da live 8 al g8 c'è di meglio che chitarre e buone intenzioni



dal corriere della sera di giovedi 30 giugno 2005

Dobbiamo abbandonare l'idea che gli aiuti coincidano solo con le somme effettivamente spese nei paesi destinatari e non con quelle spese complessivamente a loro beneficio

Dal Live 8 al G8 La campagna di Blair per aumentare i finanziamenti ai paesi poveri rischia di rivelarsi un tragico spreco di denaro. Il sostegno allo sviluppo passa da altre strade, per esempio riduire i sussidi eccessivi alla nostra ricca agricoltura

Una dieta economica sfamerà l’Africa

Cambiare la politica di aiuti al continente più sfortunato partendo dall’Occidente: ricerca, mercato, volontari

Nei prossimi giorni il tema degli aiuti ai paesi poveri, all’Afri ca su tutti, torna d’attualità, con il concertone Live 8 e con la riunione del G8, assemblea delle nazioni leader, per discutere della proposta di Tony Blair di aumentare i fondi per lo sviluppo. Da tempo studiosi come Jeffrey Sachs sostengono che la povertà è curabile con piani di sostegno adeguati. Altri, come il Nobel Amartya Sen, sono persuasi che vadano rimosse le ragioni culturali dell’arretratezza, migliorando, per esempio, la alfabetizzazione delle donne. In questo saggio originale, che anticipiamo dalla rivista «Aspenia» dell’Aspen Institute, è l’economista Jagdish Bhagwati, della Columbia Uni versity, a dire la sua: gli aiuti a pioggia non servono, anzi spesso peggiorano le condizioni locali. È un’intelligente programmazione degli investimenti, che parta dalla riduzione dei sussidi all’agricoltura ricca, a poter rimettere in moto l’economia dell’Africa. Una campagna seria contro la malaria, rivoluuzioni alimentari in laboratorio, nuove forme di volontariato serviranno alla fine più di chitarre e buone intenzioni.

di Jagdish Bhagwati

Dopo gli anni di  relativo disinteresse che hanno seguito la fine della Guerra fredda, si riparla di aiuti internazionali. La Commissione per l’Africa del primo ministro Tony Blair ha presentato il suo Rapporto, in cui raccoman da un sostanziale aumento degli aiuti al l’Africa.

Proposte del genere sono accolte con una buona dose di scetticismo. I sostenitori delle tesi scettiche non sono persone ciniche o moralmente limitate, che amano cenare in risto ranti a quattro stelle mentre i poveri del l’Africa soffrono di malnutrizione, né tanto meno assomigliano al gentiluomo inglese di una nota storiella che, di fronte alle grida («Aiuto, non so nuotare!») lanciate da un uomo caduto nel fiume, rispondeva con un lieve gesto di fastidio: «Anch’io non so nuota re, ma non per questo faccio tutto questo chiasso»!

In realtà, il partito degli scettici annovera eminenti economisti dello sviluppo, che co noscono bene la storia degli aiuti, oltre che alcuni africanisti con esperienza sul campo. Il loro timore è che la capacità di assorbi me:nto di molti dei paesi (anche se non tutti) in cui saranno spesi i fondi, sia limitata. Possiamo certamente aumentare gli aiuti, come suggerito in modo convincente dalla Commissione Blair e da altri, ma il problema fondamentale resta comunque di capire se è possibile farlo in modo così rapido, esteso e sostanziale.

Gli scettici temono quindi che una forte espansione degli aiuti porti, in molti casi, a uno spreco di risorse piuttosto che ai risultati desiderati in termini di sviluppo. Quando leggiamo delle enormi carenze di personale medico e paramedico nella maggioranza dei paesi africani e riconosciamo che anche la formazione di un numero maggiore di professionisti a livello locale provocherà un aumento della «fuga di cervelli», dobbiamo chiederci quanto siano realistici i piani di un sostanziale aumento degli aiuti. L’uso di zanzariere contro la malaria, per fare un esem pio, non comporta grosse spese e non sembra incontrare ostacoli reali: in teoria, basta trovare il denaro necessario per acquistarle e distribuirle. Eppure le zanzariere presuppongono i letti, che non si trovano facilmente nel mondo in via di sviluppo: come disse il primo ministro Indira Gandhi a chi auspicava che l’India riuscisse a camminare con le sue gambe, il problema è che spesso gli india ni non possono permettersi neanche le scarpe!

Ci sono poi gli ostacoli politici, che non è possibile eliminare con la sola forza di volon tà. Un mio amico pakistano, pioniere dei Rapporti sullo Sviluppo umano dell’UNDP (United Nations Development Program), ri peteva spesso che con i soldi spesi per produrre un carro armato si sarebbero potute costruire cinque scuole. Eppure, entrò poi nel governo del dittatore pakistano Zia, sotto cui il fondamentalismo dilagò e  la spesa militare aumentò a discapito di quella per l’istruzione.

Il rischio peggiore, tuttavia, non è lo spreco dei fondi: il problema è che un’accelerazione rapida degli aiuti potrebbe perfino risultare controproducente per il paese beneficiario, creando gravi danni reali. Quanti credono (come apparentemente il mio collega Jeffrey Sachs) nella «maledizione del petrolio» — ovvero che l’improvviso aumento del la ricchezza possa danneggiare un paese, alimentando dissolutezza e corruzione — devo no anche temere che i paesi recìpienti possano essere travolti da un’ondata di corruzione, alimentata dalla valanga di finanziarnenti che si rovescerebbero sulla classe burocratica e politica.

Molti ritengono che il sistema di controllo multilaterale africano cui hanno aderito circa 25 paesi nel quadro del meccanismo di controllo fra pari (Peer Review Mechanism) previsto dal Nuovo partenariato per lo svi luppo dell’Africa (NEPAD) attenuerà tale rischio. Ma questa sembra una previsione un po’ troppo ottimistica: basta pensare che il presidente sudafricano Mbeki non riesce, forse comprensibilmente, a condannare il presidente Mugabe dello Zimbabwe; basta riflettere sulle prevedibili difficoltà con cui si misura il governo della Nigeria nel tentativo di sradicare la corruzione endernica nel paese. Il rischio è che il consenso verso gli aiuti, anche modesti, possa venir meno di fronte al plateale spreco di somme molto più cospicue, danneggiando la credibilità del la politica degli aiuti in quanto tale. Fissare obiettivi ambiziosi è quindi un grosso errore; l’esuberanza, in questo caso, equivale alla follia.

D’altra parte, se si concepissero gli aiuti ai paesi in via di sviluppo in modo diverso e più adeguato — ovvero come finanziamenti spesi non solo in Africa ma per l’Africa — allora i grandi obiettivi (come quello di portare il livello degli aiuti allo 0,7% del Pii dei paesi OCSE) apparirebbero improvvisamente e paradossalmente, in modo opposto: non sufficientemente ambiziosi. E questo perché, se ci sono limiti a quanto possiamo spendere di rettamente in Africa, la possibilità di spendere denaro in modo produttivo qui, ma a beneficio dell’Africa, è molto maggiore. Se tali spese venissero, come è giusto, incluse nella categoria di «assistenza allo sviluppo del l’Africa», la capacità di spendere fondi in modo produttivo per contribuire allo sviluppo del continente aumenterebbe in misura straordinaria.

Quindi, quanti si oppongono a un aumen to degli aiuti allo 0,7% del Pii hanno ragione fino a che ci concentriamo come fanno i fautori di tale aumento — solo su quello che possiamo spendere in Africa; ma se cambiamo ottica e modifichiamo il concetto di aiuti internazionali includendo una varietà di spese produttive che possono aiutare lo sviluppo africano, anche le cose cambiano.

Proprio perché gli aiuti sono considerati un imperativo morale, la comunità internazionale ha sempre fatto riferimento a obiettivi misurati sui donatori, com’era l’l% del Pil; proprio come la Chiesa cattolica raccoglie la «decima» e l’Islam chiede un contributo (lo zakat) del 2,5% ai suoi fedeli.

L’obiettivo dell’ 1% nasce con Sir Arthur Lewis, che prima di vincere il premio Nobel per l’Economia collaborò con il leader inglese Hugh Gaitskell, che voleva stabilire un obiettivo chiaro per il programma del partito laburista. Negli anni, altre voci hanno chiesto flussi di aiuto anche più ambiziosi per fare fronte al problema della povertà mondiale, giungendo persino, come Andrei Sacharov, a proporre una «tassa sui paesi svi luppati pari al 20% del reddito nazionale»!

Nella pratica, tuttavia, anche l’obiettivo dell’l% è stato rapidamente ridimensionato allo 0,7% per gli aiuti ufficiali, più lo 0,3% per i flussi di capitali privati — mettendo a posto la coscienza dei donatori, ma contravvenendo al senso comune, dato che gli aiuti dovrebbero per definizione essere erogati senza corrispettivo. Non vanno insomma confusi con una qualsiasi transazione com merciale finalizzata al vantaggio reciproco, come sono i flussi di capitali privati.

Qualsiasi obiettivo comporta sempre una difficoltà implicita: la sua traduzione in un impegno politico. Ovviamente, se gli aiuti vengono sprecati o peggio, ci troveremo nel l’impossibilità di «venderli» politicamente. Tuttavia, anche dando per scontato che i fondi siano correttamente assorbiti e utilizzati dai paesi beneficiari, come garantire che i politici dei paesi ricchi accettino di impe gnarsi negli aiuti?

Negli anni Cinquanta, i primi sostenitori dell’assistenza allo sviluppo — quali l’economista e intellettuale svedese Gunnar Myrdal e il pioniere dell’economia dello sviluppo Paul Rosenstein-Rodan — proposero che gli aiuti fossero concessi sulla base di pure motivazioni altruistiche, ma ciò apparve subito troppo utopistico. Da allora, più pragmaticarnente, i fautori degli aiuti li hanno sempre presentati come una soluzione illuminata che rispondeva al migliore interesse dei donatori stessi. La Guerra fredda ha fa vorito per anni tale approccio: senza il nostro sostegno, il mondo in via di sviluppo sarebbe caduto in mano ai sovietici.

L’argomento ha poi perso di efficacia e si è passati a motivazioni meno convincenti. La Commissione Brandt, ad esempio, sostenne che gli aiuti sarebbero serviti a promuovere l’occupazione interna, passando però sopra al fatto che all’epoca non esisteva nei paesi donatori una disoccupazione keynesiana, e che per raggiungere questo obiettivo, con più efficacia e a costi inferiori, bastava sem plicemente aumentare la spesa interna. Non stupisce quindi che le raccomandazioni del Rapporto Brandt siano cadute nel vuoto.

Anni dopo, negli Stati Uniti si disse che se gli americani non avessero aiutato il Messico, il paese sarebbe stato invaso da sciami di «profughi del peso»: anche in questo caso, ignorando il fatto che un lieve aumento del reddito dei messicani non avrebbe fatto altro che finanziare altri tentativi di ingresso negli Stati Uniti attraverso il Rio Grande.

In tempi più recenti si è passati alla guerra contro il terrorismo come motivazione degli aiuti, senza tener conto del fatto, ormai noto, che normalmente i terroristi non sono affatto né poveri né ignoranti, ma provengono dalle fila della borghesia istruita. Questo tentativo costante di sostituire una motivazione altruistica con una egoistica fa pensare alla storiella in cui un povero e un ricco pregano in chiesa. Il ricco dice: «Signore, ti prego di darmi un milione di dollari perché devo rimborsare un prestito». E il povero: «Signore, dammi un dollaro, perché io possa comprare del pane e non morire di farne». A quel punto il ricco, estraendo dal portafoglio un biglietto da cento dollari e infilandoglielo nella tasca, gli intima: «Prendi questi e compra tutto il pane che ti serve. Ma esci di qui perché ho bisogno di tutta l’attenzione di nostro Signore»!

Siamo in un momento di trasformazioni sistemiche. L’obbligo morale è un concetto facilmente comprensibile per le élite cosmopolite, ma non funzionerà a livello più ampio se manca un forte legame di empatia fra le nazioni o le comunità di paesi diversi. Oltre due secoli fa Adam Smith poneva la questio ne in modo mirabile nella sua Teoria dei sentimenti morali, sostenendo che un europeo di grande umanità non avrebbe chiuso occhio per tutta la notte al timore di perdere

un dito mignolo, ma che avrebbe dormito sonni profondi se un cataclisma avesse colpito milioni di altri esseri umani all’estero — a condizione di non dover assistere mai alle loro sofferenze.

Con internet e con la rivoluzione dei mezzi di comunicazione, la teoria di Sinith è superata. Oggi abbiamo continuamente sotto gli occhi le epidemie e le carestie in ogni parte del mondo e non possiamo più dormirci sopra tranquillamente. Per i fautori degli aiuti, quindi, il momento è giusto: siamo nelle condizioni politiche in cui diventa possibile promuovere un aumento consistente degli aiuti.

Ma finché non risolverenio il problema della capacità di assorbimento degli aiuti da parte dei paesi beneficiari, non potremo trarre vantaggio da questa nuova consapevolez za. Ed è per questo che dobbiamo abbandonare l’idea che gli aiuti coincidano soltanto con le somme effettivamente spese nei paesi recipienti, e non con quelle spese complessi vamente a loro beneficio. L’espressione «aiuti internazionali» o «esteri» riflette la vecchia impostazione; deve quindi essere sostituita con quella, peraltro già ben nota, di «aiuti allo sviluppo».

In questo modo, potremmo fare molto per l’Africa dall’estero. Si consideri, per esem pio, lo sviluppo di vaccini e di cure per la febbre gialla, la malaria e altre malattie. Un approccio simile a quello adottato dagli inglesi con la creazione di un Istituto di medicina tropicale potrebbe oggi consentire l’assorbimento di fondi pubblici molto più ingenti, finalizzati a combattere le malattie ìn Africa.

Potremmo, ad esempio, offrire una compensazione ai produttori di cotone americani, in modo che Washington possa gradualmente abolire quei sussidi che danneggiano le esportazioni dei quattro grandi produttori africani di cotone. Potremmo finanziare su ampia scala ricerche innovative per le colture africane, puntando a ottenere gli stessi risultati raggiunti da Norman Borlaug con l’invenzione delle sementi che hanno innescato la Rivoluzione verde nei paesi in via di sviluppo. Potremmo creare dei «Peace Corps d’Argento» trasferendo in Africa per un cer to periodo i nostri anziani ancora attivi, affin ché contribuiscano ad alleviare l’enorme carenza di competenze che ostacola lo sviluppo del continente. Le possibilità sono illimitate.

Certamente, una riconcettualizzazione su queste linee degli aiuti allo sviluppo avrebbe l’effetto di fare apparire come poco ambizioso quell’obiettivo di spesa dello 0,7% del Pil sostenuto con tanta decisione dai fautori del «Big Aid». Ora che siamo in una fase di «empatia» per lo sviluppo, se potessimo dawero sfruttare la nostra capacità di progettare e attuare programmi che, da casa nostra, aiutino i paesi poveri, potremmo puntare più in alto.