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capitali e parassitismo delle idee
- Subject: capitali e parassitismo delle idee
- From: "ANDREA AGOSTINI" <lonanoda at tin.it>
- Date: Wed, 23 Nov 2005 06:39:30 +0100
dal manifesto 06 Novembre
2005
Dosi massicce di parassitismo delle idee La caratteristica è che a fare i pirati della creatività altrui non sono hacker sfigati, ma gruppi industriali potenti. C'è l'editore che ha realizzato una incursione nel marchio del manifesto e c'è la grande casa automobilistica che lancia una vasta campagna pubblicitaria giocando sulla contrapposizione «rock-lento» inventata da Adriano Celentano FRANCO CARLINI L'editore Einaudi sta per mandare in libreria il
bellissimo saggio del
biologo americano Jared Diamone. Si intitola «Collapse» e come sottotitolo dice «How Societies Choose to Fail or Succeed», ovvero «Come le società scelgono di fallire o di avere successo». Forse per anticipare sul tempo il concorrente, l'editore Feltrinelli ha appena fatto una settimana di promozione dei libri dedicati ai temi dell'ambiente e della globalizzazione il cui slogan così diceva: «Come le società scelgono di vivere o di morire». Qualcuno si è ispirato a qualcun altro? Fin dall'anno 2000 Carlo Feltrinelli ha registrato i nomi di dominio internet «www.ilmanifesto.com», nonché «ilmanifesto.net» e «ilmanifesto.org», realizzando una sgradevole incursione in un marchio altrui. Perché non ce li restituisce? Adriano Celentano non aveva fatto a tempo a terminare la prima puntata del suo spettacolo in cui si esibisce nella banalissima lavagna dei buoni e dei cattivi - per l'occasione ribattezzati «rock» e «lento» - che sui quotidiani italiani partiva una campagna pubblicitaria della Fiat tutta basata sulle due paroline tormento. Quando si dice pubblicitari a corto di idee. Una collega giornalista in luglio sottopose un'idea a un editore di giornali, che le venne bocciata perché troppo onerosa. Ora se la ritrova realizzata in proprio da quello stesso giornale, con evidente ispirazione non solo ai suoi format ma persino alle espressioni letterali del suo progetto iniziale. Sono episodi minori ma significativi, di parassitismo delle idee. La loro caratteristica è che a fare i pirati della creatività altrui non sono hacker sfigati amanti della musica, ma gruppi industriali potenti. Come si vede la questione della proprietà intellettuale continua a riproporsi, sotto molteplici vesti, come forse è inevitabile, dato che le idee, per loro intrinseca natura circolano: non appena sono espresse, chi le ascolta può ad esse ispirarsi. Non per caso il settimanale Business Week ha dedicato in agosto un intero dossier, intitolato «Get creative!» al passaggio, ormai in corso, dall'Economia della conoscenza all' Economia della creatività. Con qualche enfasi aggiungeva: «Il gioco sta cambiando. Non riguarda più la matematica e la scienza» (intendendo con questo un approccio ingegneristico e sistemico; ndr). «Riguarda invece la creatività, l'immaginazione e, soprattutto, l'innovazione». La quale è anche innovazione sociale e non solo tecnologica. Basti guardare cosa succede a Mountain View, California, dove ha sede la star del momento tra le aziende internet, Google. Da un lato ha strappato alla Microsoft un vice presidente, Kai-Fu Lee, specialista in servizi interattivi. Per quel «furto» è in corso una causa, perché il signor Lee porta inevitabilmente con sé le idee e persino i segreti che aveva sviluppato per Bill Gates. Il tribunale ha sentenziato che potrà lavorare per Google, ma non nel settore di cui prima si occupava: dovrà anche tacere e non raccontare nulla delle sue idee di un anno fa? Impossibile, ed è la dimostrazione, appunto, che le idee sono per natura ansiose di circolare. Dall'altro la stessa Google si preoccupa che il suo un ambiente faciliti la famosa creatività, ed ecco allora che persino il suo ristorante interno è andato cercando uno chef che fosse «esperto di cucina etnica e vegetariana, basata su cibi organici». In generale, precisava l'annuncio, «la persona cercata deve avere un pensiero rapido e creativo». Per inciso: due giorni fa le azioni di Google hanno fatto un altro record, arrivando a 390,43 dollari l'una, il che corrisponde all'esagerata capitalizzazione di 113 miliardi di dollari. La stessa Google è di nuovo al centro di polemiche per il suo progetto di libreria (quasi) universale. Malgrado le diffide di editori e scrittori americani, il primo novembre ha ripreso il programma di digitalizzazione dei volumi delle biblioteche pubbliche di New York, Stanford, Harvard, Michigan e Oxford. I primi volumi messi in rete sono fuori diritto d'autore, come i romanzi di Henry James, o le storie della Guerra Civile americana. Il sistema escogitato dovrebbe essere molto apprezzato dagli editori, I quali invece lo stanno trascinando in tribunale. Oltre a tutto protegge il copyright, laddove esso sia in vigore. In sostanza funziona così: Google trasforma le pagine di stampa in archivi digitali e li indicizza, parola per parola, come già fa per i siti web. Andando sul sito http://www.print.google.com/ si trova la consueta maschera di ricerca e immettendo una frase si ottiene come risposta un elenco di libri che li contengono e un breve estratto (diritto di citazione) del periodo in cui quella frase compare. Ognuno di loro può essere acquistato online, dato che la pagina di risposta contiene anche i link ai servizi di vendita di Amazon, Barnes and Noble eccetera. Se il copyright è scaduto sarà invece possibile leggerlo tutto, sia pure con un sistema per ora abbastanza macchinoso. E' un progetto in fondo moderato, rispetto al sogno dichiarato dei due fondatori di Google di indicizzare tutto il sapere umano. E comunque sulle pagine del Washington Times ha ricevuto nei giorni scorsi un attacco violentissimo: «la posizione di Google si traduce essenzialmente in una licenza di rubare». I due autori dell'editoriale sono entrambi degli autori di libri e uno dei due, Pat Schroeder, è il presidente dell'Associazione Americana degli Editori. E' un tipico fuoco di sbarramento, analogo a quello alzato a suo tempo dalle case musicali e da quelle cinematografiche. La novità è che ora la digitalizzazione investe anche il mondo dell'editoria il quale se possibile è ancora più chiuso e retrogrado di quello della musica. Gli editori finora hanno potuto controllare l'intera filiera: scelta dei titoli e degli autori, editing dei libri (spesso fatto malamente), stampa, distribuzione e infine promozione. Il loro elemento di forza è consistito storicamente negli anelli centrali della catena: hanno le rotative e la distribuzione e perciò chi voglia pubblicare deve passare da loro. Quel controllo consente loro di gestire in pratica per l'eternità (70 anni dalla morte dell'autore) i diritti di copia e di decidere cosa ristampare e cosa no. Il risultato finale è che milioni di libri sono irreperibili perché i loro editori hanno deciso che andassero al macero e soprattutto di non ristamparli. E non parliamo di libri di spazzatura, ma di romanzi e saggi di valore. Il commercio digitale nel frattempo ha evidenziato un fenomeno nuovo: non soltanto con i bestseller si può fare soldi (pochi titoli venduti in milioni di copie), ma grazie ai sistemi online, si può incassare molto anche vendendo poche copie, ma di migliaia di titoli diversi. Si può guadagnare anche nelle nicchie, se sono tante: diecimila titoli di ognuno dei quali si vendano 10 copie, sono l'equivalente di un titolo da 100 mila. La libreria online Amazon.com ha già dimostrato che ciò funziona, sia pure caricandosi di immensi magazzini fisici dove ospitare milioni di libri diversi. Ma funzionerà ancora di più se i libri sono digitalizzati e depositati sui computer degli editori, di Google, di Amazon o di chi voglia farlo. Il costo di carta e magazzino è pressoché nullo. E per chi voglia godere la fisicità della carta già esistono stampanti meravigliose che possono produrre a richiesta la singola copia, e persino rilegarla. E' il print on demand. |
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