la povertà globale si può eliminare



da carta.org
settembre 2005


 La povertà globale si può eliminare
di Riccardo Petrella
Il mondo resta ingiusto. Continua a non garantire il diritto alla vita a
tutti gli esseri umani. Ancora oggi, una vita umanamente degna costituisce
un immenso regalo, mentre dovrebbe essere un diritto umano universale. Non
ci saranno libertà e giustizia finché esisteranno uomini e donne che non
hanno diritto alla vita. Lasciare «un mondo buono», come propone Bertolt
Brecht, oggi fa sorridere i «realisti», che hanno gioco facile nel
dimostrare che il mondo non è «buono», ma «cattivo». Un mondo migliore
sembra impossibile. Eppure, è il solo avvenire che merita di essere pensato
e per il quale è urgente impegnarsi.
Fino a oggi, il diritto a una vita decente è stato assicurato a un numero
ristretto di persone: quattromila anni dopo la civiltà dei faraoni, questo
diritto è ancora negato alla metà della popolazione mondiale.
Alcuni paesi scandinavi sono riusciti, negli anni cinquanta e sessanta, a
realizzare il diritto alla vita per tutti. Avevano fatto del principio
«Nessuno ha il diritto di essere povero» il fondamento della loro visione
del mondo e dell’organizzazione del «vivere insieme».
Nel 1995, in un rapporto ufficiale al Vertice mondiale sulla povertà e l’esclusione
sociale svoltosi a Copenaghen, le autorità danesi hanno presentato la
società del loro paese come una «società buona»: una società dove le cause
strutturali della povertà e dell’esclusione sociale erano state eliminate.
Parlando di povertà non si intende qui il valore cristiano che è oggetto di
elogio nel Nuovo Testamento [il Discorso della montagna: «Beati i poveri»].
Il termine è utilizzato nel senso che gli viene correntemente attribuito,
ovvero di miseria, di assenza di accesso ai beni e ai servizi essenziali
alla vita. Questa povertà è una negazione della dignità umana. È differente
dalla povertà scelta: quella delle persone che hanno fatto voto di
«povertà», optando per una vita frugale o rifiutando ogni arricchimento
personale.
Molti pensano ancora che il diritto alla vita per tutti sia un sogno
irrealizzabile, almeno in uno spazio temporale immaginabile [le prossime
due o tre generazioni]. Il fatto che certe società siano arrivate a
realizzarlo non sarebbe una prova. Una cosa – dicono – è sradicare la
povertà a livello delle piccole comunità umane già «sviluppate», come i
paesi scandinavi; un’altra cosa è raggiungere un tale obiettivo per decine,
se non centinaia di milioni di persone che vivono in India, Cina o Nigeria,
e sono segnate da una condizione di povertà generale.
Il Rapporto mondiale sullo sviluppo umano 2003 dell’Undp sembrerebbe
confermare questa teoria. Persino la povertà assoluta è cresciuta, negli
anni novanta. Il numero degli estremamente poveri è aumentato di 28
milioni. Inoltre, se gli indicatori della povertà e quelli dello sviluppo
umano mostrano un miglioramento nei paesi del Sudest asiatico, la
situazione si è degradata nei paesi dell’America del Sud e soprattutto in
Africa. Inoltre sono nuovamente esplose le disuguaglianze socioeconomiche
in seno anche ai paesi ricchi.
Un rapporto della Banca interamericana di sviluppo, apparso all’inizio dell’ottobre
2003, ha confermato il degrado della situazione socioeconomica dell’America
latina. Quanto all’Africa, è opinione diffusa in Occidente che essa non
riuscirà mai a uscire dal circolo vizioso della povertà nel quale si
sarebbe arenata, se non a lunghissimo termine. In effetti, la situazione è
drammatica. Lo storico burkinabé Joseph Ki Zerbo, una delle grandi figure
dell’Africa nera, è convinto che le responsabilità maggiori spettino alle
élites locali che, da una quarantina d’anni, «hanno smesso di sognare». Ki
Zerbo ritiene che le difficoltà da superare siano enormi, eppure pensa che
«un altro mondo, un mondo migliore» resti possibile anche per l’Africa.
Negli Stati Uniti, la «guerra alla povertà», iniziata con la creazione del
welfare state nel 1936, si è chiusa con un fallimento, soprattutto a
partire dall’amministrazione Reagan [inizio anni ottanta], sotto la quale
la povertà si è aggravata, colpendo specialmente i più sfavoriti. Ormai, la
ricchezza posseduta dall’1 per cento della popolazione degli Stati Uniti
[2,9 milioni] supera quella del 40 per cento più povero [116 milioni di
persone]. È difficile considerare democratico – vale a dire giusto, libero
e solidale – un paese segnato da disuguaglianze così profonde rispetto al
diritto alla vita.
Se la povertà non è stata sconfitta nel paese più ricco del mondo – pensa
una buona parte dei nostri governanti – ciò dimostra la «naturalezza» della
povertà e l’ineluttabilità delle disuguaglianze nell’accesso al diritto
alla vita.

Lo sradicamento della povertà è un obiettivo realizzabile
Nell’introduzione abbiamo visto come i capi dei paesi più sviluppati
abbiano ridefinito al ribasso gli obiettivi della lotta contro la povertà.
Dall’obiettivo dello sradicamento totale, sono passati a quello del
dimezzamento, entro il 2015, solo degli «estremamente poveri».
Si tratta di uno scandalo di cui sono responsabili le potenti élites di
ogni paese, al Nord come al Sud. In un mondo dove le disuguaglianze nel
diritto alla vita aumentano bisognerebbe piuttosto darsi obiettivi più
impegnativi, invece di ridurli.
L’obiettivo dello sradicamento della povertà deve essere riaffermato con
forza, tanto più che è economicamente realizzabile. L’Undp lo ha dimostrato
nel suo Rapporto sullo sviluppo umano 1997, in evidente coerenza con i
risultati e gli impegni del Vertice mondiale sulla povertà tenuto a
Copenaghen nel 1995, già citato.
In questo rapporto, l’Undp ha argomentato che era finanziariamente
possibile garantire l’accesso universale a cinque servizi sociali di base
nel 2010. Ne ha stimato il costo in 40 miliardi di dollari annuali d’investimenti
addizionali per dieci anni, così ripartiti:
• istruzione di base per tutti: 6 miliardi di dollari l’anno;
• salute e alimentazione: 13 miliardi di dollari l’anno;
• salute riproduttiva e pianificazione familiare: 12 miliardi di dollari l’anno;
• acqua potabile: 9 miliardi di dollari l’anno.
La conclusione del rapporto è la seguente: «Il vero ostacolo allo
sradicamento della povertà è costituito dalla mancanza di impegni politici
precisi e non dalla carenza di risorse finanziarie. Lo sradicamento della
povertà assoluta è certamente accessibile sul piano economico [...]. Nel
quadro di un’economia mondiale di 25 mila miliardi di dollari [1993], la
tesi secondo la quale lo sradicamento della povertà non è economicamente
realizzabile è manifestamente falsa».
E cosa dire oggi, che la ricchezza mondiale ha superato i 33 mila miliardi,
mentre le stime più recenti per coprire i servizi sociali di base –
presentate al G8 di Evian – sono di 70 miliardi di dollari d’investimenti
annuali per dieci anni? Eppure, solo tre anni dopo il rapporto dell’Undp,
le Nazioni unite hanno proclamato solennemente a New York, in occasione del
Vertice del Millennio, che il solo obiettivo possibile era dimezzare il
numero attuale di persone in stato di estrema povertà [1,3 miliardi] entro
il 2015 e, in questo quadro, del numero delle persone non aventi accesso
all’acqua potabile [secondo le cifre ufficiali dell’Onu si tratta di 1,2
miliardi di persone].
Che cosa è successo di così drammatico e decisivo per giustificare un
cambiamento così radicale negli obiettivi delle Nazioni unite, che a
Copenaghen avevano lanciato il decennio mondiale di lotta contro la povertà
1996-2006? Non ci è dato saperlo. Né la Banca mondiale [all’origine del
capovolgimento], né le organizzazioni specializzate delle Nazioni unite
[che si sono subito allineate alla nuova strategia di riduzione], e nemmeno
le Ong che gravitano attorno all’Onu [anch’esse hanno fatto propri gli
obiettivi del millennio] hanno fornito le ragioni che hanno condotto a
questo rovesciamento strategico. La sola motivazione fornita, se si può
chiamare così, è la seguente: poiché hanno dovuto ammettere che lo
sradicamento della povertà fissato nel 1974 per l’anno 2000 non ha potuto
essere raggiunto, hanno concluso che questo sradicamento era un obiettivo
troppo ambizioso, dunque irrealistico.
Scegliendo il dimezzamento, la comunità internazionale avrebbe così dato
prova di responsabilità ponendosi un obiettivo meno ambizioso ma
realizzabile...
Saggezza avrebbe voluto che, prima di dare prova di un così grande
«pragmatismo», la comunità internazionale si interrogasse sulle cause che
hanno reso impossibile la realizzazione di tale sradicamento, e valutare in
quale misura si era data i mezzi necessari e indispensabili per
raggiungerla. Invece non l’ha fatto, e credo si possa dire che quando
alcune componenti del sistema delle Nazioni unite l’hanno fatto – o hanno
cercato di farlo –, i risultati di tali sforzi sono stati ignorati, se non
messi in soffitta.
In realtà, il rovesciamento è dovuto al cambiamento ideologico radicale
intervenuto a livello delle classi dirigenti. Come vedremo in seguito, esse
non credono più – se mai ci hanno creduto – nel diritto alla vita per
tutti, nell’idea che si possa sradicare la povertà con azioni intraprese
dagli Stati e dalla comunità internazionale, e che si possa realizzare una
giustizia sociale condivisa da tutti. Credono solo all’iniziativa degli
individui, alla loro responsabilità.