le bonifiche ambientali restano una chimera



da repubblica mercoledi 06.07.2005  

Le bonifiche restano ancora una chimera
DONATELLA ALFONSO

In Italia c’è un deserto da 154 mila ettari. O meglio: potrebbero essere aree produttive, pezzi di città, campagne e spiagge ritrovate. Sono invece un deserto dove il paesaggio non sono certo le dune del Sahara, ma cumuli di sostanze dai colori, e dagli odori, non particolarmente attraenti; ciminiere e capannoni abbandonati, terre di nessuno in attesa di una vita possibile. E c’è anche un cielo sopra il deserto: dove le emissioni di monossido di carbonio — il 70% di quelle italiane solo dall’Ilva di Taranto, il 10% di quelle europee — tengono sicuramente lontani gli angeli, figuriamoci cosa fanno ai polmoni dei poveri mortali. Ufficialmente, in quei 154 mila ettari che costituiscono la lista delle 50 aree censite finora nel Programma nazionale di bonifica, si sta lavorando per eliminare veleni incrostati nei decenni, cercando di recuperare territori violentemente alterati. Se ci si riesca, con un processo che impegna milioni e milioni di euro, è ben altra cosa. Non ci crede più di tanto Legambiente, tanto da intitolare "La chimera delle bonifiche" il dossier presentato a Roma e consultabile anche su Internet (www. legambiente. com). Due anni di lavoro, 271 pagine fitte di date e dati, irte di nomi di malattie terribili: il mesotelioma pleurico a Biancavilla, le malformazioni congenite nel triangolo AugustaPrioloMelilli, in Sicilia. Un dizionario dei veleni e delle emergenze in qualche caso almeno affrontate, in altri colpevolmente o irresponsabilmente lasciate andare. Con una certezza: che l’Italia sta perdendo l’occasione di mettersi al pari di altri paesi europei per quanto riguarda l’uso delle migliori tecnologie per il recupero ambientale, che porterebbero a loro volta altro lavoro.
Ma quanto costa il recupero ambientale? Fare numeri è, si evince dal dossier, ancora una volta una chimera. Non solo perché il costo della bonifica va inteso al lordo di più voci: dagli indennizzi a chi si è ammalato agli ammortizzatori sociali per i lavoratori rimasti a spasso, alla reinfrastrutturazione degli spazi da rendere nuovamente produttivi. Ma perché, al di là degli investimenti statali per ogni sito si stabilisce che dovranno essere poi le varie realtà territoriali ad occuparsi delle cosiddette "aree esterne", cioè tutto quanto sta intorno alla ex fabbrica avvelenata. Il che avviene solo quando ci sono interventi di amministrazioni locali, come in Lombardia e in Piemonte; altrove poco o nulla si è fatto.
Il giro d’Italia dei veleni non risparmia nessuno. L’amianto dei poli industriali che producevano l’eternit a Casale Monferrato, ma anche a Bagnoli, Broni o Bari, la diossina nella discarica spezzina di Pitelli o a Marghera (che conta 3500 ettari da bonificare, mentre 14 mila si trovano in Campania, nel litorale domizioflegreo), il mercurio scaricato in mare a Priolo e nella laguna di Grado e Marano, il cromo esavalente della Stoppani nelle falde acquifere di Cogoleto, sulla riviera ligure di Ponente, il cadmio nel suolo e nel sottosuolo di Livorno, il ddt nel Lago Maggiore. Eliminarli tutti? Quasi impossibile, sostiene Legambiente: nella laguna di Venezia ci sono 7 milioni di metri cubi di sedimenti da dragare, nella sola provincia di Frosinone ci sarebbero 110 discariche non controllate dalle quali rimuovere un milione e mezzo di metri cubi di rifiuti di dubbia provenienza. E anche nell’unico intervento che sembra dare buoni risultati, cioè l’Acna di Cengio, restano comunque 140 mila metri cubi di sali sodici ancora da rimuovere negli eterni lagunaggi.
Nel 1991, ricorda Legambiente, era stato lanciato un grido d’allarme con il dossier su Enichem e la "faccia dimenticata" dell’industria chimica italiana. Da allora, si legge, sotto un certo profilo si sono fatti passi avanti, con la chiusura di impianti che peraltro sarebbero stati condannati dalla loro obsolescenza produttiva (Acna, Stoppani, petrolchimico di Manfredonia), con la presa di coscienza sui rischi per la salute e l’ambiente che ha portato nel 2001 all’approvazione del programma nazionale di bonifica da parte del ministero per l’ambiente; dai quindici siti originari, ora siamo a cinquanta aree prioritarie su cui intervenire. Ma dire che "si deve", non basta per fare. Tanto più che nel 2003 la Corte dei Conti bocciò lo svolgimento del programma, sottolineando i "risultati del tutto modesti" ottenuti sino a quel momento, con 29 perimetrazioni approvate e tre progetti soltanto definiti con decreto interministeriale, tutti sull’area di Porto Marghera. Sono passati due anni, la situazione, ad aprile 2005, è cambiata di pochissimo: 50 siti perimetrati, 40 progetti approvati, di cui 21 con firma del decreto, 144 interventi di messa in sicurezza d’emergenza: che significa, a grandi linee, recintare la nocività. Ma non eliminarla. Oltre a perderci in salute, insiste Legambiente, rischiamo di restare fuori dal grande business delle bonifiche ambientali.