legambiente elogio della soft economy



da affari italiani sabato 29 novembre 2005
 
elogio della soft economy

      "Qualità, innovazione, passione creativa, ma anche tradizione e
provincia. Sono gli elementi intangibili che costituiscono il cuore della
soft economy, l'economia del sapere che è la frontiera dello sviluppo. Soft
economy che si contrappone all'hard economy. L'economia delle
infrastrutture targata Usa, che è il modello della globalizzazione e dei
grandi numeri. Elementi che, però, non hanno lo stesso valore e forza
competitiva delle componenti soft, come, appunto, la creatività, la cultura
e l'innovazione".
      Per Ermete Realacci, rutelliano della Margherita, intervistato da
Affari e autore del libro "Soft economy" (di cui Affari pubblica in
esclusiva un capitolo), questa è anche l'essenza del made in Italy.
Elementi di un modello del quale gli imprenditori del nostro Paese,
nell'affacciarsi sui mercati globali, devono essere consapevoli. Modello
che può consentire loro di rilanciare la nostra economia. Uno stile
italiano realmente trend-setter che può contaminare i gusti di miliardi di
consumatori.


      L'Intervista

      Qual è la ricetta per rilanciare l'economia made in Italy?
      "Fare quello che tutti i Paesi avanzati dell'Occidente fanno,
investire molto, cioè, nei saperi e nella ricerca. L'Italia lo fa ancora
troppo poco. E valorizzare, poi, quello che ci rende famosi in tutto il
mondo e in cui eccelliamo".

      E cioé?
      "L'intreccio straordinario di città, patrimonio storico-culturale,
paesaggi, prodotti tipici, gastronomia, creatività e coesione sociale.
Ingredienti di un marchio unico al mondo".

      L'Italian way of life...
      "Esatto, un minimo comune denominatore di storie di successo di
aziende che, assieme ad Antonio Canciullo, abbiamo cercato di raccontare
nel libro 'Soft economy'. Inmprese che riescono a competere sui mercati,
proprio perchè si fondano sulla qualità dei loro territori d'appartenenza e
sulla capacità di saper fare".

      Come definisce la qualità?
      "E' un concetto ampio. Le storie che raccontiamo non solo legate solo
al made in Italy tradizionale. Stm o Tecnogym non appartengono al
tradizionale comparto della moda o dell'agroalimentare. La qualità è un
incrocio, che in Italia avviene in modo peculiare, fra saperi, conoscenza,
ricerca e identità. Un patrimonio sia fisico sia culturale".

Perché ha intitolato il suo libro "Soft economy"?
      "E' un concetto che echeggia il soft power proposto dal politologo
americano Nye. Uno studioso che propone un dualismo fra l'hard power
statunitense, basato sulla potenza militare e una capacità tutta europea in
grado d'influenzare, al contrario, il mondo, facendo leva sul convincemento
e il sex-appeal".

      Un carisma...
      "Esatto e non è affatto detto che sia più debole dell'hard power. E'
la carta che noi europei possiamo giocarci. Dobbiamo fondare la
competitività della nostra economia non inseguendo i modelli che da noi non
possono funzionare. Quelli, cioè, che si basano sull'abbassamento dei
diritti e sul dumping ambientale. Sono dei modelli, per noi, perdenti.
Dobbiamo individuare i nostri punti di forza ed esaltarli. Solo con questa
forza e consapevolezza saremmo in grado di competere e di vedere l'India e
la Cina come delle opportunità e non come delle minacce".

      La logica del declino è diventata ormai un cancro inestirpabile o si
può ancora fare qualcosa?
      "Certo che si può fare qualcosa. Bisogna proporre a livello politico
un disegno convincente. L'esponente istituzionale che più ha cercato
d'intervenire in questo campo è stato il presidente della Repubblica
Ciampi, che ha provato a indicare all'Italia una meta mobilitante. Meta che
facesse forza sui fattori unici e sull'identità del Paese. Bisogna avere
un'idea dell'economia italiana per ottimizzare le risorse. Non si possono
dare gli stessi soldi sia al'impresa che innova sia al notaio che si rifà
il salotto sia all'azienda che costruisce un capannone. Bisogna costruire
un'idea di futuro che sia mobilitante per tutti i cittadini e le imprese".

 Ma tutte queste aziende di successo, alcune di nicchia, sono in grado
di fare massa critica e di trainare tutta l'economia italiana?
      "Se fanno rete, sì. La fondazione Symbola, che presiedo, sta cercando
di misurare quanta parte del Pil italiano è legato a fattori quali
conoscenza, qualità, made in Italy avanzato, creatività e rapporto con il
territorio. Credo che non sia una percentuale irrilevante. Le imprese
italiane devono rafforzare la loro spesa in marketing. Cosa che, vista la
dimensione media delle aziende, al momento, è possibile fare solo agendo in
rete".

      Qual è la storia di successo che più delle altre è stata in grado di
racchiudere al suo interno queste componenti soft?
      "Ce ne sono tante, ma a me piace molto la storia di Brioni. E'
un'azienda che è nata dalla scommessa di un ex docente universitario di
organizzazione aziendale, Marco Tullio, che ha deciso di produrre abiti in
un paesino, Penne, situato alle pendici del Gran Sasso. Ora, esporta in
tutto il mondo e i suoi abiti sono portati dal segretario dell'Onu Kofi
Annan e dall'attore Pierce Brosnam nel film 007".

      Qual è la sua ricetta vincente?
      "Tullio, rifiutando delle offerte istituzionali per collocare la sua
azienda vicino all'autostrada, ha deciso di localizzare la sua produzione,
perdendo dei soldi, quindi, in un piccolo paesino. Era convinto che poteva
produrre gli abiti più belli del mondo solo se la produzione fosse
diventata una missione del territorio. Un modello, alla fine, che non era
possibile imitare. E ha avuto ragione".

      Andrea Deugeni