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Galimberti: Smettiamo di crescere 2.9.05
- Subject: Galimberti: Smettiamo di crescere 2.9.05
- From: "Associazione Partenia" <partenia at katamail.com>
- Date: Sun, 4 Sep 2005 01:17:09 +0200
da Associazione Partenia <http://utenti.lycos.it/partenia>http://utenti.lycos.it/partenia «LZumanità che tratta il mondo come un mondo da buttar via, tratta anche se stessa come unZumanità da buttar via».Gunther Anders* Umberto Galimberti: smettiamo di crescere Tratto da "la Repubblica", 2 settembre 2005 Che cosa prova la gente a diventare collettivamente più povera? Non parlo dei poveri che il fisco risparmia e neppure di quelli per i quali 200 milioni di euro equivalgono ai nostri 200 euro, ma di quella classe media che, essendo diventata negli ultimi decenni la classe di tutti, ha finito per dissolvere perfino le rivendicazioni di classe, sostituendole con le rivendicazioni di categoria. Si può sempre dire che un poZ di povertà non fa male, raddrizza i costumi che abbiamo spinto un poZallZeccesso, spopola i ristoranti dove la troppa gente non riesce più a scambiar parola, riduce il traffico che ha trasformato le vie della nostra città in un unico grande parcheggio, allenta la morsa dei weekend forzati, assottiglia, nelle agenzie di viaggio, le folle di quanti pensano che basta cambiar cielo per cambiar animo. Le discoteche chiuderanno qualche ora prima, alcuni giovani vedranno ridotte le loro chances di finire direttamente al cimitero, chances che purtroppo aumenteranno per quanti non riusciranno a tener dietro al costo dei farmaci, o più semplicemente alla qualità degli alimenti a cui è da addebitare quel prolungamento della vecchiaia che in Occidente siamo soliti chiamare allungamento della vita. Eppure, nonostante questi vantaggi secondari, un senso di inquietudine pervade sia i singoli individui sia le imprese che si sentono impotenti a modificare lZandamento dellZeconomia la quale, per effetto della globalizzazione e forse della supremazia dellZaspetto finanziario (e virtuale) su quello produttivo (e reale), sembra sia divenuta qualcosa di trascendente, qualcosa di governato da un dio ignoto, i cui disegni nessuno davvero conosce. Tutto ciò comporterà, come dicono gli economisti, un rallentamento della crescita, quando non addirittura una crescita zero. E qui siamo a quella parola subdola: «crescita», che gli economisti applicano sia ai paesi diseredati che raccolgono tra lZaltro i quattro quinti dellZumanità, sia ai paesi già sviluppati che nonostante ciò «devono crescere». Fin dove? E a spese di chi? E a quali costi ambientali? Qui lZeconomia tace perché il problema non è di sua competenza, e con lZeconomia tacciono anche le voci degli uomini che alle leggi dellZeconomia si devono piegare. Quando dico «economia» non dico solo agricoltura, commercio, industria e finanza, ma dico soprattutto mentalità diffusa, modo di sentire, categoria dello spirito del nostro tempo, perché questo è diventato, nel modo di pensare e di sentire di tutti, lZimperativo categorico della crescita. Figli come siamo di padri, che a loro volta sono cresciuti sul lavoro dei nonni, siamo ormai alla terza o quarta generazione che cresce con un ritmo che la storia non ha mai conosciuto. La categoria della crescita è così diventata una forma mentis, uno stato dZanimo, un rimedio allZangoscia, una garanzia per sé e per i propri figli, una caparra per il futuro, per cui, se per effetto di Maastricht, se per mettere in ordine i conti, se per una finanziaria dura questa speranza nella crescita si affievolisce accade una paralisi del pensiero, una confusione del sentimento, unZansia per il futuro, un senso di inquietudine come quando sugli aerei si infila un vuoto dZaria e tutti composti ostentiamo quella tranquillità smentita dai brividi del nostro ventre che però avvertiamo solo noi. E così ciascuno per sé sente il brivido della crescita zero a cui non sa con che strumenti reagire, soprattutto se ha il sospetto che la crescita zero sarà sempre più il nostro futuro, non solo perché non possiamo continuare a pensare che i quattro quinti dellZumanità continuino a sacrificarsi per la nostra crescita, ma perché quando la crescita non ha altro scopo che continuare a crescere, è lZuomo stesso del mondo privilegiato a divenire semplice «funzionario» di questa idea fissa che, se diventa lo scopo collettivo della vita di tutti, affossa e seppellisce il «senso» della vita, il suo sapore, il suo significato per noi. Se in cambio dei soldi che toglie dalle nostre tasche, la crescita zero ci desse lZopportunità concreta di incominciare a riflettere sullZassurdo ritmo che aveva acquistato la nostra esistenza, sulla qualità della nostra comunicazione ormai troppo mediata, sulla natura un poZ ambigua del nostro amore fatto ormai di sole cose, e soprattutto sul fatto che regolare tutto sul modello di una crescita allZinfinito ha parentela con lZassurdo, allora anche la crescita zero, che finora tocca solo i nostri soldi e non la nostra pelle o la dignità dellZuomo come ancora accade in troppe parti del mondo, può essere accettata come una buona occasione per raddrizzare non solo il nostro costume, ma anche la qualità del nostro sguardo sulla vita e sul mondo. Ciò può avvenire incominciando magari a rinunciare allZindividualismo sfrenato e aggressivo degli ultimi decenni, per privilegiare il «noi» rispetto allZ«io». Il noi del volontariato, della reciproca assistenza, della familiarità del borgo rispetto allZanonimato della metropoli, il noi della convivialità, dei comportamenti virtuosi in ordine alla circolazione stradale, alla scelta e al consumo dei cibi, alle condotte a rischio, agli stili di vita. Valori non economici, dettati non dalla rassegnazione di chi è consapevole di non poter controllare o modificare lZandamento dellZeconomia, ma dal rifiuto a sacrificare la propria esistenza al mito della crescita, che visualizza gli uomini solo come produttori e consumatori. Con lZaggravante che in una società che visualizza se stessa solo in termini di sviluppo e di crescita, il consumo non deve essere più considerato, come avveniva per le generazioni precedenti, esclusivamente come soddisfazione di un bisogno, ma anche, e oggi soprattutto, come mezzo di produzione. Là infatti dove la produzione non tollera interruzioni, le merci «hanno bisogno» di essere consumate, e se il bisogno non è spontaneo, se di queste merci non si sente il bisogno, occorrerà che questo bisogno sia «prodotto». In una società opulenta come la nostra, dove lZidentità di ciascuno è sempre più consegnata agli oggetti che possiede, i quali non solo sono sostituibili, ma «devono» essere sostituiti, può darsi che si cominci ad avvertire, sotto quel mare di pubblicità che ogni giorno ci viene rovesciato addosso, una sorta di appello alla distruzione, una forma di nichilismo dovuto al fatto, come scrive Gunther Anders, che: «LZumanità che tratta il mondo come un mondo da buttar via, tratta anche se stessa come unZumanità da buttar via». Se nel sottosuolo della nostra anima collettiva si fa strada questa sensazione che muta la gerarchia dei nostri pensieri e la forma dei nostri comportamenti, anche il profilo del lavoro potrebbe mutare. Oggi, infatti, come ci ricorda Franco Totaro nel suo bel libro Non di solo lavoro, sotto lZimperativo della crescita il lavoro è visualizzato nel solo ambito dellZeconomia, e ciò vuol dire che solo lZeconomia è in grado di dare espressione allZuomo, il quale non avrebbe come suo riferimento altro orizzonte di senso se non quello determinato dal fare produttivo. A sua volta il lavoro, non avendo altra finalità se non quella di concorrere allZincremento infinito della produzione non sarebbe più il luogo in cui lZuomo, realizzandosi, incontra se stesso, le sue capacità, le sue ideazioni, lZattuazione della sua progettualità, ma solo il luogo in cui lZuomo tocca con mano la sua «strumentalità», il suo essere semplice appendice delle macchine, che nel loro insieme compongono lZapparato tecnico-economico, interessato solo al proprio potenziamento e non alle sorti dellZuomo. Perché allora non passare gradatamente dal «lavoro come produzione» (che ha in vista solo la sua crescita esponenziale senza ragione e senza perché) al «lavoro come servizio» dove la produzione non ha in vista solo beni e merci (di cui al limite non sappiamo neanche cosa farcene, se non fosse per i bisogni e i desideri indotti, cioè a loro volta prodotti), ma anche erogazione di tempo, di cura, di relazione. I profili lavorativi che potrebbero nascere da questa nuova visualizzazione del lavoro (di cui la società già sente a livello massiccio lZesigenza, se dobbiamo giudicare dal gran numero di persone che si dedicano al volontariato) sarebbero profili lavorativi che potrebbero trovare non solo una reale e massiccia domanda, ma anche un significativo riconoscimento economico, se lZeconomia, che pensa sempre e solo alla produzione, sapesse diversificare i suoi prodotti e incominciare a produrre non solo merci e sempre più merci, ma anche e in misura crescente servizi per la persona e per la relazione tra le persone. Nel mondo dellZopulenza compriamo, in modo maniacale merci e sempre più merci per compensare la depressione che ci deriva dalla mancanza di relazioni, che siano vere e non solo funzionali come esige la logica del lavoro. Non sarebbe impossibile invertire la tendenza, perché la felicità, nonostante la pubblicità vi alluda, non ci viene dallZultima generazione di telefonini o di computer, e più in generale di «prodotti», ma da uno straccio di «relazione» in più che il lavoro come servizio (e non solo come produzione) potrebbe incominciare a garantire * Gunther Anders (pseudonimo di Günther Stern) nacque a Breslavia nel 1902. Laureato in filosofia nel 1925, dopo studi condotti alla scuola di Husserl, emigrò per ragioni razziali nel 1933, trasferendosi prima a Parigi e poi negli Stati Uniti (New York e Los Angeles). Dopo essere stato il primo marito di Hannah Arendt, sposò nel 1945 la scrittrice Elisabeth Freundlich. Nel 1950 tornò in Europa, stabilendosi a Vienna dove morì nel 1992. È autore di un'opera ancora in parte inedita in cui l'interesse per la filosofia si alterna con quello per la letteratura. Sono famose le sue prese di posizione sulla bomba atomica (cfr. Essere o non essere e La coscienza al bando, entrambi Einaudi, 1961 e 1962), sulla guerra del Vietnam e su Cernobyl. Ci scusiamo se qualcuno di voi è finito per sbaglio nella rubrica dell'Associazione Partenia.Se non avete gradito il messaggio e se non volete più riceverne, potete inviare una mail con su scritto"cancellami".Provvederemo immediatamente.Cordiali saluti. ASSOCIAZIONE PARTENIA <http://utenti.lycos.it/partenia>http://utenti.lycos.it/partenia
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