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costruire altre case? se ne può fare a meno
- Subject: costruire altre case? se ne può fare a meno
- From: "ANDREA AGOSTINI" <lonanoda at tin.it>
- Date: Thu, 22 Dec 2005 06:52:59 +0100
da liberazione.it martedi 20 dicembre
2005
Il problema degli alloggi può essere risolto utilizzando l’edilizia esistente senza occupare altra terra preziosa. Cioè seguendo la strada opposta a quella berluscon-tremontiana di svendita dei patrimoni pubblici Costruire altre case? Se ne può fare a meno di Fabrizio Giovenale Partiamo da metà novembre quando Berlusconi, nella sua quotidiana ricerca di frottole per convincere ancora qualcuno a votarlo, se ne uscì con lo slogan "case per tutti". Il giorno appresso già aveva cambiato: «Volevo dire per chi è sotto-sfratto». Dato però che la tentazione di dire sciocchezze è per lui irresistibile, aggiunse: «Faremo le case su terreni a prezzo agricolo»: memore forse di quando era lui a comprar terre agricole e a fare poi in modo che diventassero edificabili... Altri tempi. Oggi chi gliele dovrebbe portare strade, acqua e fognature a costruzioni sorte in aperta campagna? E a spese di chi? Non varrebbe nemmeno la pena di ricordare insulsaggini simili se la costruzione di nuove case non comparisse anche nei programmi di centrosinistra e sinistra. Ho in mente le "dieci buone azioni di governo per l’ambiente" proposte a settembre da un gruppo di ambientalisti di spicco alla Festa di Liberazione, dove al punto 9 si parla di «finanziamento immediato di un Piano nazionale di edilizia economica e popolare». E qui ci si impone, direi, una riflessione di fondo. Sempre prendendo le mosse dalla sesquipedale ignoranza berlusconiana della realtà del paese che lo porta a parlare di terre agricole come se ce ne fossero a non finire e se non valessero niente. Orientamento mentale purtroppo condiviso ancora da molti: sinistre incluse. Mentre non dovremmo dimenticare mai che siamo un paese ad alta densità demografica (e cioè con un territorio scarso rispetto alla popolazione) e che nella seconda metà del secolo scorso la superficie agraria italiana si era già dimezzata. Il che vuol dire che se le cose del mondo dovessero mettersi male (cosa per niente improbabile) difficilmente ce la faremmo a sfamarci coi frutti della nostra terra. E dunque l’idea - tutta nuova - che faremmo bene a metterci in testa e aver sempre presente è che ogni metro quadrato di terra fertile ha oggi un valore (reale, non solo venale) incomparabilmente maggiore di qualunque edificio ci si possa far sopra. Non solo per la capacità di produrre alimenti, ma per accrescere (se pure di poco) la superficie del manto di vegetazione che concorre a "fissare" l’anidride carbonica e ad arginare l’effetto-serra. Pensiero controcorrente rispetto a tutto il passato, oltre che rispetto ai decenni ruggenti del boom edilizio postbellico. Ma è veramente ora, direi, di metterci a ragionare su questa diversa lunghezza d’onda. Ma allora le case?... Un momento. Già da vent’anni le statistiche parlano di un numero di abitazioni in Italia quasi-doppio di quello delle famiglie. E’ anche vero che con l’aumento dei "singles" è aumentato anche il numero delle unità familiari. In tutti i casi, però, le più recenti rilevazioni Istat parlano di tremilioniottocentomila famiglie in difficoltà per l’alloggio contro - attenzione! - 6,6 milioni di alloggi vuoti inutilizzati. E se questi dati sono attendibili ne discende una indicazione precisa: che esiste in Italia in larga misura la possibilità di risolvere i problemi abitativi facendo ricorso al patrimonio edilizio esistente (debitamente ristrutturato e ammodernato ove occorra, ovviamente) senza bisogno di occupare altri metri quadrati di terra con altro cemento. Chiaro che questo comporterebbe una scelta politica diametralmente opposta alla linea berluscon-tremontiana di svendita dei patrimoni pubblici, a partire da quelli degli Istituti Case Popolari (Iacp). Favorire, al contrario, le acquisizioni da parte dei Comuni di alloggi esistenti da dare in affitto a chi più ne ha bisogno secondo criteri eminentemente sociali. Questo anche perché (in riferimento alla proposta Brunetta di dare in proprietà, parte a pagamento e parte in regalo, tutte le case Iacp) di una quota di alloggi in affitto il paese ha comunque bisogno per garantire un certo grado di mobilità ai cittadini. E dato che le difficoltà alloggiative hanno soprattutto a che fare con le disponibilità economiche e non con carenze reali di abitazioni, è giusto che sia l’Ente locale a garantire il "diritto alla casa" come parte integrante del welfare state. Tenendo conto ovviamente del variare nel tempo di situazioni e bisogni. Ma c’è un altro motivo - meno considerato - per rinunciare alla costruzione di nuove case popolari coi vecchi sistemi. Qui mi rifaccio a una mia antica esperienza di lavoro nel Piano Fanfani Ina-Casa degli anni 50 (me la sento già la domanda: "ma tu, quanti anni hai? ". Parecchi, compagno, parecchi: finché c’è fiato però...). Di quell’esperienza, dicevo, tra i molti pro-e contro m’è rimasto impresso soprattutto il malanimo con cui i neo-assegnatari entravano in case loro assegnate a scatola chiusa, senza che nessuno gli avesse chiesto un parere né per il dove né per il come. Avvertivano questo sistema come un’offesa: come un esser trattati da mendicanti cui si fa l’elemosina. E reagivano male: col disamore, la trascuratezza, la morosità. Non andava magari sempre così, ma nelle periferie urbane spesso il quadro era questo. Quel che voglio mettere in rilievo è quanto è importante che i cittadini partecipino in qualche modo alle decisioni sul dove e sul come abitare. Ed è chiaro che questo è più facile se si offre loro la scelta fra un ventaglio di possibilità all’interno dei tessuti edilizi esistenti. Qui mi riallaccio a una "Delibera programmatica sulle politiche abitative" (n°175, 15/09/05) del Comune di Roma. Un buon documento, che prevede al riguardo ogni modalità di azione possibile: dai completamenti di opere già in corso alle nuove costruzioni e ai programmi di acquisti comunali di alloggi. Con l’affidamento a un’apposita "Agenzia per gli affitti" della gestione del tutto. Ecco: in rapporto a questa impostazione (già parecchio avanzata rispetto al passato) vorrei azzardarmi a sostenere che oggi bisogna trovare il coraggio di cancellare del tutto la voce "nuove costruzioni" (e possibilmente anche i completamenti che comportino ancora occupazioni di spazi) e concentrarci esclusivamente sulle modalità di acquisizione comunale di alloggi esistenti da mettere a disposizione di chi ha più bisogno. Che significa dare al problema una impostazione tutta diversa. Con quali soldi i Comuni potranno procedere alle acquisizioni, chiedete? La Delibera elenca una serie di modi: a scomputo di imposte dovute (tassa di successione compresa, se ce la faremo a ripristinarla per i patrimoni maggiori); a seguito di requisizioni di edilizia abusiva e sequestri di patrimoni frutto di attività criminali; in occasione di aste giudiziarie per fallimenti e "amministrazioni controllate"; attraverso intese con gli Iacp e con amministrazioni pubbliche proprietarie di alloggi (le Ferrovie, ad esempio)... Quel che occorrerebbe in sostanza è arrivare a dotare, sia pure per gradi, i Comuni italiani (quantomeno i maggiori) di patrimoni edilizio-abitativi abbastanza consistenti e variati da poter incidere in senso positivo sotto il profilo sociale sul fabbisogno di alloggi. Questo anche giovandosi, a favore dei nuovi- inquilini, di sgravi fiscali, "buoni-assistenza", canoni di locazione calibrati caso-per-caso e quant’altro. Configurare cioè un ruolo comunale attivo nella soluzione del problemacasa, da portare avanti d’intesa coi cittadini più interessati direttamente. Immigrati e nomadi inclusi, naturalmente. Chiaro che qui la faccenda si fa più difficile ancora. Quel che conforta però è il dato dei 560.000 alloggi già acquistati in proprietà da famiglie extra-comunitarie in Italia: spesso nelle parti più degradate delle periferie, ma anche nei vecchi villaggi ex-rurali in abbandono... Come dire: il problema ha tendenza a trovare da sé certe sue soluzioni. Tendenza che va favorita e aiutata, ovviamente. Senza nemmeno starci a preoccupar troppo in questa fase, direi, delle possibilità che si formino enclaves etnico-religiose spinte a isolarsi, ma curando che si realizzino condizioni civili di abitazione per tutti, e soprattutto facendo in modo che le rappresentanze dei diversi gruppi etnici partecipino - alla pari con gli altri - alle discussioni e alle scelte per l’habitat. La strada mi sembra sia quella indicata da Sandro Medici presidente del Municipio romano di Cinecittà con la requisizione di alloggi inutilizzati (per la quale rischia di finire sotto- processo) e di Massimiliano Smeriglio presidente del Municipio-Garbatella con gli spostamenti di residenza concordati direttamente con le famiglie nomadi. E dovrebbe portare a fare delle sedi di Municipio e di quartiere dell’"Agenzia Comunale per gli affitti" i luoghi istituzionalmente preposti al dibattito pubblico fra cittadini e non-cittadini per queste scelte, cui giungere attraverso l’esercizio dei metodi della democrazia diretta. Non sarebbero scelte da poco, d’accordo. Proprio per questo mi sembra arrivato il momento di aprire la discussione al riguardo. Occorre avere il coraggio di cancellare la voce "nuove costruzioni" e favorire le acquisizioni dell’esistente da parte dei Comuni visto che (dati Istat) in Italia le famiglie senza un tetto sono tre milioni ottocentomila, mentre gli appartamenti vuoti ben 6,6 milioni Ogni metro quadrato di terra fertile ha oggi un valore (reale non solo venale) incomparabilmente maggiore di qualunque edificio ci si possa costruire sopra. |
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