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il business della paura. affari d'oro per l'industria del terrore
- Subject: il business della paura. affari d'oro per l'industria del terrore
- From: "ANDREA AGOSTINI" <lonanoda at tin.it>
- Date: Mon, 2 Jan 2006 10:08:46 +0100
da boiler.it lunedi 19 dicembre 2005
FOCUS: Sicurezza
Il business della paura Fare affari d'oro con l'industria del terrore. Dall'11 settembre in poi, negli Usa è boom per la tecnologia rivolta alla sicurezza. Software e macchinari, che valgono miliardi e muovono la borsa. Gli interessi del governo e quelli delle migliaia di aziende private. Tutto nacque alle Olimpiadi di Monaco di EVAN RATLIFF ALLA PERIFERIA OVEST di Washington DC, si trova il Dulles International Airport, crocevia in cui transitano 63 mila passeggeri al giorno. Il Pentagono è pochi chilometri a sud-est, e gli altri obiettivi nevralgici – la Casa Bianca, il Campidoglio – sono appena a est, al di là del Potomac. Alla base del terminal, una stazione della metro gestisce un traffico giornaliero di migliaia di pendolari. Guardando fuori dalla finestra, Tom McMillen legge in questo panorama molteplici opportunità: macchine per la scansione dei bagagli, software di analisi dei dati, dispositivi di videosorveglianza, strumentazione high tech per il personale d’emergenza. McMillen ha fondato Fortress America lo scorso inverno. A luglio senza aver sfornato alcun prodotto, senza nessuna entrata e certamente con zero profitti è riuscito a farsi quotare in Borsa 46,8 milioni di dollari grazie a una semplice promessa: quella di spenderne almeno 30 per l’acquisizione di un’azienda specializzata nel settore della prevenzione e del recupero post catastrofe. E ora si sta guardando intorno per vedere dove investire. Quel che quest’uomo è oggi è un fantasioso mix di sport, politica e business: studente della Rhodes, ex Nba (nei suoi undici anni di carriera ha giocato per ben quattro squadre), per tre volte rappresentante del Maryland al Congresso, manager di successo della Beltway. Al momento, però, fa squadra a sé. “Stiamo ancora sistemando”, spiega. Per ora non ha intenzione di assumere nessuno. Del resto, non ci sarebbe comunque granché da fare. Ma com’è possibile che qualcuno sia riuscito a procurarsi tutto questo denaro senza offrire in cambio null’altro che la vaga assicurazione di acquistare qualcosa? Per rispondere a questa domanda bisogna rifarsi all’anno 1972. “Ero molto giovane, avevo appena vent’anni”, racconta McMillen. Faceva parte della squadra americana di basket alle Olimpiadi di Monaco in cui undici atleti israeliani vennero presi in ostaggio da terroristi palestinesi. Tutti e undici morirono, due nella loro stanza e gli altri in un raid per salvarli all’aeroporto. “All’epoca mi dissi che non sarebbe trascorso molto tempo che la stessa cosa sarebbe accaduta anche all’America”, ricorda. “Ci sono voluti trent’anni”. In tutto quel tempo, spiega, mentre Europa e Israele si davano da fare per iniziare a elaborare strategie di difesa contro il terrorismo, gli Usa non sono riusciti a sviluppare una mentalità – né una tecnologia – adeguate a proteggere i propri abitanti. Dopo l’11 settembre, McMillen ha deciso che era il momento di reagire. Fortress America è una delle tre società che ha fondato per cercare di capitalizzare un contesto sociale sempre più preoccupato dall’eventualità di disastri. La Global Secure, avviata nel 2003 dalla fusione di tre piccole aziende produttrici di tecnologie ed equipaggiamenti di primo soccorso, ad agosto è stata quotata in Borsa 100 milioni di dollari (a oggi McMillen non vi ricopre incarichi ufficiali ma resta uno degli azionisti di maggioranza) e secondo i prospetti pubblicati prevede per l’anno prossimo di ricevere oltre 15 miliardi di dollari in investimenti federali nel settore della “risposta a eventi critici”. Per finire, sempre ad agosto McMillen ha rilevato la Celerity Systems, l’ha trasformata sul modello della Fortress America come società incaricata dell’acquisizione di altre start up (possibilmente per meno di 30 milioni di dollari) e l’ha prontamente ribattezzata Homeland Security Capital. Per la Fortress America, il democratico McMillen ha arruolato un team di consulenti tra cui anche gli ex repubblicani Don Nickles e Asa Hutchinson, che tra l’altro è stato anche per due anni sottosegretario alla Sicurezza. Circa 40 milioni dei dollari guadagnati in Borsa sono depositati su un conto a garanzia, in attesa che McMillen e l’amministratore delegato dell’azienda, il veterano dell’high tech Harvey Weiss, scelgano l’obiettivo da acquisire. “Già il 12 settembre c’erano probabilmente un migliaio di società che il 10 non esistevano, tutte che si proponevano di riorganizzare sistemi di sicurezza antiterrorismo”, spiega Weiss. “Molte sono fallite. Ma il governo ha speso tantissimo in ricerca e sviluppo, garantendo a laboratori e dottorati ingenti finanziamenti con cui sviluppare il più rapidamente possibile le proprie innovazioni”. McMillen e Weiss, del resto, non sono gli unici a operare nel settore della sicurezza. Richard Clarke, ex imperatore dell’antiterrorismo nonché autore di Against All Enemies: Inside America's War on Terror, è per esempio titolare della Good Harbor Partners. Anche lui sta per farsi quotare in Borsa per quanto, come la Fortress America, la sua sia ancora poco più che una promessa di holding. Il programma, anche in questo caso, è quello di usare i soldi guadagnati dalla quotazione per acquisire un’azienda specializzata in “gestione e riduzione dei rischi e prevenzione delle catastrofi”. Benvenuti nel paradiso industriale della sicurezza, un mondo in cui gli scenari apocalittici moltiplicano gli indici di marketing, patriottismo fa rima con capitalismo e il bottino va tutto a chi è in grado di placare una società volubile e incostante. “Ovviamente la cosa migliore è che in America non si verifichi mai una catastrofe nucleare o un attentato al gas nervino”, spiega Weiss, “ma avete idea di quanti soldi si è disposti a spendere per prepararsi a eventualità del genere? È solo questione di tempo prima che qualcuno scopra qualcosa di sospetto in un container in transito nel porto di Baltimora, Charleston o Long Beach”. Usa, i miliardi del governo I PERIODI di incertezza sono sempre periodi di boom. I governi stanno spendendo miliardi nel finanziamento della ricerca e sviluppo di tecnologie che mettono a repentaglio la privacy (come video sorveglianza e analisi dati) ma anche che la tutelano (crittografia, network security, applicazioni per l’anonimizzazione). Imprenditori e Borse spendono ancora di più. Le proiezioni riproducono quelle del periodo dotcom in passato dispensate a profusione da società di ricerca come Forrester e Jupiter: 400 milioni di dollari per il solo mercato dei sensori nel 2005; 800 milioni per l’analisi video entro il 2009; 10 miliardi per la biometria e 36 per le tecnologie fisiche (indumenti antiproiettili o ignifughi) entro il 2007. Già oggi l’intero comparto vale complessivamente 200 miliardi di dollari. All’epoca del dotcom i potenziali investitori venivano incoraggiati attraverso lodi sperticate dei vantaggi legati alla connettività ubiqua. “Immaginate un mondo in cui…” era il ritornello. Gli operatori del settore della sicurezza invece generalmente attaccano con un “Dio non voglia che…” abbinato a richieste di finanziamento da parte del governo per prevenire questa o quella catastrofe. “In un mondo ideale sarebbe bello non dover spendere tutti questi soldi”, commenta McMillen. “Del resto ben pochi comparti industriali contengono nella propria intima essenza un imperativo. Non è scritto da nessuna parte che ci si debba preoccupare della salute, del welfare, dell’istruzione. Ma è necessario preoccuparsi della sicurezza di tutti”. Un’opportunità fantastica per coniugare affari e fedeltà alla nazione. Ma non equivocate: gli affari sono affari. “Non è un movimento di attivisti”, precisa McMillen. “La visione dei più è assolutamente spassionata”. Nel settore della prevenzione dei disastri, tutte le strade portano al governo, che spende con grande liberalità in iniziative su larga scala, dal Progetto BioShield da 5,6 miliardi di dollari, lanciato l’anno scorso con l’obiettivo di formulare vaccini e trattamenti anti-bioterrorismo, ai 172 milioni di dollari investiti nella tutela della sicurezza degli alimenti ai sei/dieci miliardi di dollari per la sintesi di farmaci contro l’aviaria. Molti dei fondi al momento sono bloccati, ma resta comunque un capitale ingentissimo a disposizione. Il Dipartimento della Sicurezza, creato nel 2002 in risposta all’11 settembre, conta su un budget di 49,9 miliardi di dollari, di cui 9,5 sono da considerare “investibili nel privato”, il che rende quest’ente il principale finanziatore di tecnologie per la gestione delle catastrofi, con contratti che vanno da un progetto da 244 mila dollari per la progettazione di un dispositivo di allerta per i sub che si avvicinano ad aree sottoposte a restrizione, a un sistema biometrico da 10 miliardi di dollari, l’Us-Visit, per la gestione dei dati relativi all’immigrazione. Il Direttorato di Scienza e Tecnologia del Dipartimento, centro nevralgico della ricerca e sviluppo in materia di sicurezza, occupa due interi piani di un edificio al centro di Washington. Agglomerato infinito di sottodipartimenti e programmi, tra cui anche l’Homeland Security Advanced Research Projects Agency (Hsarpa, ideale cugina della Darpa del Pentagono), il direttorato il prossimo anno investirà 1,4 miliardi di dollari in ricerca e sviluppo. Per chiunque sia alla ricerca di fondi per la realizzazione di dispositivi di sicurezza, questo è il posto ideale in cui cercarli. Tre responsabili dell’agenzia hanno accettato di incontrarmi per spiegarmi come viene smistato il denaro. “La vera fonte di innovazione è il settore privato”, racconta Peter Miller, capo del Mission Support Office. L’Hsarpa viene costantemente inondata di proposte di compagnie che rispondono alle gare d’appalto o anche che semplicemente cercano autonomamente di promuovere i propri prodotti. “Noi di nostro non realizziamo niente”, aggiunge Jane Alexander, vicedirettore dell’ente. “Se non sono le industrie a costruire i dispositivi, da soli non siamo in grado di farlo”. Una catastrofe che, com’è avvenuto di recente in occasione dell’uragano Katrina, mette in evidenza le lacune nel sistema di risposta istituzionale crea invece infinite opportunità per l’innovazione tecnologica. Così oggi è molto più facile che in passato accedere a un finanziamento federale da 150 milioni di dollari per la creazione di una diga automatizzata. Nella selezione degli investimenti, Miller e colleghi partono da quelli che considerano i rischi più imminenti e cercano di stabilire se è possibile o meno sviluppare in fretta delle tecnologie che possano ridurli. Il prodotto finale in genere dev’essere abbastanza economico da attrarre i principali acquirenti di dispositivi di sicurezza: stato e amministrazioni locali. A loro, spiega Richard Clarke, spetta l’onere di investire i fondi federali nell’interoperabilità dei sistemi di comunicazione o di sprecarli per dotare di “giubbotti antiproiettile le unità cinofile”. Il Direttorato di Scienza e Tecnologia non ha l’autorità di imporre alle agenzie governative l’adozione della sua linea di investimenti, pertanto opera più come un’impresa privata che come un tradizionale laboratorio di ricerca e sviluppo in materia di sicurezza nazionale. Cerca di favorire la tecnologia qui e ora che spera possa essere adottata dal settore pubblico e lascia agli altri la ricerca avveniristica e fine a se stessa. “Non ci interessa innalzare il livello della scienza solo perché fare ricerca è bello”, puntualizza Alexander. “Vogliamo innovazioni accessibili”. “La sicurezza nazionale è un tema troppo importante per essere lasciato esclusivamente in balia del governo”, fa eco l’ex generale di corpo d’armata Ken Minihan, un tempo direttore della National Security Agency che in Vietnam si è anche guadagnato una stelletta di bronzo. Sembra quasi lo slogan di una holding privata. “La sicurezza è dove si vive. È dove si lavora”. Palo Alto, benvenuti nel paradiso della sicurezza IN UN CONTESTO di vigilanza costante, gli investimenti privati seguono quelli governativi, alla ricerca delle aziende migliori su cui scommettere tra le migliaia che affollano il settore. Il Paladin Group l’anno scorso ha stanziato 235 milioni di dollari interamente destinati a società di piccole e medie dimensioni con l’obiettivo di “prevenire, difendere, gestire e recuperare” in caso di catastrofe. Si va dalla protezione delle reti informatiche alle energie alternative. Nel portfolio sono incluse 14 aziende produttrici di tecnologie che spaziano dalla scansione a raggi X dei vestiti, ai software per le operazioni d’emergenza (di cui uno impiegato anche a New Orleans dopo Katrina), a una sostanza a base d’argento per la neutralizzazione dei batteri. Ogni settimana, vengono presi in esame dai dieci ai venti potenziali investimenti. “Sono nel settore privato fin dai primi anni Novanta”, spiega Michael Steed, direttore del Paladin Group, “e non ho mai visto un flusso così sostenuto”. Il Paladin Group è il soggetto principale nel settore americano della sicurezza, ma non il solo. Ci sono altre imprese orientate alla Difesa, come il potentissimo Gruppo Carlyle e l’In-Q-Tel della Cia, ma anche aziende della West Coast generalmente associate al comparto Internet e biotech. Per ricavare profitti da attività del genere ci vuole molto più che un buon piano di business. Bisogna avere competenza politica e avere accesso a chi prende le decisioni fondamentali, vuoi membri del Congresso che supervisionano l’allocazione del budget vuoi manager dell’Hsarpa che gestiscono i contratti d’appalto. È per questo che il Paladin ha arruolato tutta una serie di ex pezzi grossi del governo: Minihan dell’Nsa; James Woolsey, ex capo della Cia; H. Lee Buchanan, ex vicedirettore della Darpa. “Il difficile sta nel capire il modello di business del governo, nel comprendere dove stanno i soldi”, spiega Minihan. Anche la Fortress America è supportata da contatti politici importanti. “Possiamo contare su entrature strategiche per raggiungere qualsiasi uomo politico eletto negli Stati Uniti”, sentenzia Weiss, “dal presidente a qualsiasi governatore o sindaco a ogni funzionario del Dipartimento della Difesa”. I soldi del governo sono notoriamente volatili – vittime di tagli di budget, costantemente alla rincorsa dell’ultimo fattore di panico – e quindi gli investimenti sono spesso bilaterali. “Bisogna avere clienti sia in ambito commerciale che istituzionale”, precisa Steed. Ecco quindi che un’azienda del Paladin, la SafeView, per esempio ha sì venduto dei dispositivi per la scannerizzazione agli aeroporti e all’esercito, ma già ne aveva venduti migliaia a carceri, tribunali e uffici. Dal momento che il settore privato detiene circa il 90 per cento delle infrastrutture americane, c’è da scommettere che governo ma anche compagnie di assicurazioni continueranno a spingere per gli investimenti in materia di sicurezza. Dopo tutto, puntualizza Jonathan Silver, direttore della Core Capital Partners, “al momento ispezioniamo solo il 2 per cento dei container che arrivano in questo paese. Quindi il problema è lungi dall’essere risolto”. Ricordate lo slogan “incubatrice di business”, coniato intorno al 1998 per la Silicon Valley, che all’epoca ospitava 18 startup a diversi livelli di sviluppo e tutte speranzose di sferrare il colpaccio in un mercato in progressiva espansione? Ecco, spostatevi da Palo Alto alla periferia di Annapolis, Maryland, e vi troverete alle porte del Chesapeake Innovation Center, “la prima incubatrice di business americana focalizzata sulla sicurezza nazionale”. E dopo un attentato, la borsa vola IL 7 LUGLIO, quando i mercati americani hanno aperto con la notizia dell’esplosione di quattro ordigni su mezzi pubblici a Londra, le azioni delle aziende legate al settore della sicurezza sono decollate. Due esempi: la Verint Systems, che produce sistemi di sorveglianza, ha chiuso al 12,5 per cento e la Viisage, società di biometria e riconoscimento facciale, è schizzata all’8,4 per cento. Negli ultimi quattro anni, gli indici di sicurezza come il Cronus Capital Markets hanno superato il Dow Jones e il Nasdaq. In periodi di incertezza, aziende del genere prosperano; in condizioni di panico di massa, il prezzo delle azioni si impenna. “Per la gente la sicurezza è una priorità”, spiega McMillen di Fortress America. “Se un missile Stinger colpisce un velivolo e il presidente deve bloccare tutto il traffico aereo, state pur sicuri che la maggior parte del mercato andrà in crash fatta eccezione per le quotazioni delle imprese del settore della sicurezza”. I grandi appaltatori del settore della difesa, come Lockheed Martin, Boeing e Northrup Grumman, così come le aziende che si occupano di integrazione di sistemi come L-3 Communications, Unisys, Computer Sciences e Saic, si impegnano moltissimo nella ricognizione dei possibili target di acquisizione. Sono le Microsoft e Hp del comparto disastri. Sanno come cavare soldi dai contratti a margine fisso, e possono contare su dipendenti con pratica del settore sufficiente a fare un ottimo lavoro. “Siamo particolarmente attenti alle variazioni di budget in materia di difesa ed esplorazione spaziale”, spiega Gordon McElroy, vicepresidente della divisione Intelligence and Homeland Security Systems di Lockheed Martin. “I motori della crescita sono oggi la sicurezza nazionale e il rispetto della legge”. I soggetti maggiori, finora abituati a contratti da miliardi di dollari per la realizzazione di jet e satelliti, si stanno progressivamente adattando a un contesto in cui i soldi si sborsano in quantità notevolmente ridotte. Ad agosto, Lockheed Martin ha siglato un accordo da 212 milioni di dollari con la Metropolitan Transportation Authority di New York per la creazione di un network di sicurezza dotato di migliaia di videocamere e sensori. La stessa Boeing ha un suo portfolio di contratti per iniziative legate alla sicurezza, tra cui uno da centinaia di milioni per migliorare l’efficienza degli screening aeroportuali e progettare container cargo di nuova generazione. Anche i progetti fallimentari possono rivelarsi fruttuosi: all’inizio del 2005, l’Fbi ha dovuto smantellare un sistema di condivisione informazioni prodotto dalla Saic dopo averci investito 170 milioni di dollari solo quattro anni prima. La Saic – che può contare su altre centinaia di milioni in contratti per sistemi di sicurezza e integrazione It – recentemente è stata quotata in Borsa ben 1,7 miliardi di dollari. Nei suoi prospetti è succintamente indicato che gli investimenti post 11 settembre del governo americano hanno avuto un “favorevole impatto” sugli affari. Nessuno, in questo campo, ha paura che gli investimenti del governo diminuiscano di qui a breve. Anzi, secondo gli insider semmai in questo periodo le istituzioni sono in fase di rimonta in questo senso. Quella di Washington potrà essere una burocrazia faziosa e litigiosa, ma su una cosa tutti i politici sono sicuramente d’accordo: non bisogna abbassare la guardia sul rischio catastrofi. Nessuno vuole essere ricordato come quello che ha rifiutato di finanziare ricerche per la prevenzione di un disastro che malauguratamente dovesse verificarsi davvero. “Siamo nell’anno Quattro”, spiega Scott Greiper, esparto di sicurezza globale presso la finanziaria CE Unterberg-Towbin, riferendosi a un’ideale era inaugurata l’11 settembre 2001, “ma per quel che concerne il denaro speso siamo sul dischetto del rigore”. Una metafora familiare, come “l’inning di Internet” popolarissimo a fine anni Novanta. Per gli imprenditori, è il suono di un piffero magico, che li invita a raccogliere le proprie idee per recarsi in pellegrinaggio a Washington alla ricerca di fondi. Alcune intuizioni sono un semplice spreco di risorse, mero opportunismo per traffichini di governo. Qualcuna potrebbe addirittura costituire una pericolosa distrazione dai problemi reali. Altre sono sinonimo di innovazione all’ennesima potenza, e ci garantiscono la protezione a cui aspiriamo. Nell’impeto, distinguere può risultare difficile. "Il mio è un tipico ufficio di una qualunque startup”, dichiara Chris Sleat, amministratore delegato di Realinterface, azienda di realizzazione software medici del Chesapeake Innovation Center. “Un vero buco”. Questo trentottenne – veterano di grido dell’era dotcom – ha fondato la Realinterface nel 2003 allo scopo di commercializzare un programma che agevolasse gli ospedali nell’individuazione e registrazione di pazienti da inserire in degli studi clinici. Parecchie università hanno acquistato la tecnologia, e un giorno un dottore ha suggerito a Sleat che quella stessa tecnica avrebbe potuto essere utilizzata come primo responso per determinare se i sintomi di un soggetto potessero o meno indicare un attentato bioterroristico. Così Sleat e i suoi 11 collaboratori svilupparono un’applicazione denominata ThreatScreen. L’anno scorso, la società si è accaparrata il suo primo contratto, con lo stato del Mississipi, per 1,2 milioni di dollari. È uno strumento semplice, spiega Sleat, ma in grado di scongiurare una catastrofe. “Dei terroristi che distillino ricina”, continua, “difficilmente lo faranno in laboratori autorizzati per poi trasportare la sostanza in container a norma. Quindi ci sono grosse possibilità di scoprirli alla fonte, in caso di contagi accidentali”. Sleat è molto obiettivo riguardo al suo ingresso nel settore del “salviamo il mondo”, e secondo lui le sue motivazioni possono essere applicate a tutte le migliaia di startup che si occupano della stessa cosa. “È tutto capitalismo, in fin dei conti”, sentenzia. |
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