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proposte per una nuova legge urbanistica nazionale
- Subject: proposte per una nuova legge urbanistica nazionale
- From: "ANDREA AGOSTINI" <lonanoda at tin.it>
- Date: Fri, 27 Jan 2006 07:00:21 +0100
da Eddyburg di lunedi 23 gennaio
2005
Proposte per una nuova legislazione urbanistica nazionale Autore: Salzano, Edoardo Relazione al convegno “Elementi imprescindibili di una legge urbanistica regionale”, Gruppi consiliari regionali Verdi, PRC, PdCI, Torino, 21 gennaio 2006 Il legislatore regionale non si muove nel vuoto. Egli è certo condizionato, in primo luogo, dalla situazione, dagli interessi, dalla cultura della sua regione. Ma la frenesia federalista non è giunta al punto di trasformare le regioni in isole segregate, in compartimenti stagni. Per ciò il legislatore regionale terrà conto anche del quadro nazionale, della cultura, degli interessi, della situazione che si esprimono nell’insieme della Repubblica di cui la Regione è parte. Vorrei domandarmi, all’inizio di questo convegno di riflessione sulla legislazione della Regione Piemonte, quali sono i riferimenti che è possibile assumere e proporre a livello nazionale. Senza dimenticare il ruolo forte che, soprattutto in questa fase della vita del nostro paese, può essere svolto da questa regione: una Regione che ha nella sua storia una buona legge, forse il più compiuto prodotto della cultura urbanistica di quei decenni, che me è cara anche perchè è stata in larga parte il prodotto di due persone il cui ricordo e il cui insegnamento sono vivi in me: due persone come Givanni Astengo e Alberto Todros. Domandiamoci in primo luogo a che punto stiamo La legge Lupi e il lupismo Il quadro nazionale non è incoraggiante. Ciò significa che è necessaria molta determinazione e molta lucidità per ricostruire strumenti positivi di governo del territorio: strumenti che consentano di utilizzare al meglio – oggi e domani, per noi e per i nostri posteri – le risorse di cui ancora disponiamo dopo la grande dilapidazione che è avvenuta soprattutto negli ultimi anni. Parlo di risorse culturali, ambientali, paesaggistiche, come delle risorse costituite dall’intelligenza, dalla capacità di lavoro, dalla sapienza amministrativa, e parlo dal patrimonio che mediante l’impiego di queste risorse è stato costituito nel territorio. Il quadro non è incoraggiante. A meno di un colpo di mano ancora possibile, non dovrebbe giungere alla fine del suo percorso la legge denominata “Principi per il governo del territorio” che la Camera dei deputati ha approvato il 28 giugno 2005 e che è ancor oggi all’esame del Senato. Forse è un cadavere che sta alle nostre spalle. Ma la vicenda della sua gestazione rivela una situazione culturale e politica che a me sembra francamente allarmante. Se la legge Lupi è morta, non è morto il “lupismo”: cioè quella ideologia così largamente condivisa che ha potuto far esclamare all’onorevole Lupi, all’indomani dell’approvazione della legge, che essa è il prodotto di un lavoro bipartisan. Frase che non ha potuto essere contestata, poiché tutto il lavoro parlamentare testimonia il sostanziale accordo tra i parlamentari della destra e larga parte di quelli dell’opposizione su alcuni punti nodali del provvedimento. Del resto, è largamente noto che nella formazione della Legge Lupi, e nella mediazione tra le proposte della destra e quelle di componenti rilevanti del centrosinistra ha svolto un ruolo rilevante la stessa cultura urbanistica ufficiale: quella rappresentata dall’Istituto nazionale di urbanistica. Un Istituto del quale sono stato presidente in tempi che mi sembrano lontani anni luce da quelli che abbiamo appena attraversato. Una cultura ormai diffusa La tesi che sostengo è che la legge Lupi esprime una cultura ormai diffusa, di cui si trovano tracce rilevanti in più d’una legislazione regionale e nel comportamento di molte amministrazioni locali di destra, di centro e di sinistra, la quale ha abbandonato alcuni principi cardine dell’urbanistica moderna e ha cercato: - negli interessi immobiliari il protagonista delle trasformazioni territoriali, e quindi gli attori da promuovere e premiare - nel potere pubblico uno strumento da trasformare da regista, arbitro e garante delle trasformazioni territoriali e urbane, a facilitatore degli interessi immobiliari, - nel sistema delle regole (e perfino nei meccanismi della democrazia) un impaccio fastidioso da cui liberare i portatori di interessi privilegiati. E’ del tutto evidente che da questa logica, nell’ambito di questa ideologia (e dei corposi interessi di cui è al servizio) derivano effetti molto gravi sotto due profili decisivi: quello della conservazione del patrimonio comune e quello della decadenza dell’economia. L’aggressione al patrimonio comune Il patrimonio comune (il territorio, l’ambiente, il paesaggio) diventa merce di scambio per consentire urbanizzazioni ed edificazioni. Le quantità dell’espansione urbana non sono più determinate sulla base delle necessità oggettive di nuove costruzioni per la residenza, per la produzione, per il commercio, per le attrezzature, ma dalla domanda degli investitori immobiliari. Ogni nuova attività proposta, che richieda impiego di suolo e sua sottrazione al ciclo naturale (un porto turistico, un centro commerciale, una zona direzionale, un insediamento di case per vacanze), non viene valutata in relazione alla sua utilità sociale e alla sua fattibilità economica, ma semplicemente all’occupazione temporanea che può indurre (nel migliore dei casi) e dal giro di affari che promuove (nel peggiore). E la sua localizzazione non discende da un’analisi sulla corretta disposizione degli elementi della struttura territoriale nello spazio, in relazione alle caratteristiche dei siti, all’accessibilità, alle esigenze della tutela, ma semplicemente dalla disponibilità dei proprietari a promuovere trasformazioni del loro patrimonio immobiliare (e magari delle sue esigenze di “valorizzazione”) Non voglio dilungarmi nella descrizione dei danni che questa ideologia (e questa prassi) comportano sul patrimonio comune, sulla corretta organizzazione della città e del territorio, sulla loro vivibilità. Credo che esse siano evidenti a tutti i presenti. Vorrei invece accennare a un aspetto che troppo spesso viene trascurato: se non lo fosse, probabilmente l’attenzione delle foze sociali alla questione del governo del territorio sarebbe più vigile e continua. Un contributo alla decadenza dell’economia italiana Gli osservatori più attenti hanno ricordato l’estate scorsa il ruolo nefasto che ha giocato, nel sistema economico italiano, il peso della speculazione e delle rendite immobiliare e finanziaria che l’alimenta. Si è posto l’accento “sui danni che le rendite - anche quelle immobiliari - provocano al Paese” (F. Giavazzi, Corriere della sera, 9 agosto 2005 ). Si è osservato come nel sistema economico italiano al circuito merce-denaro-merce si sia sostituito quello denaro-merce-denaro, rilevando che “tra le due definizioni c'è molta differenza: con la prima si crea ricchezza reale che alimenta una lotta nella fase distributiva; con la seconda c'è il trionfo della sola speculazione, dell'arricchimento individuale” (Galapagos, il manifesto, 6 agosto 2005). E molti hanno osservato come non solo la destra (una destra ben lontana da quella espressa dalla borghesia liberale dei Sella e degli Einaudi), ma anche la sinistra, tradizionalmente attenta nel comprendere i mutamenti della struttura economica del paese e vigile nel combattere il prevalere degli interessi della rendita parassitaria, si sia dimostrata incapace di contrastare il trionfo degli immobiliaristi e, anzi, sia apparsa addirittura complice. Come mai, però, questa situazione si è determinata? Solo una decadenza nella “cultura di governo” del ceto politico? In questa fragilità culturale si esprime una più profonda fragilità del sistema economico-sociale, sulla quale è utile riflettere. Il prevalere delle rendite nel nostro sistema - questa particolarità dell’economia italiana, che la rende lontana da quella degli altri paesi europei - affonda infatti le sue radici nel modo stesso in cui fu realizzata l’unità d’Italia: svellerle richiede quindi sforzi poderosi, strategie lungimiranti, determinazione eccezionale. Ma è una strada obbligata se si vuole evitare la decadenza irrimediabile. Per ridare prospettiva all’economia (sia pure in una logica capitalistica, qual è l’unica data sebbene non sia l’unica possibile) sconfiggere la rendita è un passaggio essenziale. E duole constatare come siano rari e discontinui i segni della comprensione di ciò da parte del personale politico e di quello sindacale: solo Bertinotti, Prodi, Epifani hanno segnalato, con parsimonia, la rilevanza di questo passaggio. E il “progetto dell’Italia” dell’Unione si limita ad affermare che “verranno assunte le iniziative necessarie a contrastare i privilegi legati alla rendita, le rendite di posizione e le distorsioni derivanti dai monopoli pubblici e privati” Ce n’est qu’un debut, piuttosto flebile in verità. Vorrei domandarmi adesso che cosa dovrebbe stabilire una legge nazionale. L’ispirazione di una legge adeguata m sembra riassumibile in una convinzione e una consapevolezza. Vorrei esprimerle entrambe con parole non mie. La convinzione l’hanno espressa molto bene Alberto Magnaghi e Anna Marson, nel loro contributo raccolto nel volumetto La controriforma urbanistica, a cura di Maria Cristina Gibelli, Alinea Editrice, che ieri abbiamo presentato al Politecnico: “Il principio basilare dovrebbe affermare la centralità del territorio come bene pubblico e collettivo, o meglio come “bene comune” [cioè non alienabile senza il consenso della comunità] essenziale al benessere delle comunità su di esso insediate.Questo principio si fonda sul presupposto che il territorio costituisca l’ambiente essenziale alla riproduzione materiale della vita umana, e al realizzarsi delle relazioni sociali e della vita pubblica. Territorio non è quindi soltanto il suolo o la società ivi insediata, ma il patrimonio (fisico, sociale e culturale) costruito nel lungo periodo, valore aggiunto collettivo che troppo spesso viene distrutto, anche da amministrazioni di centro-sinistra, in nome di un astratto e troppo spesso illusorio sviluppo economico di breve periodo”. La consapevolezza che deve animarci la esprimo con le parole impiegate da Roberto Camagni, raccolte nello stesso volumetto: “Il territorio è bene pubblico e collettivo, che fornisce benefici alle comunità locali sotto forma di benessere degli abitanti ed efficienza dei settori produttivi, e che non viene adeguatamente garantito dal puro operare di rapporti di mercato [...]; esso richiede pertanto attività di pianificazione, di cooperazione nella decisione e di governo, oltre che lo sviluppo di virtù civiche e di una cultura territoriale diffusa. Come tradurre questa convinnzione e questa consapevolessa in precetti legislativi, in “principi” di una legge nazionale sul governo del territorio? Da tempo abbiamo proposto alcune idee. Il comportamento generale del potere pubblico Il primo principio non può che essere la prevalenza dell’interesse pubblico. La sua motivazione sta nel fatto che affermato da sempre come necessario nella stessa storia della pianificazione urbanistica e territoriale: questa infatti è caratterizzata, fin dalla sua nascita, dalla circostanza di essere uno strumento necessario per affrontare questioni che il mercato, di per se, non è in grado di affrontare. Tale rimane nella società di oggi. Essa consiste nel definire regole e promuovere azioni che consentano una utilizzazione del territorio coerentemente finalizzata a determinati obiettivi culturali, sociali e politici. Accanto a questo principio ne porrei altri tre: - il principio di pianificazione, ossia la regola che le decisioni sul territorio vengono espresse con atti precisamente riferiti al territorio, sintetici (ossia comprendenti l’insieme delle scelte sul territorio che competono all’ente decisore), formati con procedure trasparenti che comprendano la partecipazione dei cittadini o delle loro rappresentanze; da tutti, a cominciare dallo Stato, le cui scelte non possono derivare da una serie di decisioni settoriali o, peggio ancora, da un “Contratto con gli italiani” disegnato sulla lavagna di Porta a porta; .- il principio di competenza, ossia la prescrizione che la formazione degli atti di pianificazione compete solo agli enti elettivi di primo grado: Stato, Regione, Provincia e Città metropolitana, Comune, - il principio di sussidiarietà, non nella versione demagogica alla Bossi – che anche il centrosinistra ha assunto con la modifica al titolo V della Costituzione, nell’illusione fallace di tagliare l’erba sotto i piedi alla Lega - ma come definito dai regolamenti europei, cioè senza nessun privilegio per i livelli sottordinati o per quelli sovraordinati, ma con riferimento al livello e alla scala degli oggetti e aspetti considerati. I contenuti e le modalità della tutela dei beni pubblici d’interesse nazionale Sostenibilità significa non lasciare ai posteri meno risorse di quante ne possiamo godere. Ciò impone di stabilire criteri di pianificazione che contribuiscano a controllare l’impiego di tutte le risorse e a individuare per ciascuna di esse il livello e l’autorità di pianificazione più idonei a tutelarle: ciò vale in primo luogo per le risorse basilari (acqua, aria, terra ed energia), sempre più sacrificate a una crescita della produzione di merci divenuta ormai, oltre che umanamente superflua, anche in violento contrasto, potenzialmente mortifero, con l’intrinseca limitatezza delle risorse. Ma le risorse non sono soltanto le quattro fondamentali (acqua, aria, terra ed energia): massimo rilievo per la civiltà umana hanno cultura, storia e bellezza. Sembra allora maturo il momento per riprendere ed estendere la tutela dei valori che la natura e la storia hanno sedimentato nel territorio accrescendo la sua qualità. Anche qui, si tratta di andare avanti lungo un percorso che è stato già avviato negli anni Settanta e Ottanta. Mi riferisco all’innovazione introdotta con la cosiddetta Legge Galasso del 1985, con la quale si sono affermati due principi. Il primo è quello di superare la scissione tra paesaggio e urbanistica, e di attribuire la “considerazione dei valori paesaggistici e ambientali” alla ordinaria pianificazione urbanistica e territoriale. Una scissione che ha provocato danni infiniti, contraddizioni, conflitti – naturalmente risolti sempre a danno della parte più debole, il paesaggio, sacrificato sistematicamente alla parte più forte, l’urbanistica intesa come edificazione e infrastrutturazione cementizia. Una scissione che l’ideologia sottesa alla Legge Lupi (e la stessa lettera della legge) sciaguratamente ripropongono. Il secondo è quello di stabilire che l’individuazione delle qualità e dei valori del territorio meritevoli di tutela (come quella delle risorse non rinnovabili e dei rischi attuali e potenziali) sono oggetto di scelte di pianificazione che hanno la priorità rispetto alle scelte di trasformazione e urbanizzazione: sono invarianti che caratterizzano lo statuto del territorio, per riprendere i termini assunti nella legislazione della Regione Toscana. In questo quadro, mi sembra che sia giunto il tempo di dichiarare che il territorio rurale, come quello naturale, sono beni che non devono essere sottratti al godimento delle generazioni presenti e di quelle future, e quindi i terreni esterni a quelli definiti come urbani o urbanizzabili devono essere preservati da qualsiasi edificabilità. Il testo legislativo proposto da Italia Nostra nel corso della precedente gestione suggerisce appunto di introdurre questo principio aggiungendo una lettera (una categoria di beni) all’elenco dei beni da tutelare introdotto dalla Legge Galasso e ribadito dalle successive edizioni del Codice dei beni culturali e del paesaggio. I diritti dei cittadini della repubblica italiana Una ulteriore serie di principi dovrebbe regolare alcune questioni decisive del rapporto tra interessi privati e interessi collettivi nelle trasformazioni territoriali. Al vertice di questo gruppo di temi) ne porrei alcune che riguardano i diritti dei cittadini. Oltre alla questione dell’ambiente, della sua salubrità e della sua qualità – cui ho or ora accennato - si tratta di alcune questioni che, negli anni Sessanta e Settanta, furono al centro di un vasto movimento sociale e di un’intelligente lavoro politico e legislativo: la questione dei servizi sociali, quella della casa e quella della mobilità. Sulla prima questione mi riferisco al movimento, e all’azione politica, che portarono anche il nostro paese a stabilire dei requisiti minimi essenziali di vivibilità che dovevano essere garantiti a tutti i cittadini: i cosiddetti “standard urbanistici”. Questi devono certamente essere rivisti, aggiornati e integrati, tenendo conto delle nuove esigenze sociali e di antiche esigenze mai risolte (come quella alla casa), ma certamente alcuni “limiti non derogabili” di tali requisiti devono essere garantiti a ciascun cittadino della Repubblica, quale che sia la regione in cui abbia il suo domicilio. Mi riferisco, in secondo luogo, all’azione per realizzare il principio della casa come servizio sociale. Fu un’azione che condusse a ottenere strumenti ricchi di potenzialità non del tutto utilizzate, sia sul versante della realizzazione di interventi di edilizia residenziale pubblica e sociale, sia su qello del controllo del mercato privato. Un’azione che esigerebbe oggi strumenti nuovi, più adatti alle profonde modifiche che hanno distorto l’uso dello stock edilizio, ma che invece è stata sostituita dal semplice smantellamento degli strumenti faticosamente conquistati. Mi riferisco infine alla questione della mobilità e all’angosciosa situazione del traffico, provocatrice di sprechi immani di risorse e di non misurabile malessere delle persone. E’ una questione che nasce da scelte di politica economica compiute nel dopoguerra, già allora segnalate come foriere di drammatiche conseguenze, che hanno sviluppato tutta la loro carica negativa. In pochi casi come questo la contraddizione tra carattere di massa delle esigenze e carattere indiividualistico delle soluzioni offerte ha rivelato la sua devastante portata. Credo che su questi temi la Repubblica (che è costituita dai comuni, dalle province, dalle regioni e dallo Stato) non possa tacere lasciando a ogni regione di definire diversamente i diritti dei propri cittadini. La legislazione nazionale deve stabilire alcuni paletti, alcuni diritti che valgano per ogni cittadino italiano, dovunque abbia fissato la sua residenza. E ai principi che la legge nazionale deve stabilire devono accompagnarsi provvedimenti capaci di suscitare politiche, azioni, interventi concreti sui diversi settori coinvolti: a partire dall’economia. I limiti del diritto di proprietà Le peggiori devastazioni del territorio (oltre a quelle derivate dalla miopia scriteriata di cui hanno dato spesso prova i promotori delle opere pubbliche) sono state indubbiamente provocate dal prevalere degli interessi della proprietà immobiliare, in particolare di quella fondiaria. E’ a questo prevalere che si deve anche l’0irrazionalità dell’assetto delle nostre città e dei nistri territori. Sono convinto che questo sia un punto notale di una buona legge per il governo del territorio. Non si tratta di innovare gran che sul terreno dei principi giuridici già presenti nel nostro diritto, quanto di definirli con maggiore chiarezza e perentorietà e di tradurli in istituti e procedure più chiari ed espliciti. Occorre precisare che la facoltà di edificare (ciò che taluni chiamano “diritti edificatori”) si costituisce solo in presenza di atto abilitativo (concessione edilizia o approvazione di progetto che sia) e ove i lavori siano iniziati. Non esiste alcun “diritto” del proprietario a costruire alcunchè sul terreno di sua proprietà, anche se un piano regolatore legittimamente approvato lo consentiva e una successiva variante riduce o elimina del tutto la prevista edificabilità. Perfino una lottizzazione convenzionata già stipulata può essere annullata dall’amministrazione, se la motivazione è adeguata e se i proprietari sono indennizzati delle spese documentatamente e legittimamente sostenute. Occorre ribadire che i vincoli ricognitivi, quelli cioè che costituiscono la concreta individuazione sul territorio di beni appartenenti a categorie tutelate da leggi nazionali e regionali (beni architettonici, ambientali, storici, paesaggistici) non sono indennizzabili, come ha stabilito una costante giurisprudenza costituzionale, a partire dalle famose sentenze 55 e 56 del 1968, con una chiarezza e una perentorietà crescenti. Occorre stabilire che i vincoli funzionali, quelli cioè che derivano dalla scelta di riservare determinate aree (diverse da quelle di cui al punto precedente) alla realizzazione di servizi o impianti di pubblico interesse e pubblica fruizione, possono essere compensati nel rispetto delle prescrizioni urbanistiche vigenti. Che l’espropriazione deve avvenire entro termini temporali certi e che, in assenza. l’ente pubblico è tenuto a pagare l’indennizzo di legge e ad acquisire il bene al proprio patrimonio. L’articolazione della pianificazione in due componenti (una strutturale, che definisca i vincoli ricognitivi e lo “statuto dei luoghi”, una programmatica e operativa, che stabilisca che cosa, nel periodo di tempo considerato, si farà e si lascerà fare ai diversi soggetti interessati) può essere uno strumento utile per lavorare in questa direzione, sebbene non mi sembri opportuno che questa prassi tecnica venga stabilità da una legge nazionale. Infine, occorre stabilire che la perequazione tra proprietari di immobili cui il piano attribuisce differenti possibilità di utilizzazione, può essere praticata solo nell’ambito di ciascun comparto d’intervento operativo, come era del resto previsto, sia pure con qualche ambiguità, dalla proposta che era stata presentata dai deputati della Margherita. Generalizzazione, in altri termini, delle tecniche di compensazione tra proprietari interessati dalla medesima operazione trasformativa (come previde la legge 1150/1942 con i comparti, e la legge 765/1967 con e lottizzazioni convenzionate), ma non spalmatura generalizzata di edificabilità sul territorio, che oltretutto sancirebbe un diritto dei proprietari a una qualche quota di edificazione che nulla, nel pur arcaico diritto italiano, ha finora riconosciuto. Per concludere. Il ruolo delle regioni Non sono un federalista. In Italia il federalismo ha in significato opposto a quello che il vocabolario e la storia gli assegnano: il federalismo all’italiana è qualcosa che divide, mentre il federalismo è nato per unire. Sono invece un regionalista convinto. ma non nel senso che le regioni debbano chiudersi al loro interno, rivendicando poteri dallo Stato per gestirli in piena autonomia. Credo che tra le regioni e lo Stato ci debba essere un forte interrelazione, anche nel senso che le regioni più forti ed evolute devono, generalizzando a livello statale le loro conquiste, trascinare quelle meno fortunate. Fu così, del resto, che l’esperienza del buon governo del territorio in alcune regioni contribuì a formare la legislazione riformista degli anni Sessante e Settanta. Non posso mancar di ricordare, in questa sede, il ruolo che svolse Giovanni Astengo nei primi anni dell’entrata in vigore dell’ordinamento regionale. Una corretta applicazione del principio di sussidiarietà (non alla Bossi, ma alla Delors) può essere d’aiuto nel determinare le reciproche competenze. Ma a me qui, in Piemonte, interessa più sottolineare la responsabilità nazionale che ciascuna regione deve cercar di assumere. E vorrei a questo proposito accennate a un ultimo tema, che non saprei in quale livello di legislazione urbanistica collocare (forse in nessuno), ma che permea tutta la tematica del governo del territorio: mi riferisco alla questione della partecipazione. Partecipazione e democrazia È un tema molto delicato. Si pone sulla cerniera di quel rapporto che legittima l’urbanistica: il rapporto con la politica e con la società. La questione che c’è sotto è globale: è la questione della democrazia. In Italia il nodo è quello del rapporto tra società e politica. Questo rapporto si è rotto: la società non si sente più rappresentata dagli strumenti e dagli istituti della democrazia. I partiti, e di conseguenza le istituzioni non hanno più credito. Se la maggioranza dei cittadini li subisce (e comunque elude i valori che essi dovrebbero rappresentare, accettando il potere reale degli strumenti di comunicazione di massa), quella porzione che si rifiuta di sottomettersi chiede di rappresentarsi da sé: di decidere, o almeno di partecipare direttamente al processo delle decisioni. Si forma così (caso per caso, episodio per episodio) una opposizione al “potere che decide” che vuole decidere in sua vece. Ma poiché non ha la forza per costruire, riesce solo a decidere ciò che non va fatto: riesce a bloccare le decisioni, a ritardarle. Magari a proporre una soluzione alternativa: mai a praticarla. Ecco che la partecipazione (questa partecipazione) diventa una forza di paralisi. Al tempo richiesto dal gioco di pesi e contrappesi della democrazia, che è nato per garantire interessi legittimi contro il decisionismo del tiranno, si aggiungono così i tempi degli arresti provocati dalla partecipazione. La crisi del sistema aumenta. Il rapporto tra politica e società Mi rendo conto di dare un’interpretazione che può apparire pessimistica della partecipazione. Allora cerco di domandarmi da dove nasce quella crisi del rapporto tra politica e società cui la partecipazione vuole dare una risposta “dal basso“. La mia tesi è semplice, forse semplicistica. Quando la democrazia fu introdotta in Italia (dai comunisti, dai democristiani, dai socialisti, dai liberali), essa prevedeva una stretta relazione collaborativa tra i partiti e le istituzioni. Le istituzioni, gli strumenti della democrazia rappresentativa, erano nutrite dalla società attraverso i partiti: ben al di là del collegamento a lunga periodicità dei comizi elettorali. I partiti, e soprattutto i grandi partiti, esprimevano le diverse componenti della società: nei loro ideali e nei loro interessi, nei loro egoismi e nelle loro speranze. Davano ad esse un progetto di società, in nome del quale chiedevano l’adesione e fornivano soluzioni. Mediando tra loro, ricercando intese dove era possibile raggiungerle, e denunciando differenze dove queste restavano, governavano attraverso le istituzioni. Il rito pluriennale delle elezioni non era quindi che una verifica periodica della forza elettorale dei diversi partiti, ma ciascuno di questi era il tramite quotidiano tra la società (certo informalmente rappresentata) e le istituzioni. Il problema allora cui la partecipazione allude è proprio questo: come ricostituire un legame tra società e istituzioni, che salvi queste dalla necrosi e restituisca alla società la possibilità di intervenire positivamente sul potere? Come sostituire (o ricostituire) i partiti, e il ruolo che essi svolgevano? Oppure, avvicinandoci a un livello più praticabile, come utilizzare la partecipazione nelle decisioni sul governo del territorio in modo da aiutare il superamento della crisi in atto? Una risposta in due direzioni A me sembra che la risposta vada cercata in due direzioni, che richiedono entrambe un impegno reciproco: da parte delle istituzioni, e da parte dei membri della società. Innanzitutto bisogna ricordare che il primo requisito della partecipazione è la conoscenza esatta delle questioni su cui si decide. Garantire la conoscenza è compito impegnativo per le istituzioni. Richiede di ripensare compiutamente le procedure, e soprattutto la forma dei materiali, del processo di formazione degli atti in cui si esplicita la decisione. Richiede un investimento consistente di risorse: intelligenze, formazione, persone, mezzi finanziari. Ed è un compito impegnativo anche per l’altra parte, per i cittadini: richiede attenzione, studio, costanza, modestia nell’esprimere le proprie idee. Non è poco, rispetto ai modi in cui si esprime la partecipazione oggi. In secondo luogo, bisogna ricordare la massima di Winston Churchill: “La democrazia è un sistema pieno di difetti, ma tutti gli altri ne hanno di più”. Ciò significa che alcune regole elementari della democrazia vanno rispettate, e vanno rispettati i suoi istituti. Rispettati, e adoperati, finché non se ne costruiscono di migliori. Significa che la partecipazione deve passare attraverso le istituzioni, lottando per il loro corretto funzionamento. E significa che le istituzioni devono fare il massimo sforzo per aprirsi alla società, senza rinchiudersi nel rapporto (ormai divenuto sterile) con i partiti. Bisogna forse avere più coraggio nel praticare tutti i lati del triangolo costituito dal rapporto tra istituzioni, partiti e società. Senza cadere nell’errore della demagogia populistica, conservando tutto il rigore richiesto dalla missione di governo, ma evitando di ripiombare nelle pratiche del secolo scorso, divenute ormai sterile palude: come le vicende politiche di molte città italiane testimoniano. |
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