attraverso la difesa burocratica delle asimmetrie, in un groviglio di regole che fanno prevalere la volontà del contraente più forte, o di quello che paradossalmente non rispetta alcuna regola. Di fatto, il comportamento «anarchico» dei vari attori ha una causa ben precisa: il bargaining è infatti per definizione around the law, intorno alla legge. Esiste cioè una realtà che precede la legge, e in qualche caso la ignora. Il caso tipico è quello dei cosiddetti grey market, termine col quale i giuristi anglosassoni definiscono tutte quelle situazioni in cui esiste il mercato, ma non il diritto. I grey market, in altre parole, vivono tranquillamente (o no) al di fuori delle preoccupazioni di chi dovrebbe, o vorrebbe, regolamentarli. In Italia, ad esempio, il mercato dei futures esisteva già quando ancora i giuristi discutevano l´ammissibilità di quel tipo di scambio, per certi versi equiparabile al gioco d´azzardo e alla scommessa. E mentre si ipotizzava la nullità degli scambi, gli investitori su quegli stessi scambi guadagnavano – o perdevano – fortune. Artificiale o naturale che sia, il mercato nasce dal basso, e il diritto è destinato a rincorrerlo, e tutt´al più a tentare di condizionarlo. In questo precisamente, risiede il suo ruolo – tutt´altro che marginale, come ovvio, ma molto diverso dall´assolutismo normativo con cui a volte lo si identifica. Se regole nuove (e possibilmente efficaci) servono, non vanno dunque derivate (solo) da altre regole, a meno di non voler innescare una proliferazione incontrollabile e vagamente sinistra; non solo di norme, ma anche di comportamenti che le eludono e che richiedono un ulteriore, immediato, intervento normativo. Prendiamo la trasparenza, da tutti considerata una precondizione inaggirabile dell´efficienza e della credibilità dei mercati. Il giudice della Corte Suprema degli Stati Uniti, Louis D. Brandeis, la paragonava qualche anno fa alla «luce del sole, che tutti sanno essere il miglior disinfettante». Eppure quella stessa luce, secondo la fulminante chiosa di Louis Loss, «può causare il cancro della pelle». Per fare solo un esempio, escogitare regole che incoraggino i dipendenti di una società a denunciare ogni presunto comportamento «opaco» della società stessa può tradursi nella rottura di altre regole, comunemente accettate per tutele diverse. È così che la trasparenza diventa delazione, quando, come avviene nel Sarbanes-Oxley Act (s. 806), i delatori (i ben noti whistleblowers) siano protetti o vengano addirittura ampiamente ricompensati. Oc-correranno regole aggiuntive in grado di tutelare al tempo stesso dipendente e società, in una spirale perniciosa, e tendente all´infinito, di aggiustamenti formali. No, le regole vanno ispirate, nei limiti del possibile, alla realtà e alle sue evoluzioni. Anziché ai codici si deve guardare, come suggeriva Auden, a ciò che esiste sotto il sole: «La Legge, dicono i giardinieri, è il sole, / la Legge è quella / cui tutti i giardinieri obbediscono / domani, ieri, oggi». |
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