i rifiuti spariti. Chi li ha visti ?



da econews
Anno 4 Nr. 4 - 17 06 2005::


Chi li ha visti?

Una montagna alta come il Monte Penice, nell'Appennino dell'Oltrepo pavese.
Una montagna con una base di tre ettari che continua a crescere e che oggi
tocca i 1460 metri d'altezza. È suggestiva l'immagine scelta da Legambiente
nel Rapporto Ecomafie 2005, ancora fresco di stampa, per tentare di dare
un'idea della quantità di rifiuti speciali che, in Italia, scompaiono nel
nulla nel tragitto compreso tra i luoghi di produzione e quelli di
smaltimento o recupero.
Già, perché stando a quanto si legge nel Rapporto Rifiuti 2004 di APAT e
Osservatorio Nazionale sui Rifiuti, nel 2002 (anno a cui si riferiscono i
dati più aggiornati), in Italia sono stati prodotti 92,1 milioni di
tonnellate di rifiuti speciali, ma ne sono stati gestiti 77,5 milioni. Il
che equivale a dire che anche nel 2002 diversi milioni di tonnellate di
rifiuti speciali (14,6 per l'esattezza) sono semplicemente... scomparsi: ne
viene stimata la produzione, ma non se ne conosce il destino finale.
Secondo il Rapporto 2004 di APAT e ONR, dei circa 92,1 milioni di
tonnellate di rifiuti speciali prodotti in Italia nel 2002, 49,3 milioni di
tonnellate sono non pericolosi, 4,9 milioni di tonnellate sono rifiuti
speciali pericolosi, 37,3 milioni di tonnellate sono rifiuti da costruzione
e demolizione e circa 401 mila tonnellate sono "rifiuti non determinati".

Da dove vengono?
La distribuzione della produzione degli speciali nel 2002, tra le diverse
tipologie previste dall'Elenco Europeo dei Rifiuti, rileva che le categorie
maggiormente rappresentate dei non pericolosi sono: rifiuti da costruzione
e demolizione (43% del totale con 37,3 milioni di tonnellate); rifiuti da
impianti di trattamento (13,6% con 11,8 milioni di tonnellate); rifiuti
inorganici prodotti da processi termici (11% con 9,6 milioni di
tonnellate); rifiuti della prospezione, estrazione e lavorazione di
minerali e materiali di cava (6,7% con 5,8 milioni di tonnellate). Quanto
ai rifiuti speciali pericolosi, invece, le categorie maggiormente
rappresentate sono: rifiuti da processi chimici organici (24 % del totale
con 1,2 milioni di tonnellate); rifiuti non specificati altrimenti
nell'elenco (12%, 0,6 milioni di tonnellate); rifiuti inorganici prodotti
da processi termici (9,4%, 0,47 milioni di tonnellate); oli esausti (8,8%,
0,44 milioni di tonnellate). Questa descrizione tiene conto, avverte il
Rapporto, della classificazione introdotta dal nuovo Elenco Europeo dei
Rifiuti (in vigore dal 1° gennaio 2002) che, oltre a prevedere una
classificazione in origine dei rifiuti come pericolosi o non pericolosi,
introduce l'identificazione di pericoloso o non pericoloso anche in
funzione della concentrazione di sostanze pericolose presenti nei rifiuti.
Tale modifica, che ha l'indubbio merito di migliorare l'identificazione e
la classificazione dei rifiuti, ha di fatto determinato un aumento dei
rifiuti pericolosi, a fronte di una diminuzione dei non pericolosi. In
cifre, precisa il Rapporto, nel triennio 2000/2002 si è registrato un
incremento della produzione totale di rifiuti speciali con una diminuzione
dei rifiuti non pericolosi (-5,1%) e un notevole incremento di quelli
pericolosi (+22%).

Dove vanno a finire?
La forma di gestione più utilizzata per i rifiuti speciali è rappresentata
dal recupero, settore che assorbe circa il 50% del totale (oltre 42 milioni
di tonnellate). «Si tratta però di un dato falsato - sottolinea Ghita
Gorio, responsabile del settore Rifiuti speciali della società di servizi
ambientali Ecodeco e consigliera di Fise Assoambiente - che nasce dalla
grande confusione generata dal DM 5 febbraio 1998 (Individuazione dei
rifiuti non pericolosi sorroposti alle procedure semplificate di recupero,
ndr). Provvedimento che ha sì diminuito drasticamente la quantità di
rifiuti destinati agli impianti di smaltimento, ma con un trucco: si fa
passare per recupero di materia un'enorme quantità di rifiuti che, in
realtà, sono smaltiti al di fuori degli impianti tradizionali».
Trucco che, a ben guardare, è svelato nello stesso Rapporto Rifiuti 2004 di
Apat Onr là dove scrive: «Per i rifiuti non pericolosi, l'analisi dei dati
evidenzia che le quantità di rifiuti avviati al recupero/riciclo delle
sostanze inorganiche, tra il 1998 ed il 2002, subiscono un incremento
notevole arrivando al 49% con circa 21 milioni di tonnellate; si tratta,
nella maggior parte dei casi di recuperi non effettuati all'interno di
impianti, ma derivanti dall'utilizzo di rifiuti per rilevati e sottofondi
stradali, rimodellamenti morfologici, riempimenti di cave, ricopertura
giornaliera o finale delle discariche, ripristini ambientali. La tipologia
di rifiuti maggiormente utilizzata per tali operazioni di recupero è
rappresentata dagli inerti da costruzione e demolizione».
Al secondo posto nell'elenco delle forme di gestione dei rifiuti speciali
più utilizzate si trova lo smaltimento in discariche autorizzate (26%, pari
a circa 20 milioni di tonnellate); seguono: il trattamento chimico-fisico,
o biologico, preliminari allo smaltimento (16%, pari a 12,4 milioni di
tonnellate); il deposito preliminare o la messa in riserva in impianti di
stoccaggio o in impianti che effettuano anche altre operazioni di recupero,
operazione gestita da soggetti autorizzati che assorbe il 16% dei rifiuti
speciali (pari a 15,5 milioni di tonnellate); la valorizzazione energetica
(circa il 3% circa, pari ad un quantitativo di 2,3 milioni di tonnellate di
rifiuti) sia in impianti dedicati (impianti di recupero di biogas, impianti
di valorizzazione di biomasse, gassificatori) sia in impianti produttivi
quali cementifici, impianti per la produzione di energia, ed altri impianti
produttivi che utilizzano rifiuti come combustibile; residuale, infine, la
quantità di rifiuti speciali avviata all'incenerimento (poco più dell'1%,
pari a circa 823 mila tonnellate).

Il buco nero dello stoccaggio
Di tutte queste destinazioni, sono gli impianti di stoccaggio a
rappresentare l'anello debole della catena, una sorta di buco nero dove
sono transitati secondo il rapporto dell'Apat e dell'Onr circa 15,5 milioni
di tonnellate di rifiuti, una cifra molto simile guarda caso alla stima dei
14 milioni di tonnellate di rifiuti speciali che secondo Legambiente sono
scomparsi nel nulla, e li fa ricomparire in un circuito alternativo che
segue rotte di ogni tipo, interprovinciali, interregionali, da Nord a Sud:
non importa la direzione, l'importante è che se ne perdano le tracce.
Destinazione finale: smaltimento abusivo. «In Italia, smaltire abusivamente
si può, perché oltre il 70% del totale dei rifiuti speciali passa dai
centri di stoccaggio mallevando dalla responsabilità i produttori dei
rifiuti» dice Ghita Gorio. Cosa vuol dire? Che da quel momento il rifiuto
può prendere (e, di fatto, spesso prende) qualunque direzione.

Piatto ricco...
«Piatto ricco, mi ci ficco», recita un vecchio proverbio. E con le cifre
appena esposte una cosa salta subito agli occhi: quello dei rifiuti è un
settore nel quale si può realizzare un bel business. Talmente "bello" da
aver generato un mercato illegale di dimensioni interessanti. A
descriverlo, minuziosamente in tutti i suoi aspetti, è il rapporto Rifiuti
Spa. Radiografia dei traffici illeciti (gennaio 2005) realizzato
dall'Osservatorio nazionale ambiente e legalità di Legambiente in
collaborazione con il Comando Carabinieri per la Tutela dell'ambiente. «Un
mercato in piena regola, con i suoi prezzi per ogni tipologia di rifiuti e
con i suoi profitti, a dire il vero molto alti, considerando i bassissimi
costi da sostenere e la totale inosservanza delle più elementari regole di
sicurezza per l'ambiente e la salute» precisa Stefano Ciafani coordinatore
dell'ufficio scientifico di Legambiente, tra i curatori del Rapporto.
La tipologia dei rifiuti trattati? «Ricchissima - aggiunge Ciafani - si va
dalle polveri di abbattimento fumi delle acciaierie ai fanghi di depuratori
industriali e civili; dalle terre derivanti dalle operazioni di bonifica ai
rifiuti contenenti rame, arsenico, mercurio, cadmio, piombo, cromo, nichel,
cobalto, molibdeno; dai residui di conceria ai rifiuti ospedalieri, dai
rifiuti urbani ai pneumatici fino al fluff, le parti non metalliche delle
automobili dismesse». E come ogni mercato che si rispetti, anche quello dei
rifiuti speciali ha il suo prezziario (rimasto rigorosamente in lire).
Qualche esempio: terre di spazzamento delle strade, 55 lire/kg; imballaggi
con residui di rifiuti pericolosi, da 280 a 350 lire/kg se "trattati" in
maniera fraudolenta; diluenti e altri rifiuti pericolosi, 500 lire/kg;
terre e inerti da lavori cimiteriali, 30 lire/kg; fluff a 185 lire/Kg,
trasporto compreso; rifiuti costituiti da pentasolfuro di fosforo a 1.200
lire/kg.

Secondo i carabinieri del Comando tutela ambiente, il profitto illecito
realizzato in circa sei mesi durante un traffico fermato grazie a una delle
numerose inchieste portate a termine dall'Arma contro la "Rifiuti Spa", si
può stimare sia stato di 3,3 milioni di euro, mentre l'evasione
dell'ecotassa ammonta a circa 500mila euro. «Chi ha prodotto la "materia
prima" dei traffici (in particolare fanghi di conceria) - precisa il
Rapporto - ha risparmiato, tranne qualche eccezione di produttore truffato,
almeno la metà del costo. Chi li ha gestiti illegalmente ha incassato per
intero i proventi, senza sostenere i costi previsti da un corretto
smaltimento». È proprio il caso di dirlo: oltre al danno (all'ambiente) la
beffa (all'erario).

Il "giro di bolla"
Fino a qualche tempo fa, tutto andava bene per smaltire illegalmente e alla
luce del sole i rifiuti speciali: cave dismesse, buche scavate sotto il
sole in luoghi un po' fuori mano, capannoni industriali stipati come uova.
Oggi, con l'intensificarsi delle operazioni di contrasto da parte delle
forze dell'ordine, le tecniche di smaltimento illegale si avvalgono di
metodologie più sofisticate. Una tra le più diffuse è l'operazione del
cosiddetto "giro bolla" o "triangolazione". «Consiste - si legge nel
Rapporto Ecomafia 2005 - nel far transitare i rifiuti solo cartolarmente da
uno stoccaggio all'altro, oppure attraverso impianti di recupero e/o di
compostaggio con il fine di declassare la tipologia del rifiuto trattato,
aggirando la normativa. Attraverso una rete articolata di faccendieri,
analisti, chimici, impiegati e trasportatori il rifiuto entra con la bolla
del produttore e con un determinato codice in un centro di stoccaggio.
Successivamente con una nuova bolla dello stesso centro, lo stesso rifiuto,
senza subire alcun trattamento ed in alcuni casi subendo solo la
miscelazione con altri rifiuti, è inviato per lo smaltimento/recupero
finale, ovviamente dopo aver cambiato "identità". Un solvente tossico
destinato a finire in una discarica di rifiuti pericolosi, dopo il giro
bolla, attraverso una miscelazione è "trasformato" in un innocuo rifiuto
urbano e poi avviato se va bene in una discarica per rifiuti urbani ma
nella maggior parte dei casi gettato in discariche illegali o recuperato
come compost da usare nei terreni agricoli o come sottofondo stradale».

Che fare?
Negli ultimi anni, a dire il vero, la rete di trafficanti di rifiuti attiva
in Italia qualche duro colpo l'ha subito. Grazie all'art. 53 bis del D.
Lgs. 22/97, meglio noto come Decreto Ronchi, che punisce con la reclusione
da 1 a 6 anni il delitto di "Attività organizzata per il traffico illecito
di rifiuti", secondo le elaborazioni di Legambiente da febbraio 2002 a
maggio 2005, il Corpo forestale dello Stato, la Guardia di finanza e
soprattutto il Comando Tutela ambiente dell'Arma dei Carabinieri hanno
condotto 37 indagini che hanno portato a 221 arresti di trafficanti e 739
denunce, hanno impegnato 25 Procure e coinvolto 19 regioni e 213 aziende
(dall'intermediazione allo smaltimento, passando per il trasporto, lo
stoccaggio e il trattamento).
Una norma necessaria ed efficacissima, dicono associazioni ambientaliste e
forze dell'ordine, ma che secondo gli industriali da sola non può bastare.
«Tutta la materia è oggi regolata da norme confuse, difficilissime da
applicare e da far rispettare - sottolinea Ghita Gorio -; il settore,
invece, ha bisogno di poche leggi, chiare e semplici, di una legislazione
nazionale che ponga fine all'attuale regime di devolution. Oggi ogni
regione, persino ogni provincia, può decidere modalità diversissime di
concessione di autorizzazioni. Autorizzazioni che, a loro volta, sono
spesso assolutamente incomprensibili». E allora? «Allora - conclude Gorio -
bastano quattro cose: una legislazione nazionale chiara e semplice; il
riconoscimento della responsabilità del produttore sui suoi rifiuti fino
alla loro destinazione finale; una fideiussione sui rifiuti stoccati a
carico di chi gestisce gli impianti; una legge sul recupero dei rifiuti più
chiara del DM 2/5/98 e in armonia con le direttive europee».
Ancora. «Non bisogna sottovalutare - aggiunge Lucia Venturi, responsabile
scientifica di Legambiente - la scarsa efficacia dei controlli di carattere
amministrativo sulle autorizzazioni concesse, spesso con procedure
semplificate, agli impianti di stoccaggio, trattamento e recupero. Ma i
controlli andrebbero effettuati a partire dai luoghi di produzione, per
mettere in atto una sorta di "tracciabilità" dei rifiuti, che renderebbe
più difficoltose sia le elusioni da parte di chi li produce, sia le
attività illecite di miscelazione e del successivo smaltimento. Il ruolo
dei produttori è infatti fondamentale nella filiera dei controlli e sarebbe
quindi auspicabile da parte loro un maggiore senso di responsabilità, anche
nel monitoraggio dei contratti di raccolta, trasporto e smaltimento, così
da evitare possibili truffe».
A chiedere un giro di vite sui controlli nella raccolta e trasporto dei
rifiuti non sono solo gli ambientalisti. È del 9 giugno la condanna
dell'Italia da parte della Corte di giustizia dell'Ue per non aver
rispettato le direttive europee in materia di rifiuti, in particolare
l'obbligo di registrazione, presso le autorità competenti, delle imprese
responsabili della raccolta o del trasporto dei rifiuti. Due i "capi
d'accusa": l'Italia «permette alle imprese di esercitare la raccolta e il
trasporto dei propri rifiuti non pericolosi, come attività ordinaria e
regolare, senza obbligo di essere iscritte all'Albo nazionale delle imprese
esercenti servizi di smaltimento rifiuti»; l'Italia permette alle imprese
produttrici di «trasportare i propri rifiuti pericolosi in quantità che non
eccedano i 30 chilogrammi e i 30 litri al giorno, senza obbligo di essere
iscritte all'Albo». Concessioni, sostiene la Corte europea, che contrastano
con la direttiva comunitaria che, al contrario, nell'intento di
intensificare il controllo da parte delle autorità sul ciclo dei rifiuti,
prevede per questo tipo di aziende, ma anche per quelle che smaltiscono o
recuperano rifiuti per conto di terzi (commercianti o intermediari),
l'obbligo di essere iscritti presso le competenti autorità qualora non
siano soggetti ad autorizzazione.

Alina Lombardo

Il "Rapporto Ecomafia 2005" è distribuito dal Centro di documentazione di
Legambiente (contributo 10,00 euro + spese di spedizione)
Info: 06/86268327